31
Lug
2013

Utile ripasso: come, per quanto e dove privatizzare, evitando le trappole di finte cessioni in cui lo Stato è maestro, oltre a essere pessimo proprietario

Al G20 di Mosca il ministro dell’Economia Saccomanni ha annunciato per la ripresa autunnale un’accelerazione delle privatizzazioni pubbliche. Il premier Enrico Letta, parlando ad Atene, ha confermato l’obiettivo.
Poiché in questo 2013 il debito pubblico italiano ha superato il 130% del Pil, e per via della recessione ancora forte rischiamo il 134% entro l’anno prossimo, la via delle dismissioni pubbliche è necessaria, per ottenere l’obiettivo di diminuire entro pochi anni il debito entro, diciamo, il 90% del Pil che ad oggi si assesta come media dei grandi paesi europei. L’alternativa è di procedere per anni e anni con avanzi primari di 5-6 punti di Pil ogni anno, ma a questo livello di pressione fiscale significherebbe aggravare e allungare la recessione. Senza dimenticare che occorre portarsi avanti, perché dal 2015 siamo comunque tenuti dal fiscal compact a diminuire ogni anno di un ventesimo l’eccesso di debito rispetto al 60% del Pil.
L’Italia ha privatizzato tanto, anni fa. Nel periodo 1979-1999, coi 122 miliardi di dollari incassati l’Italia è stata seconda solo alla Gran Bretagna per l’entità del processo di privatizzazione affrontato. Privatizzare non significa solo abbattere la quota di debito, e dunque pagare meno oneri in termini di interessi ogni anno (attualmente se ne vanno più di un’ottantina di miliardi per questa voce, e con lo spread salito negli ultimi due anni l’effetto si distribuisce nel tempo, visto che la vita media dei titoli è di poco inferiore a sette anni). Le privatizzazioni, se effettuate nell’ambito di un coerente progetto di apertura del mercato, non sono trasferimento di monopoli pubblici in mani private (come purtroppo è avvenuto alcune volte in passato anche in Italia), sono anche un importante strumento per innescare dinamiche competitive più virtuose. Aumentano efficienza, redditività e produttività delle imprese, e ne migliorano la corporate governance sotto la disciplina di investitori privati, se vige la contendibilità proprietaria.
L’esperienza insegna che per funzionare bene le privatizzazioni devono avvenire con obiettivi e procedure trasparenti, mobilitando strumenti e regole il più possibile di mercato e non soggetti al diritto speciale amministrativo, e risolvendo in anticipo le questioni regolatorie, di concorrenza, e di limite a eventuali acquisizioni straniere attraverso la golden share, con cui si può impedire decisioni strategiche antinazionali – nei pochi casi in cui sussiste davvero questo interesse – anche solo con un’azione “d’oro” e senza bisogno di detenere la proprietà degli asset.

Oggi, sono in molti a non credere alla possibilità di realizzare massicce dismissioni. Altri ne negano l’opportunità, sostenendo che il patrimonio pubblico è la vera garanzia del debito, tanto vale dunque convogliare il più possibile di esso in uno o più fondi pubblici, far loro emettere titoli, farli comprare dagli italiani o da stranieri, e destinare questi titoli emessi sulla garanzia del patrimonio all’abbattimento del debito, senza cedere per nulla la proprietà dei beni. C’è da dubitare che uno schema di questo tipo funzionerebbe. A meno di “obbligare” gli italiani a investirvi. Alcuni magari lo farebbero volentieri, ma con la pressione fiscale che già grava su famiglie e imprese, pensare da parte dello Stato a drenare anche obbligatoriamente patrimoni privati (oltre l’IMU-TARES in arrivo) rischia – giustamente – di scatenare vere sollevazioni sociali.

Il patrimonio pubblico viene stimato in una valore di poco inferiore ai poco più di 2mila miliardi del debito pubblico attuale. Ma occorre valutare la realizzabilità concreta delle diverse cessioni “possibili”, che si restringono su un’area di circa 700 miliardi che al Tesoro vengono definiti “valorizzabili”… aggettivo rischioso, perché sottintende perennemente che al Tesoro si pensi di cedere nulla ma di limitarsi a estrarne più reddito. Che pure, come vedremo, è cosa giusta rispetto ai miseri risultati attuali, a conferma che lo Stato è un pessimo padrone. Naturalmente, ultimo avviso, NON ragioniamo qui dei circa 3,2 milioni di opere d’arte stimate, monumenti, parchi naturali,e via continuando. Non si tratta di vendere il Colosseo, com’è ovvio.

Le cifre,come vedrete, dicono che il patrimonio pubblico attualmente è una manomorta. Distrugge valore, invece di generarne. Una volta ben avviata la macchina, cessioni nell’ordine di 30-35 miliardi di euro l’anno sono concretamente possibili. In 5 anni, con l’aiuto di un maggior tasso di crescita, l’obiettivo di scendere sotto il 100% di Pil di debito pubblico sarebbe perfettamente conseguibile. Volendolo, naturalmente. Senza patrimoniali. Ma anche senza finte privatizzazioni, quelle in cui la realtà italiana degli ultimi anni è diventata maestra, e che sono molto care ai tecnici del Tesoro: prendi una quota di Eni e la giri a CDP, fai comprare le società pubbliche del trasporto locale a Ferrovie dello Stato, e via proseguendo. Queste non sono privatizzazioni, ma meri artifici contabili. Noi, qui, parliamo d’altro: perdita di controllo e alienazione totale delle partecipazioni.

GLI IMMOBILI

L’ultimo aggiornamento è stato dato a dicembre scorso in parlamento, dal direttore finanza e privatizzazioni del Dipartimento del Tesoro, Francesco Parlato. Ha parlato di circa 340 miliardi di euro di valore di mercato delle unità immobiliari pubbliche, tra 55 mld circa di quelle di proprietà delle amministrazioni centrali e 285 per quelli delle altre amministrazioni ed Enti Locali, valutati ai prezzi medi di mercato elaborati dall’Osservatorio del Mercato Immobiliare dell’Agenzia del Territorio. A queste circa 530mila unità immobiliari vanno aggiunte poi le oltre 700mila ex Iacp ora gestite dagli Enti Locali, l’edilizia popolare convenzionata (meritano un discorso a parte, la vendita in prelazione agli affittuari avrebbe un tasso di acquisto basso, con problemi sociali evidenti di liberazione degli immobili, inoltre non solo nel Centro-Sud la percentuale di subaffitto abusivo è estesissima). Al patrimonio immobiliare si sommano 760 mila terreni per 1,3 milioni di ettari, valore stimato circa 300 miliardi, ma ne sono cedibili per il Tesoro – cioè non vincolati – non oltre 15 miliardi. La cessione del patrimonio pubblico ha tre problemi. Il primo è che oltre l’80% degli immobili è nelle mani delle Autonomie. Il secondo è che secondo la legislazione attuale è cedibile solo il 30% degli immobili, cioè la quota non destinata a fini strumentali della PA. Il terzo è che cedere in tempi rapidi e ragionevoli dipende dal veicolo al quale l’operazione si affida. La risposta al primo problema è che la cessione si può fare solo associando le Autonomie, abbattendo il loro debito in cambio della cessione quota-parte dei proventi. Il secondo problema invece ha bisogno di una modifica legislativa: lo Stato si abitui a a pagare anch’esso i canoni a privati, se non riesce a restringere le superfici che occupa. Il terzo avrebbe bisogno di uno o meglio più veicoli di diritto commerciale privato, ma il problema è che il governo Monti ha invece scelto una sgr pubblica controllata dal Tesoro, Invimit, che attualmente fatica a vedersi conferire dal demanio circa 600 unità immobiliari. Di questo passo, ci si mette una vita. I 1.600 siti dismissibili della Difesa aspettano da anni.

Non cadete nelle due solite trappole: primo “ma chi compra, il mercato è basso, gli italiani in ginocchio”. Secondo: “le caserme non le ha volute nessuno”. La risposta alla prima trappola è che il mondo è pieno di fondi immobiliari iperliquuidi alla ricerca di buoni affari, in un mondo avanzato di generale deleverage immobiliare: si tengono lontani dall’Italia, tranne eccezioni recenti come l’intervento a Milano del Fondo del Qatar, perché non si fidano delle nostre leggi e procedure amministrative, ed è anche per questo cheal posto di Invimit noi avremmo caldeggiato – si è sempre in tempo – veicoli privati di diritto europeo. Quanto alla seconda trappola, è ovvio che nella vendita occorre anche mutare variazioni d’uso e destinazione delle aree e dei relativi coefficienti edificatori. Senza cadere in orge speculative o in sfregi ambientali, ma è ovvio che se devo rilevare una caserma ma obbligato a tenerci la piazza d’armi libera nel centro di una città, non la compro perché non penserò di realizzare un palmeto.

LE PARTECIPAZIONI MOBILIARI

Se sommiamo le stime di mercato delle quote di società pubbliche statali, arriviamo a circa 80 miliari di euro, tra le diverse quote di Cassa Depositi, Eni, Enel, Eurimmobiliare, Finmeccanica, Fincantieri, Poste, Sace, Terna, Rai, Poligrafico, Ferrovie, Sogei, Sogesid, Sogin, STM, Inail (fermandoci alle maggiori, di esse 14 sono quotate in Borsa). A queste si sommano le circa 7.400 società controllate e partecipate dagli Enti Locali (il numero è stimato, un’anagrafe completa manca, gli Enti Locali sono ancora renitenti in massa a girarla al Tesoro, come pure dovrebbero per legge): la stima del valore di questo universo aggiuntivo con circa 300 mila dipendenti è molto difficile, diciamo che solo le maggiori utilities quotate dei grandi Comuni valgono da sole una ventina di miliardi.

Per le società partecipate dallo Stato, la dismissione è proceduralmente facile ma in molti si oppongono a cominciare dal sindacato. Eppure per tutelare la “strategicità” presunta di alcune di esse basterebbe appunto la golden share. Per alcune, come Poste e Ferrovie, occorrerebbero spacchettamenti preventivi tra aree di servizio commerciale – bancoposta – e servizi di rete universali – RFI che gestisce la rete ferroviaria, con necessità di regolare con attenzione la dismissione delle prime attività. Per indurre le Autonomie a privatizzare, il governo Monti aveva varato una norma per cedere o sciogliere le società che realizzano il più del fatturato dalla PA, ma la Corte Costituzionale ha appena abrogato la norma. L’unica è concepire un meccanismo premiale sui trasferimenti pubblici e le quote proprie fiscali: chi cede di più ottiene di più, senza incentivi di anno in anno le società controllate e partecipate dagli Enti Locali sono in costante aumento.

LE CONCESSIONI

Qui, in effetti, più che cedere si tratta di valorizzare: le concessioni marittime, portuali, aeroportuali e via proseguendo, secondo una stima del professor Edoardo Reviglio, che per anni al Tesoro ha lavorato a un tentativo di anagrafe patrimoniale pubblica prima di passare in CDP, rendono solo lo 0,6% annuo del loro valore, rispetto al 6% della media dei Paesi avanzati. Questo innalzamento da solo vale un punto di Pil d’incassi possibili, ogni anno. Ma tenete conto che il patrimonio immobiliare rende attualmente solo lo 0,1% scarso del valore, rispetto al 5-6% che è il minimo annuo di un portafoglio immobiliare privato. A conferma che lo Stato non sa gestire costitutivamente ciò che pure ambisce a controllare, e di cui non si vuole privare.

GLI ENTI STRUMENTALI

Le 26 società controllate dal Tesoro hanno un totale di 500 mila dipendenti e ricavi nell’ordine di 240 miliardi di euro.Molte di queste imprese, però, pur essendo formalmente società per azioni, sono nei fatti enti strumentali del governo, preposti a svolgere funzioni di regolazione o altre funzioni propriamente pubbliche. Essi possono essere riorganizzati, in alcuni casi aboliti, e razionalizzati, ma certo non si prestano alla privatizzazione: esempi di questi “enti” sono l’Enav, il Gse, Alitalia Servizi (la bad companyrisultante dal salvataggio di Alitalia), il Cnr, la Consip, l’Enac. L’Anas rappresenta un caso a parte perché, pur svolgendo una funzione di regolatore, è anche titolare di concessioni autostradali, che potrebbero essere cedute. Il recente intervento nella sue competenze non ha, di fatto, risolto il problema, e anche su questo si attende la nuova Autorità dei Trasporti. In molte società strumentali sarebbero necessarie  casi riforme o riorganizzazioni aziendali, com’è stata posta per anni all’Eni l’uscita di Snam Rete Gas (che controlla il trasporto nazionale del gas, gli stoccaggi e il maggiore soggetto attivo nella distribuzione locale) dal suo perimetro aziendale.

FERROVIE E POSTE, TESORI SOTTOUTILIZZATI

Per Ferrovie dello Stato vale un discorso analogo: l’attuale struttura verticalmente integrata è incompatibile con una cessione. Rete Ferroviaria Italiana andrebbe pertanto separata, non solo contabilmente come già avviene, da Trenitalia. Alla nuova Autorità dei Trasporti intervenire nelle norme che blindano la facoltà di impedire fermate intermedie ai concorrenti nel caso in cui questo possa “compromettere l’equilibrio di bilancio” dell’ex monopolista. Trenitalia si avvanteggerebbe per una maggior forza finanziaria nel condurre la concorrenza anche in Europa, dove Francia e Germania non riconoscono la simmetria di apertura del mercato che noi abbiamo loro consentito a casa nostra. Considerazioni non diverse si applicano a Poste Italiane, la cui privatizzazione richiederebbe sia una riorganizzazione interna, con almeno lo scorporo di Bancoposta e la sua acquisizione di una piena licenza bancaria, visto che stiamo parlando della più diffusa rete di raccolta sul territorio italiano. Ma le banche private sono da sempre contrarie, non a caso.

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1 Response

  1. Mike

    L’analisi di Giannino è come sempre impeccabile. Purtroppo, io resto assolutamente pessimista. Penso che, proprio con la scusa del rispetto degli obblighi derivanti dal fiscal compact, verrà adottata la scorciatoia della patrimoniale progressiva su tutta la ricchezza personale, immobiliare e mobiliare. Perché uno Stato bulimico difficilmente tradisce la sua natura, mettendosi a dieta. Si salvi fin d’ora chi può.

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