Viva Modell Deutschland? Quante teste dovrebbero cambiare nei partiti, sindacati e imprese…
Ieri a sorpresa il premier Matteo Renzi ha difeso il Modell Deutschland, il mercato del lavoro e l’esempio della crescita tedesca come esempio positivo da seguire. Una sorpresa, in tempi in cui la piega assunta dalla politica italiana, ma anche dal dibattito pubblico, dai media e da vasta parte dell’accademia italiana, è nettamente critico verso la Germania, se non antitedesco tout court. E’ un bene , se non è una provocazione fine a se stessa. Perché l’Agenda Germania 2010, che il cancelliere socialdemocratico Schroeder ebbe il merito e il coraggio di lanciare nel 2003, è davvero stata la svolta che ha rimesso in piedi prima, e rilanciato poi, una Germania che nel 2001 era il malato d’Europa, col massimo dei disoccupati dal dopoguerra, costi del welfare fuori controllo, spesa pubblica e tasse parecchio più elevate di quelle italiane. Il problema è che per seguire davvero – sia pur con enorme ritardo – il Modell Deutschland, a cambiar la testa dovrebbero essere in tanti. Non solo la politica. Ma i sindacati, nel pubblico e nel privato. E la stessa impresa privata, per molte ragioni.
La Germania mise le basi per abbassare spesa pubblica e tasse di più di 5 punti di PIl, da noi spesa e tasse sono sempre salite. Ma di questo facciamo pure stato, è pressoché inutile immaginare oggi che la politica tagli davvero spesa e tasse di 5 punti di Pil, come sarebbe necessario e come anche ieri proponeva il professor Guido Tabellini, ma immaginando sconsolatamente che a questo punto la cosa possa avvenire solo se l’Europa ci consentisse di farlo in deficit. Mentre la Germania l’ha fatto mettendo in Costituzione un divieto vincolate a far debito pubblico aggiuntivo dal 2015 sia per lo Stato federale che per i Laender, non la nostra ridicola riscrittura dell’articolo 81 contro cui molti belluinamente protestano, e che pure non fissa proprio per nulla l’obbligo del deficit zero.
Ciò su cui dovremmo innanzitutto seguire il Modell Deutschland è il rilancio della produttività. Il problema ormai di lungo periodo del declino italiano, che dura da oltre 20 anni. E che politica, sindacati e imprese italiane (sì, anche loro come vedremo) stentano a considerare il problema numero uno italiano: persino peggiore della finanza pubblica visto che il debito pubblico al 135% del Pil è per fortuna – o purtroppo, dipende dai punti di vista – garantito dall’elevata patrimonializzazione e dal basso indebitamento delle famiglie italiane. Ma se guardiamo alle determinanti della svolta della competitività tedesca, se consideriamo gli elementi fondamentali grazie ai quali in Germania il tasso di occupazione è superiore di 18 punti percentuali al nostro scarso 55%, e la competitività misurata in termini di costo comparato a parità di input multifattoriali ha perso in Italia oltre 35 punti percentuali sulla Germania in un ventennio, allora voler seguire il Modell Deutschland imporrebbe una vera rivoluzione, collettiva, di testa e comportamenti.
Il mercato del lavoro tedesco è stato ridisegnato dai pacchetti Hartz, dal nome dell’ex capo del personale Volkswagen che, nel 1999, vincendo su un sindacato all’inizio riottoso, cambiò dalle fondamenta le relazioni industriali. Propose uno schema per il quale si impiegavano disoccupati con un costo del lavoro inferiore sino al 30% dei loro colleghi ipertutelati, vincolati a un obiettivo quantitativo di auto da costruire anche a costo di sfondare fino a 42 ore settimanali e festivi compresi i limiti dell’orario contrattuale nazionale. L’esempio fu poi seguito da moltissime grandi e medie imprese germaniche.
Il sindacato dei metalmeccanici, la grande IG Metall tedesca – lì non c’è un grande sindacato per ogni vecchia cultura politico-partitica, che da noi è sopravvissuto alla fine dei vecchi partiti – prima disse no, ma poi disse sì sotto il peso delle richieste dal basso, nelle assemblee dei lavoratori. Ciò significa abbandonare l’idea che sia il contratto nazionale collettivo di lavoro a determinare oltre il 90% del salario, come continua ad accadere da noi, accettando invece l’idea che il più del salario si contratta aziendalmente secondo produttività. Significa accettare l’idea che il sindacato non è più cinghia di trasmissione di un partito o della sinistra, come da noi continua a essere invece la Cgil, ma il sindacato fa solo il suo mestiere nelle aziende, portando a casa la miglior difesa di impresa e lavoro insieme. E perché le basi di tutto questo vengano poste – per esempio nel Jobs Act che riprende il suo iter in Senato in questi giorni – occorrerebbe una sinistra che avesse fatto decenni fa una scelta pienamente riformista come fece la Spd a Bad Godesberg, mandando in soffitta una volta per sempre i vecchi criteri della rappresentanza di classe e del collateralismo sindacale.
Altro esempio: i diritti acquisiti. Una cosa dura da buttar giù per il sindacato tedesco, nei pacchetti Hartz, fu il taglio ai sussidi troppo generosi alla disoccupazione, che frenavano la rioccupabilità. Eppure in Germania la scelta passò: con una riforma che apriva ai privati l’intermediazione pubblica tra domanda e offerta di lavoro; disincentivava il diniego delle nuove domande di lavoro ai disoccupati, tagliando loro i sussidi se venivano rifiutate; e abbinando anche un enorme programma di minijobs sociali a 4-500 euro al mese, che qui in Italia moltissimi si ostinano a considerare schiavitù, una specie di riedizione dei prigionieri di guerra obbligati al lavoro della famigerata organizzazione Todt nazista: baggianate. E’ così che la disoccupazione tedesca è oggi la metà del 12,7% italiano.
C’è tutto questo, nel Jobs Act italiano? La risposta è no. Noi non abbiamo certo il problema di sostegni al reddito dei disoccupati troppo generosi. Ma la questione di fondo è che in Germania tagliarono quelli che da noi si chiamano “diritti acquisiti”, mentre da noi di ricalcolare per tutti le pensioni retributive su base contributiva non se ne parla nemmeno.
Ma anche i privati hanno le loro colpe, troppo facile prendersela solo con partiti e sindacati. La Confindustria non ha mai avuto il fegato di perseguire fino in fondo la “rottura” di chiedere un’inversione di priorità, contro i contratti nazionali di categoria –che dovrebbero limitarsi a fissare il quadro normativo della tutela dei diritti, e solo minimi retributivi in materia salariale- e a favore di quelli di produttività. Le aziende indicano – come Renzi ha fatto ieri – il modello dell’istruzione tecnica superiore e dell’apprendistato tedesco, un altro pilastro dell’alto tasso di attività germanico, ma non osano dire al sindacato della scuola e alla politica che questo significa cambiare radicalmente l’intero impianto scolastico e universitario, mettendo le aziende “dentro” i percorsi formativi, e con risorse proprie. Gli imprenditori italiani hanno colpe pesanti per la bassa patrimonializzazione delle loro aziende. Per non aver sposato il modello delle Hausbanken che in Germania ha portato per decenni il Mittelstandt tedesco a crescere di dimensione, innovazione ed export, mentre l’impresa italiana preferiva il multiaffidamento bancario che “nasconde” a ogni intermediario finanziario le debolezze produttive e patrimoniali delle imprese. Le imprese private hanno la loro colpa nel basso tasso di trasferimento tecnologico: perché, come ricorda sempre il presidente di Assolombarda, Gianfelice Rocca, la produttività comparata della ricerca italiana in termini di citazioni sui maggiori Journals internazionali è buona, ma è quando si tratta di trasferire le innovazioni dalla ricerca all’impresa che si incontra un deserto.
Ben venga dunque la difesa di Renzi del modello tedesco. Ma a patto che non sia una battuta, e che tutti sano disposti a cambiar testa e a tirarsi su le maniche. Il che significa uan soa cosa: l’obbligo, per noi, è lo scetticismo.
La questioni della produttività e delle relazioni industriali vengono immediatamente dopo i problemi della pletorica e contraddittoria legislazione italiana e della burocrazia fuori controllo che rappresentano il maggiore impedimento all’inversione della inesorabile tendenza al declino.
Il mio timore è che la montagna Renzi partorirà il topolino e l’eventuale riforma sarà insufficiente e non accompagnata dalla rivoluzione nel settori decisivi per snellire l’Italia. La non-riforma della PP.AA. è eloquente.
Oggi il privato che cercasse di snellire almeno le relazioni industriali sarebbe crocefisso e costretto ad emigrare. La stessa FIAT per rimanere sul mercato ha avviato un processo di emigrazione molto più profondo della semplice internazionalizzazione.
Lo stato della cose in Italia favorisce una sorta di “selezione al contrario” della classe imprenditoriale: “caro industriale, se vuoi vivere adeguati al sistema e non al mercato“.
Premesso che le soluzioni valide per la Germania non credo lo siano per noi,premesso che lavorare per 500 euro non sarà schiavitù ma un pò ci assomiglia,premesso che alla fine il famoso recupero di produttività si riduce nella diminuzione dei redditi,la proposta potrebbe anche essere accettabile ma perchè deve essere l’unica?Possibile che non ce ne siano altre?Perchè a decidere quello che si deve fare deve essere il sig. Renzi o il sig. Tabellini?Possibile che in questo ,come in altri problemi,i cittadini non possano esprimere un parere preventivo,dato che alla fine si parla dei loro interessi?A me va bene tutto ma non la supponenza di chi si ritiene migliore e incaricato dagli dei a decidere per gli altri.Se gli italiani preferiscono soluzioni alla Barnard , quelle si devono fare.L’obiezione che coi sogni e l’incompetenza si fallisce fa ridere considerando la brillante situazione economica mondiale in cui ci troviamo restando svegli.
Caro Giannino,
purtroppo è una semplice battuta, questi non sanno di cosa stanno parlando.
parlo per esperienza diretta, come socio e fondatore di un azienda , fortunatamente venduta nel 2002, che esportava il 98% della sua produzione, beni di investimento durevoli settore meccanica, all’estero, la Germania valeva il 30% del fatturato. Abbiamo conquistato il nostro spazio sul mercato tedesco dal 1984 al 1998 e dal 1999 abbiamo iniziato a perdere di competitività nei confronti dei nostri concorrenti tedeschi, sia sul mercato domestico che sui mercati dell’export, nonostante la mia azienda investisse oltre la media italiana in R&D e rinnovo impianti. A chi come noi stava sul fronte del mercato diretto era chiaro quello che stava succedendo in Germania. Vero che le misure sul lavoro entrarono a regime qualche anno più tardi, ma il trasferimento delle subforniture dal mercato italiano a quelli tradizionali anteguerra di influenza tedesca – Polonia, Cecoslovacchia, Ungheria iniziarono immediatamente dopo la riunificazione e gli effetti sui costi per unità di prodotto furono immediati. I sub fornitori italiani se ne accorsero solo quando andate a regime le produzioni nei nuovi paesi, dalla sera con la mattina non arrivarono più gli ordini. per cui l’effetto combinato della riduzione dei costi per unità di prodotti tedeschi è dovuto al trasferimento delle subforntiture all’ est e alla concentrazione della progettazione, assemblaggi e dei servizi in patria.
I minijob sono a 500 euro al mese, ma altri 600 arrivano dallo stato
Non penso che “se gli italiani preferiscono delle soluzioni alla Barnard, quelle si devono fare”. Il problema della democrazia è che una massa di semi-analfabeti (non solo economici) possa decidere su temi delicati come una riforma del mercato del lavoro. Badate, penso che la democrazia sia la forma meno peggiore di governo.
Ad ogni modo, non bisogna stupirsi che Renzi esalti il modello tedesco: nella sua mente il Modell Deutscheland è coerente agli 80 euro. Ha detto, nella conferenza stampa di presentazione dello Sblocca Italia, di voler avvicinarsi alla Germania puntando sulla qualità e su prodotti ad alto valore aggiunto e non sullo sfruttamento della forza lavoro. E’ in quest’ottica che, dice lui, va letto il bonus 80 euro. Un segno contro quelli che vogliono abbassare i salari e competere con i paesi in via di sviluppo. Ovviamente, aumentare gli stipendi per puntare sulla qualità significa solo scambiare cause ed effetti. Un aumento della qualità dei nostri prodotti si ottiene investendo di più in ricerca e sviluppo e nelle scuole in generale, per esempio. Non alzando gli stipendi artificiosamente.
Occorrerebbe rendere il costo del lavoro più vicino possibile a quanto percepito dal prestatore di lavoro.
Tale differenza (il cosiddetto cuneo fiscale) è il risultato non solo di un’alta tassazione alla fonte e di eccessivi oneri contributivi
(IRAP compresa) ma anche di tante voci che all’estero non esistono: ad esempio TFR, 13a mensilità e a volte 14a e oltre, assenze per malattie
di brevissima durata pagate ( mentre non è abbastanza tutelata la malattia grave e di lunga durata) permessi di ogni tipo ecc..
Se verso la forza lavoro marginale di disoccupati e inoccupati si potesse estendere l’esperienza dei voucher pagando solo le ore di
effettiva prestazione con una trattenuta del 25% a copertura di oneri fiscali, previdenziali ed assicurativi, moltissime attività verrebbero avviate.
Si potrebbe rendere semplicissima la regolarizzazione con un SMS all’INPS che, precedentemente all’inizio dell’attività, ne indichi la durata in ore
con codice fiscale del datore di lavoro, del lavoratore, ed il numero dei voucher utilizzati.
A parità di costo per il datore di lavoro, che potrebbe essere sia il privato con qualunque collaboratore che l’azienda con un numero limitato di addetti, il reddito corrente del prestatore crescerebbe di oltre il 50%, consentendogli di provvedere da solo a quei costi indiretti o differirti sostenuti ora dal datore.
Gian Luigi Capriz
Domanda di fondo: gli schemi proposti servono ad aumentare la produttività, ma a chi sarebbe destinato il surplus di beni/servizi così realizzato? In assenza di ripresa della domanda, a parità di beni e servizi l’aumento di produttività porta all’inevitabile aumento della disoccupazione.
Se vogliamo spostarci in aree a maggior valore aggiunto, non basta diminuire il cuneo fiscale ma occorre riorganizzare le aziende e formare il personale – e chi paga?
@Gian Luigi Capriz:
il recapito degli SMS non è garantito, se proprio vogliamo la soluzione dematerializzata meglio un messaggio via PEC.
deve essere valutata
la differente curva demografica che la germania ha a causa di supporto alla natalità : a 65 anni si chiude se viene la crisi , non si inizia una nuova attività
la impostazione della scuola italiana che ha bandito la competitività e la selezione : si crea una mentalità da dipendente , non da imprenditore
la diffidenza tra datore e prestatore di opera : nessuna mitbestimmung
la distanza fra ricerca ed industria che non consente un efficace tecnology transfer
veramente bisogna cambiare tutto
stolfo della sdrossa per servirLa paron mio
Nell’articolo si sostiene che la bassa produttività sia il problemma numero uno dell’economia italiana. Anch’io,nella mia ignoranza, mi sono fatto questo convincimento, però noto che questo è un’un’argomento assai poco trattato dai giornali o dal web (anche in questo blog sono pochi gli interventi che affrontano direttamente la questione e non esiste nemmeno una categoria dedicata al tema). Qualche considerazione in più, per finire, farei sulle responsabilità delle imprese italiane e in particolare sul problema di come venga selezionata la clasese dirigente ed in generale su quanto e come sia premiato il merito.
saluti marco