Voucher: il dito e la luna
Dei tre referendum abrogativi proposti dalla CGIL, su cui ieri si è espressa, per vagliarne la legittimità, la Corte Costituzionale, i due più rilevanti per il mercato del lavoro nel suo complesso sono certamente quelli sull’articolo 18 (il cui quesito è dichiarato inammissibile, auspicabilmente relegando per sempre il tema ai confini della storia) e sulla responsabilità solidale nei subappalti. Ma il terzo, sui cosiddetti voucher o buoni lavoro, ha un valore simbolico che i primi due non hanno.
La campagna referendaria dei prossimi mesi avrà per oggetto principale, con ogni probabilità, proprio quest’ultimo quesito. Ma la ragione che lo rende interessante non è questa – bensì il suo opposto. Sembrerebbe facile, infatti, identificare con precisione i fronti opposti della battaglia: quello della flessibilità da una parte, e quello delle tutele dall’altra. Il problema è che la partita che giocano è un’amichevole di mezza estate, perché il sempre più massiccio utilizzo dei voucher (più che raddoppiato negli ultimi dieci anni) è soltanto una spia di un problema molto più grande che affligge il nostro mercato del lavoro: e cioè che metà dello stipendio di ciascun lavoratore del settore privato è depredata dallo Stato e, ancor peggio, da sue articolazioni di matrice fascista. E se la metà dello stipendio di ciascun lavoratore finisce nelle mani dello Stato e delle sue articolazioni di matrice fascista, come possiamo sorprenderci se le imprese non assumono e ricorrono ai voucher?
Ma questo problema, nel referendum della prossima primavera e nella campagna che lo precederà, non troverà spazio. E, badate bene, la colpa non è solo della CGIL, ma soprattutto di chi negli ultimi anni ha destinato ogni sforzo politico, normativo ed economico alla flessibilizzazione dei contratti di lavoro senza intervenire sul cuneo fiscale (aumentato del 4% negli ultimi dieci anni), così offrendo ottimi argomenti a chi di argomenti non ne aveva proprio più, come la CGIL, per opporsi al Jobs Act facendo leva sui numeri, disastrosi, del mercato del lavoro negli anni della crisi. Se la surreale, anacronistica discussione sull’articolo 18 si è protratta sino ad oggi, insomma, la colpa è pertanto anche di quelle stesse forze politiche che, al referendum della prossima primavera, difenderanno i voucher.
Queste ultime, per inciso, hanno perfettamente ragione ad opporsi all’abrogazione dei buoni lavoro, per ragioni morali ancor prima che economiche. L’auspicio è che il giorno in cui costoro e i loro avversari capiranno che il problema principale del mercato del lavoro è che oggi ciascun posto di lavoro nel settore privato ne costa alle aziende uno e mezzo arrivi prima che quel posto ne costi due; di cui il secondo, magari, utile a pagare lo stipendio a ciascuna delle 900 persone che l’INPS intende assumere nel 2017.
Twitter: @glmannheimer