Veni, vidi, capii (cosa?)
Ieri il ministro Tremonti si è impegnato formalmente con il sindaco Alemanno e il maestro Muti per dare qualche soldo in più allo spettacolo (stando a quanto riportato dai giornali, al termine dell’incontro Tremonti avrebbe detto: “veni, vidi, capii”). Per il momento trattasi di promessa, vedremo se alle parole seguiranno i fatti. In un passato non molto lontano anche il ministro uscente Bondi aveva espresso il suo impegno per fare aumentare la quota del Fondo unico per lo spettacolo [ora sembra sempre più probabile che a succedergli ai Beni culturali sarà l’ex governatore del Veneto Galan]. In una scala a difficoltà crescente, molto semplice risulta promettere, abbastanza facile spendere i soldi dei contribuenti, complicato mettere in piedi delle riforme (che non prevedano una maggiore spesa).
Va detto che il pressing sul governo si è molto accentuato. In questi giorni si è assistito anche alle dimissioni di Andrea Carandini da presidente del Consiglio superiore dei beni culturali. Il motivo sta sempre nella presunta mancanza di fondi del ministero, che nel caso specifico sollevato da Carandini renderebbe impossibile una politica efficace di conservazione e di tutela del patrimonio. Per il 25 marzo è stato poi indetto uno sciopero generale del comparto delo spettacolo.
Peccato che il dibattito sia tutto incentrato su di una sola rivendicazione: dateci più soldi! Piuttosto sarebbe il caso che qualcuno ponesse una semplice domanda: questi soldi servono davvero o si potrebbe fare con meno? Naturalmente una risposta non la si può chiedere a chi vive di sovvenzioni pubbliche: per questa categoria l’obiettivo è accaparrarsi più denaro possibile. Allora, marzullianamente (“si faccia una domanda e si dia una risposta”), provo io a mettere sul piatto una questione che a mio parere rappresenta il vero problema.
Una prima parte della risposta è questa: “quanto alle attribuzioni del MiBAC, l’ambito del suo intervento appare molto esteso. […] Lo spettro dei compiti e delle funzioni spettanti al MiBAC, e perciò la centralità del suo ruolo, si riflettono nella sua struttura organizzativa, tanto centrale quanto periferica, espressione di un apparato esteso e che si vuole attrezzato a esercitare il complesso delle attribuzioni, non solo di governo ma anche di amministrazione attiva, del settore” (Diritto e gestione dei beni culturali, il Mulino 2011, pp. 132-3).
La seconda parte è strettamente legata alla prima: con il Codice dei beni culturali e del paesaggio (2004) si è data una definizione di bene culturale particolarmente ampia. E, sempre nello stesso testo, si sono poste le basi perchè al ministero venisse riconosciuta la titolarità di troppe funzioni.
D’altronde, in precedenza, era stata la riforma del titolo V della Costituzione a creare molta incertezza in merito al riparto delle competenze fra i vari livelli di governo. Con il Codice del 2004 si è cercato di dare attuazione alle disposizioni costituzionali. La direzione presa è stata quella avocare a sè (a livello centrale) le funzioni amministrative che l’art. 118 di norma conferirebbe al livello di governo più decentrato (salvo che non si renda necessaria la loro attribuzione a Province, Città metropolitane, Regioni e Stato). Pur riconoscendo un ruolo ausiliario alle autonomie locali, il Codice affida le funzioni amministrative in tema di tutela allo Stato (così come, sempre lo Stato, ha potestà legislativa esclusiva sulla tutela del patrimonio culturale). Per quanto riguarda invece la valorizzazione (potestà legislativa concorrente Stato-Regioni) il Codice non detta veri e propri criteri per il riparto delle funzioni amministrative. Il risultato è quello di un ministero assai ramificato, con le sue Direzioni regionali e le sue Soprintendenze, che deve esercitare i propri compiti, così come stabiliti dal Codice, su un patrimonio culturale definito in modo assai inclusivo.
Ovviamente il discorso appena fatto vale ancor di più se consideriamo che il ministero si deve occupare di beni culturali, paesaggio e spettacolo. Il tanto richiamato articolo 9 della Costituzione, afferma che “La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”. Avete letto bene, la Costituzione parla della “Repubblica”. Ma dall’art. 114 sappiamo che “La Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato”. Pertanto, non deve essere per forza lo Stato a farsi carico della promozione e della tutela della cultura. Così è stato invece deciso da una norma di rango inferiore.
Il discorso non riguarda però solamente chi e cosa debbano fare i vari livello di governo, ma anche quale ruolo debbano avere i privati. Oggi la percezione è che debbano essere una stampella dello Stato. Al settore pubblico piace gestire e farsi carico attivamente di tanti siti culturali, quando in realtà avrebbe molti strumenti per ritirarsi un poco e lasciare spazio ad altri soggetti. Il Codice prevede che la gestione di un bene culturale di appartenenza pubblica possa essere gestito direttamente o indirettamente. In questo ultimo caso è prevista ad esempio la concessione a terzi della gestione. Uno dei modelli seguiti è stato il ricorso alle fondazioni di partecipazione (pubblico-privata). Su questa strada si potrebbe fare molto ma molto di più.
In sostanza, in questi ultimi anni abbiamo assistito a un irrobustirsi dei poteri e dell’operato del ministero. Parallelamente abbiamo una legislazione molto inclusiva nella identificazione di ciò che può essere classificato come bene culturale, e molto restrittiva su ciò che è possibile fare di un bene culturale (in termini di alienazione, circolazione, ecc.). Anche nel caso in cui il bene sia privato. In tutto questo, lo Stato mantiene un ruolo che è sia di controllore che di gestore. Ma, come detto, una parte del discorso, che non è stata affrontata, riguarda anche il settore dello spettacolo.
A testimonianza delle difficoltà amministrative insite in un apparato pubblico che si vuole così esteso, è il problema dei residui passivi. Ovvero la quota delle entrate che non viene spesa al termine dell’anno. In molti casi questo fenomeno è il risultato di lungaggini nella realizzazione di lavori pubblici (ma non solo), un mix di amministrazione inefficiente e normative pervasive.
La questione è dunque complessa, ma occorrerebbe partire da questi punti per cambiarla.
MA CHE FENOMENO QUESTO MINISTRO TREMONTI : PER CAPIRE E SAPERE CHE I TRASPORTI DA ROMA IN GIU’ SONO RIDICOLI HA DOVUTO PRENDERE UN TRENO ANDATA E RITORNO ROMA-REGGIO CALABRIA; PER COMPRENDERE I DANNI CHE IL PIU’ INCOMPETENTE MINISTRO DELLA CULTURA DELLA STORIA E I SUOI TAGLI LINEARI DA QUATTROSOLDI STANNO FACENDO ALLA CULTURA HA DOVUTO ANDARE A FARSELO SPIEGARE DA MUTI E (UDITE UDITE) DA ALEMANNO ?? MA DICO A SONDRIO NON CI SONO GIORNALI E TELEVISIONE? MA UN COMMERCIALISTA CHE SI SPACCIA PER ECONOMISTA NON E’ UN PO TROPPO PERICOLOSO PER UN PAESE DISASTRATO ??
QUESTO FENOMENO LO SA O NON LO SA CHE L’UNICO RISULTATO CONCRETO CHE LO PSUDOFEDERALISMO DA INCOMPETENTI CHE STANNO MALAMENTE PORTANDO AVANTI SARA’ INEVITABILMENTE (PER LA NOTA LEGGE DELLA MONETA CATTIVA CHE SCACCIA QUELLA BUONA) CHE TUTTI I BILANCI DELLE INUTILI REGIONI ITALIANE SARANNO IDENTICI , IN POCHI MESI, A QUELLO – DA SEMPRE OBBROBRIOSO -DELLA REGIONE SICILIANA ?? Essere governati da un parlamento e di nominati, compravenduti, pregiudicati, prostitute, prosseneti, camorristi, leghisti, ciellini e cialtroni vari è già molto pesante, ma l’incompetenza e l’incapacità dei membri dell’ultimo governo Berlusconi, a partire dall’unto del signore sono francamente imbarazzanti e devastanti.
@carlo grezio
Mi ricordo di Tremonti per:
1- dichiarò solennemente, nel 2010,che eravamo fuori dalla crisi, e che comunque aveva toccato l’Italia solo marginalmente.
2- Nel gennaio 2011, disse che siamo ancora nel bel mezzo della crisi economica.
3- Dichiarò che “..la Legge 626 è un lusso che non ci possiamo permettere…”
4- Pose la sua firma alla Legge 106/2009, che è un adeguamento alle Leggi sulla sicurezza del lavoro. La prima fu varata da Prodi, ma la seconda è di Berlusconi.Forse per Tremonti, è normale recarsi al lavoro al mattino, morirvi, e non fare più ritorno a casa alla sera!
5- Lui diede il consenso ai nostri politici di sperperare soldi pubblici per celebrazioni del 150°, già nel 2010. Peccato che nessun’altro lo sapesse al di fuori di una ristretta cerchia. Tutti, tipografi in testa, si comportarono come se il 17/3/2011 fosse un giorno lavorativo normale. Napolitano, ci mise una pezza emanando un DPR con un solo mese di anticipo…… (Per il resto, mi associo a quanto da Lei scritto)
Temo che carlo grezio non abbia letto bene questo ottimo articolo di Cavazzoni. Il nocciolo è qui: non ci sono (più) soldi! La cultura italiana è un problema della Repubblica Italiana e non del solo MINISTERO DEI BENI CULTURALI!
Dobbiamo ragionare in termini federalisti e se qualche regione governerà “scialaquando denari” saranno problemi di quella regione. Mi sembra semplice e chiaro. Tremonti o non Tremonti.
Poi aggiungo, anch’io amo l’Italia ma con questi “chiari di luna” nelle casse pubbliche, questa festa non si doveva fare a carico del PIL!
Non ho capito se l’autore dell’articolo la pensa come Tremonti (“Con la cultura non si mangia”) o è così scettico sulla querelle dei beni culturali perché, come per tutti gli autori liberali “duri e puri” che scrivono su questo blog, tutto ciò che richiede una gestione del bene pubblico attraverso organismi pubblici (Centrali o Locali) è negativo “a prescindere”!
Inviteri l’autore a vivere per 6 mesi a Firenze, la mia città, e forse inizierebbe a capire alcune semplici cose:
1- senza la Cultura con C maiuscola una buona parte dell’Italia sarebbe ben più povera (o devo ricordargli che oltre 1/3 del Pil della mia città deriva dal turismo, come certificato più volte dall’Irpet, istituto di statistica regionale).
2 – gli investimenti su una parte almeno di ciò che attira il visitatore (musei, monumenti, strade, piazze, ecc, ecc) non li fanno, ne li farebbero mai i Privati, ma li può fare solo lo Stato perché sono beni pubblici (e meno male, altrimenti può darsi che ci si trovi, prima o poi, spossessati di questi beni perché acquistati dal magnate russo di turno!).
3 – se questo “valore del marchio” (la Cultura=Firenze parlando da economista) non si difende e si rinnova con adeguata manutenzione migliorativa, ciòè con investimenti pubblici, si depaupererà anche, in parallelo, il patrimonio dei privati che vivono grazie a questo (tutto il mondo dell’ospitalità, del commercio, della ristorazione, ecc).
Le basta o ne vogliamo ancora di motivazioni per provare a cambiare paradigma?
Mi sembra quindi logico e normale che si resti di stucco di fronte ad un Governo che, a causa di non più rimandabili problemi di bilancio, sa soltanto tagliare i fondi alla Cultura, alla Scuola, così che “si arrangino….” perché con questi “non si mangia”!
Possibile che a nessuno sia venuto in mente che forse, anziché tagliare, potrebbe essere meglio redistribuire, efficentare ed aumentare la produttività?
Faccio un semplice esempio. Togliamo, per decreto, almeno il 15% di dipendenti agli uffici interni della Provincia e della Regione e riconvertiamoli in personale addetto alla custudia per i musei ed i siti culturali così che questi possano aumentare l’orario di apertura a 18 ore al giorno 7 giorni su sette.
Risultato: più ingressi, più ricavi, miglioramento forte dell’immagine, aumento significativo della capacaità di autofinanziamento degli investimenti per mantenere ed innovare servizi e prodotti collegati, maggiori visitatori indotti dal miglioramento dell’immagine e dalle facilitazioni circa orari, servizi aggiuntivi, ecc. ecc.
In altre parole io continuo a credere che lo Stato si possa rendere più efficiente e più efficace, perché, comunque, i Beni Culturali, cosi come la Scuola, la Salute, sono un diritto di tutti, e non possono essere solo affidati a Privati con l’unico fine del profitto.
Perché queste cose non si fanno e si preferisce la strada dei “tagli lineari a tutti imministeri ed i territori” anziché percorrere la via della riforma rigorosa della P.A. così che diminuisca la spesa improduttiva, aumenti l’effiicienza e l’efficacia della gestione di Beni pubblici, liberando risorse per innescare il ciroclo virtuoso dello sviluppo “sano e sostenibile”?
Queste domande fanno fatte a chi ora ci governa o ci rappresenta!
@ALDUS
ho letto bene , ho letto bene l’ottimo cavazzoni…ma uno sfogo di tanto in tanto di fronte a questo becerume economico dobbiamo permettercelo…
Comunque mettiamo pure qualche puntino sulle i :
1.la repubblica demanda la gestione dei problemi della cultura “latu sensu” al Min.Beni Cult: se questo è incompetente, incapace, non in grado di presentare un dignitoso piano di utilizzo dei fondi disponibili e proporre strategie complessive è meglio che se ne vada (come sta cercando di fare, anche quello senza successo).
2.”non ci sono più soldi ” : in termini macro è un evidente sciocchezza! in ogni caso la risposta con “tagli lineari” uguali in teoria su ogni capitolo di spesa è da licenziamento immediato : il politico deve saper scegliere, proporre aree dove incrementare gli investimenti ed aree dove azzerarli (non ridurli) : dove si è mai visto ridurre del 5% un investimento/costo stupido,inutile o da azzerare ed uno fondamentale o da potenziare:questa logica da commercialisti può passare solo in un Consiglio dei Ministri composto da incompetenti/incapaci.
3.”se qualche regione scialacquerà denari…” beata innocenza federalista !! le regioni – che sono il vero ente inutile dell’ordinamento amministrativo ridicolo di questo stato ridicolo, sono ESCLUSIVAMENTE strutture dedite allo scialacquamento di denaro pubblico : per gestire la sanità (che fanno tutte malissimo, a cominciare dalla Lombardia – che è solo meno peggio delle altre -) non serve un carrozzone siffatto, con 60 consiglieri regionali modello minetti che vengono pagati il doppio dei parlamentari nazionali di altri paesi europei con “governatori” (…maddechè ??) che ipotizzano forme di politica estera, aprono ambasciate e riducono persino il turismo ad un disastro economico nazionale.L’unica riforma federalista dello stato basata su cose serie, non su ipotesi ridicole di secessione, doveva poggiarsi sulle provincie(di cui incrementare l’autonomia, senza ambizioni di governatorati ridicoli), abolizione delle regioni, passaggio delle deleghe regionali per la gestione del territorio alle province; rimodulazione della gestione della sanità pubblica non su base regionale.Prendiamo il bilancio della regione siciliana come quanto di più esecrabile vi sia nel mondo occidentale per spreco, inefficienza, corruzione : bene i bilanci delle regioni ordinarie vi si stanno avvicianando a grandi passi : già ora la componente enormente crescente e fuori controllo della spesa corrente e e del debitopubblico è quella che fa capo alle regioni e non all’amministrazione centrale.
Comunque chi vivrà vedrà. Auguri.
@carlo grezio
Nella mia fretta, mi sono dimenticato di Tremonti, per una sua malefatta, del 2010, ma se lo ricorderanno le associani beneficiarie. Successe questo: nella dichiarazione dei redditi del 2010, relativa ai redditi del 2009, era previsto di donare l’8 per mille alle chiese (non toccate da Tremonti) ed il 5 per mille ad una ONLUS di nostra scelta.
Facemmo la nostra dichiarazione dei redditi, e chi voleva, poteva firmare per assegnare una quota IRPEF all’associazione preferita. Dopo mesi che tutti avevamo fatto la nostra dichiarazione, Tremonti disse che solo un quinto, di quanto da noi sottoscritto, sarebbe andato alle varie associazioni.Così facendo, Tremonti diede sonori “schiaffi” a chi aveva predisposto i moduli (dipendenti dello stato), a noi contribuenti ed elettori, alla sovranità popolare e per ultimo alle varie associazioni, che si vedranno dare solo un quinto (20%) di quanto spetterebbe loro……
sempre su tremonti, per concludere, mi piace riportare questo post di NOISEFROMAMERIKA , decisamente puntuale:
” Fatte salve rare eccezioni, il giornalismo economico italiano appare popolato da incompetenti il cui unico obiettivo sembra essere ingraziarsi qualche “potente” propagandone le “teorie”. Incuranti dell’analisi economica più elementare, delle statistiche e dei fatti noti a tutti. Gli esempi d’incompetenza e servilismo sono così frequenti da rendere imbarazzante la scelta. Il 20 febbraio, per esempio, i quotidiani italiani informavano che la risoluzione finale del G20 aveva “accettato la posizione italiana” includendo la “ricchezza privata” nella lista dei 5 indicatori di crisi (non riuscendo ad accordarsi su null’altro di concreto da fare). Nessun altro quotidiano di nessun altro paese riportava tale notizia. Raccontavano tutti dell’ennesimo vertice inconcludente e che, nell’ovvia lista di indicatori, appariva il “tasso di risparmio” senza attribuirne la presenza a qualcuno in particolare. Della “ricchezza privata” neanche l’ombra. Sulla stampa italiana nessuno notava che il risparmio non coincide con la ricchezza privata e che la relazione fra le due quantità è mediata, fra le altre cose, dal tasso di crescita dell’economia, dai rendimenti degli investimenti e dalla fiscalità a cui vengono sottoposti.
In parole povere: la stampa nazionale raccontava, senza controllare se fosse sensato, quanto dichiarato dal ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, il quale intendeva così far sapere agli italiani che il mondo intero gli aveva appena dato ragione. Falso, ma nessun commentatore ha ritenuto opportuno notarlo. Il giorno prima eravamo stati informati, invece, che i ministri economici e i capi di governo del G20 avevano “finalmente” condiviso la visione “italiana” secondo cui i movimenti al rialzo dei prezzi delle materie prime e degli alimenti erano da attribuirsi alla speculazione internazionale. Non solo: sempre secondo il ministro dell’Economia le rivolte del Nordafrica erano causate dalla speculazione che faceva crescere il prezzo del pane. Ridicolo? Certo, specialmente alla luce di quanto accaduto da allora, ma la stampa economica italiana che ha fatto? Ha riportato le fandonie tre settimane fa, guardandosi bene, ora e allora, dal notare che di fandonie si trattava.
Pochi giorni dopo il ministro dell’Economia presentava, in compagnia del presidente del Consiglio, i piani per la famosa “frustata liberalizzatrice”. La presentazione veniva condita da una serie di palesi falsità profferite dal primo ministro in riferimento alla situazione economica italiana nel contesto internazionale. I maggiori quotidiani nazionali non solo non hanno titolato “Berlusconi mente e Tremonti acconsente” (cosa che sarebbe successa in ogni altro Paese europeo), ma nemmeno hanno fatto osservare che la frustata liberalizzatrice consisteva in una pagliacciata. Niente di cui sorprendersi: quando – negli stessi giorni – il presidente della Regione Lombardia ha presentato le sue “frustate” per rimediare alla mancanza di crescita dell’economia lombarda, le medesime sono state riprodotte senza far notare che si trattava invece di frustate all’intelligenza degli elettori. Sì, perché solo un minus habens può credere che la crescita, che non c’è più dal Duemila, possa ritornare perché, fra due anni, ci sarà la banda larga anche in Valtellina.
Non vorrei far credere che questo trattamento servile venga riservato ai politici di centrodestra, tutt’altro. Tanto per dire: da tempo immemorabile i rappresentanti economici dei partiti di sinistra continuano a ripetere che se solo si facesse la lotta all’evasione fiscale i problemi di finanza pubblica italiana sarebbero risolti. Ora, si dà il caso che così non sia e che, per quanta lotta si faccia all’evasione fiscale, i drammatici problemi di finanza pubblica italiani restano reali. Non ho mai letto un editoriale sull’Unità o su Repubblica che lo spiegasse ai militanti. L’ho letto su Il Fatto, ma solo perché l’ho scritto io, noto neo-ultra-liberista-servo-dei-padroni.
L’embrassons-nous, insomma, è generale: poche sere fa, nel corso di una trasmissione televisiva, Tremonti, Fausto Bertinotti, Ferruccio de Bortoli ed Eugenio Scalfari discutevano dell’impoverimento delle economie occidentali e dell’avanzata di quelle orientali. Già la formulazione del tema disinforma: l’unica economia occidentale che, nell’ultimo decennio, si è impoverita è quella italiana. Tutte le altre si sono arricchite, alcune in modo sostanziale. Questo banale fatto viene sistematicamente celato dai media italiani: rischia, se rivelato, di far evaporare l’illusione collettiva secondo cui i nostri guai non sono il frutto di folli politiche nazionali (condivise da destra e sinistra), ma di una non ben identificata speculazione internazionale, e dei cinesi, ovviamente.
Durante la trasmissione, il ministro Tremonti – con didattica lavagnetta – ha proferito un’improbabile valanga di corbellerie. Non solo il conduttore, Michele Santoro, sembrava perfettamente a proprio agio in tale orgia della chiacchiera, ma anche i due giornalisti presenti che, almeno per il loro passato professionale, qualcosa di economia dovrebbero capirci, hanno evitato attentamente di fare al signor ministro alcune ovvie domande. Tipo quelle poste da Giulio Zanella su Noisefromamerika.org: 1) Tutti i paesi Ocse fanno parte del Wto, sono aperti al commercio internazionale, in particolare con Cina e India: perché l’Italia soffre più di tutti ed è l’unico paese dove il tenore di vita è inferiore a 10 anni fa? 2) Poiché per ogni acquisto “speculativo” deve esserci una vendita, può spiegare, signor ministro, in che modo gli speculatori creano “carovita”, ovvero spingono tendenzialmente in alto i prezzi? 3) Perché il deficit spending a livello nazionale fa disastri, mentre a livello europeo, se si seguisse la raccomandazione su cui lei insiste di emettere eurobond, regalerebbe un futuro roseo ai giovani?
Senza informazione libera la democrazia si trasforma in autocrazia e peronismo. Senza informazione economica competente e indipendente la crescita economica muore. Sarebbe patriottico, in questi giorni di festeggiamenti unitari, che i giornalisti economici italiani facessero proprio il motto del dissidente cinese Kang Zhengguo “Sono incapace di dire ciò che la gente desidera sentirsi dire”.
di Michele Boldrin, Washington University in St Louis
Tutti si lamentano per i tagli ma nessuno, almeno tra gli interessati, si pone la domanda dell’efficienza e dell’efficacia di quanto speso e si fa parte attiva per contribuire ad ottenere il risultato.
Grazie ad una classe politica, incapace di impostare semplici piani strategici ma sempre pronta a rincorrere chi strilla di più o chi ha maggior peso elettorale,dobbiamo sentire la continua lamentela contro i risparmi richiesti e la conservazione di una struttura pubblica pletorica. Intanto, nella più assoluta indifferenza, inesorabilmente il misuratore del debito pubblico continua ad aumentare!
@Ugo Pellegri
Ha ragione! Purtroppo, l’unico in Italia che si comporti da vera opposizione, è Antonio Di Pietro, ma la sua opposizione è più dedita ad una battaglia personale contro Berlusconi che non al PDL-Lega. Ne vediamo i risultati con politici IDV che cambiano bandiera “senza vincoli di mandato” come dice la nostra Costituzione. Se l’opposizione fosse unita, potrebbe bloccare, o ritardare, l’attività di questo parlamento, legalmente, chiedendo continuamente il controllo del numero legale, facendo interrogazioni, e via dicendo.