30
Mar
2021

Maratona concorrenza. Il voto plurimo: meglio pensarci due volte

Quello delle azioni a voto plurimo è un argomento che, ciclicamente e con frequenza sempre più intensa, attira l’interesse di studiosi, operatori e istituzioni.

Per quanto riguarda, nello specifico, queste ultime, oltre al suggerito e poi abbandonato approccio al tema tra la versione in bozza e quella definitiva del “decreto Rilancio” (sul punto, sia consentito il richiamo al mio “Se un’azione (non) vale un voto”, già pubblicato su questo Blog), è da annotarsi oggi l’attenzione con cui l’AGCM, attraverso la sua recente Segnalazione in merito alle proposte di riforma concorrenziale ai fini della legge annuale per il Mercato e la Concorrenza (2021), si interessa al profilo, ritenuto con tutta evidenza cruciale, insieme ad altri, per uno sperato e atteso rinvigorimento delle dinamiche del mercato italiano.

Le posizioni espresse dall’Autorità, giova evidenziare, sono capaci di riassumere, nello spazio di alcune righe, le letture classiche sul punto offerte nel corso degli anni, e traducono un percorso logico-argomentativo che, muovendo in estrema sintesi dal problema della competizione tra ordinamenti e del conseguente rischio di forum shopping, invita a “riconsiderare” il ricorso a questo strumento.

La proposta non appare tuttavia scevra da criticità, sulle quale giova soffermarsi.

Premettiamo che le azioni a voto plurimo – tecnicamente qualificabili come titoli partecipativi caratterizzati da un diritto amministrativo (il voto) potenziato (fino a un massimo di tre) e a prescindere dalle caratteristiche personali del titolare (in questo aspetto risiede una delle differenze con il “premio fedeltà” contemplato invece dal c.d. voto maggiorato) – sono già note al sistema italiano, ove sono tuttavia disciplinate in modo disomogeneo: possono essere liberamente adottate dalle società non quotate (art. 2351 c.c.), mentre dopo la quotazione – ai sensi dell’art. 127-sexies del t.u.f. – possono essere conservate solo quelle già esistenti.

I vantaggi delle azioni a voto plurimo sono stati messi in luce, soprattutto dalla letteratura economica, a più riprese, e si concentrano – così come riportato anche dall’AGCM – principalmente e inter alia (i) nella capacità di rafforzare la stabilità del controllo della società, a sua volta propedeutica ad assicurare una gestione maggiormente “virtuosa”, in quanto orientata a perseguire obiettivi di medio-lungo termine e non short term. Nondimeno, l’introduzione del voto plurimo anche dopo la quotazione permetterebbe di (ii) livellare le differenze di disciplina ad oggi in essere con altri Paesi, così garantendo il level playing field per le società quotate a Piazza Affari.

Vi è da chiedersi, tuttavia, se tali finalità ed esigenze siano effettivamente concrete e salutari per il sistema italiano.

In altri termini – fermo restando il progressivo e condivisibile consolidamento di posizioni ufficiali (dalla Seconda Direttiva Azionisti al Codice di Corporate Governance per le società quotata italiane) intese a incoraggiare una gestione (funzione che, si ricordi, compete agli amministratori) orientata a finalità long term (a prescindere dalle categorie di azioni della società) –, pare lecito affermare che le azioni a voto plurimo avvantaggino il socio di controllo o il nucleo di comando i quali, dall’alterazione della proporzionalità diretta tra rischio e voto sopra anticipata, non potrebbero che trarre un chiaro beneficio, consistente nell’aumento del proprio potere, a condizioni economiche e impegno finanziario ridotti. Quanto precede, con evidenti conseguenze negative, innanzitutto a danno della minoranza assembleare.

Tale circostanza, in particolare, risulterebbe assai considerevole, ancor più laddove calata in un mercato – quale quello italiano – già connotato da una concentrazione, più che da una dispersione, di potere, e in cui il moltiplicatore di voti in esame potrebbe dunque porsi quale serio disincentivo all’investimento da parte di terzi in società in cui la “rendita di posizione” dei soci di controllo verrebbe ancor più confermata. Vero è che, come scritto nella Segnalazione, l’ordinamento già prevede alcune forme di alterazione del rapporto proporzionale diretto tra investimento e voto; ciò, tuttavia, non esclude che il voto plurimo ne rappresenti la massima espressione, dunque da trattarsi attraverso la predisposizione di concrete misure di protezione e di adeguati correttivi.

Quanto al secondo profilo (competizione tra ordinamenti) e anche al di là delle dinamiche di diritto societario – nel cui ambito, a detta di chi scrive, è comunque sempre da accogliersi positivamente l’estensione dell’autonomia privata a favore degli operatori –, emerge con chiarezza dai ragionamenti dell’Autorità che il punto dolente è il differenziale competitivo intercorrente tra società aventi sede in Italia e società aventi sedi in altri Paesi, in cui i limiti sopra menzionati non esistono, con conseguente incentivo delle prime a spostarsi in questi ultimi ordinamenti (la vicenda di FCA docet!).

Come precisato dall’AGCM, infatti, “i limiti che l’ordinamento italiano continua ad esprimere nei confronti delle azioni a voto plurimo sembrano non tenere conto delle esigenze che il mercato manifesta e rappresentano, per le società interessate a mantenere o aprire una sede in Italia, ostacoli non desiderabili alla libera organizzazione dell’attività economica, destinati a tradursi in costi ingiustificati che spingono le imprese a non scegliere l’Italia come propria sede o a spostare quest’ultima all’estero, come più volte accaduto anche dopo la riforma del 2014”.

Tale considerazione – pur forse a tratti esagerata – è, senza dubbio, meritevole di massima attenzione e di divenire centrale nelle riflessioni e negli interventi che l’AGCM sollecita.

La stessa, nondimeno, ben può essere di spunto per estendere il ragionamento ad altri ambiti e profili operativi che, segnando un distinguo tra Stati membri, indirettamente evidenziano i limiti di un sistema europeo non uniforme e, come tale, di fatto incentivante comportamenti finanche opportunistici dei suoi attori, correttamente (rectius: obbligatoriamente?) indirizzati ad adottare la soluzione migliore per il perseguimento dei propri obiettivi e, tra questi, del fine principale della gestione della società, consistente nella realizzazione di un interesse sociale, sempre più “slegato” dall’interesse (esclusivo) degli azionisti.

La serietà e le possibili conseguenze di sistema della liberalizzazione del voto plurimo richiedono dunque un’analisi puntuale. E che, si ritiene, verrà prima o poi condotta nella consapevolezza delle caratteristiche del mercato italiano, così da evitare di incorrere in una possibile e grave confusione: quella di adeguarsi ciecamente a soluzioni straniere, ignorando che l’auspicata race to the top possa anche tradursi in una pericolosa race to the bottom.

Il primo articolo della maratona #concorrenza2021 e la lista degli altri articoli sono disponibili qui.

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