Uomini liberi, case inviolabili. Di Marco Romano
Riceviamo e volentieri pubblichiamo da Marco Romano.
“Questa casa è inviolabile”, scrivevano spesso orgogliosamente sulla porta i cittadini di qualche città nei primi secoli di questo millennio: perché per essere tali, cittadini di una città, dovevano avere il possesso di una casa, e tuttora, se vogliamo trasferirci in una nuova città, un vigile urbano verrà a controllare per l’appunto dove abitiamo.
Se sulle facciate delle case la città ha una qualche competenza e una qualche giurisdizione perché il loro aspetto esteriore contribuisce, come del resto sappiamo per esperienza, alla sua bellezza – e per questo fin dal Cinquecento vengono costituite commissioni edilizie per controllarne la corrispondenza ai canoni stabiliti dagli architetti rinascimentali – la pretesa di legiferare sul loro assetto interno ha un fondamento dubbio.
È che in quello stesso periodo nascono imprenditori edilizi che costruiscono interi quartieri da collocare sul mercato, sicché diventerà necessario stabilire regole certe anche per questo settore merceologico – accanto a quelle minuziosissime che regolavano tutti gli altri settori – e poiché il costo dei terreni edificabili era già allora una componente rilevante del prezzo di una casa, occorreva stabilire quanto potesse venire costruito su ogni lotto.
Il sistema più semplice era quello di fissare in una strada nuova l’altezza del filo di gronda lasciando poi agli acquirenti di decidere come regolarsi con l’altezza dei piani: ma era un accorgimento praticabile nel caso di una strada tracciata con intenti monumentali – nella via Alessandrina a Roma o in via Maqueda a Palermo o nel Cours Belsunce a Marsiglia – che per venire esteso a tutta la città doveva venire generalizzato con una regola.
Quando nel 1666 Londra brucerà nel Great fire, nella sua ricostruzione tutte le strade verranno allargate secondo misure standard che evitino il propagarsi di un altro incendio di casa in casa, e per ciascuna larghezza verrà stabilita un’altezza massima calcolata in modo da rendere possibile la suddivisione dei fabbricati in un numero definito di piani con un’altezza prestabilita: è quello che vediamo in tutte le città, un meccanismo che tuttavia – seppure nella forma di una regola di mercato e di una normativa antincendio – introduce una giurisdizione pubblica sull’interno delle case.
Nel corso dell’Ottocento poi gli igienisti, constatando le dubbie condizioni sanitarie dell’edilizia corrente – le case operaie con un servizio unico sul ballatoio, gli interrati abitati, le stanze non sufficientemente aereate – promuoveranno regolamenti edilizi particolarmente minuziosi proprio sulla disposizione interna degli appartamenti: ora la casa non è più inviolabile, perché a nessuno è più permesso di adattarla liberamente ai propri desideri.
Ma è ormai venuto il tempo rivedere le nostre convinzioni e ridurre al minino essenziale sia le norme di carattere urbanistico – oggi in sostanza al rapporto tra i metri quadrati di superficie di fabbricato edificabile e i metri quadrati di terreno disponibili, anche se personalmente preferirei tornare al rapporto tra larghezza stradale e altezza dei fabbricati, che dà luogo a una città più bella e meglio vivibile – sia quelle edilizie, lasciando alla consapevolezza del mercato di decidere come tagliare i singoli alloggi.
Su questa strada sembra aver fatto benissimo il governo ad avviare una prima cauta liberalizzazione dei lavori interni a un appartamento o a una casa, bypassando le procedure per ottenerne l’autorizzazione. Ma occorrerebbe una più radicale liberalizzazione perché l’interno di un alloggio ritorni a essere il dominio della libertà individuale: in questo caso non occorrono controlli di congruità urbanistica – già conseguiti all’origine del fabbricato – e non si vede perché il suo proprietario non possa abbassare i soffitti a 2,26, l’altezza perfetta suggerita da Le Corbusier, di stringere i corridoi (e pazienza se non lasceranno passare la carrozzella di un infermo), di aprire il bagno su una stanza oppure di non chiuderlo affatto, di dormire in un locale più piccolo di otto metri quadrati, di aprire soltanto una finestra nell’alto di un sottotetto, e quant’altro i suoi desideri possano suggerire: il principio dell’inviolabilità del domicilio, connaturato alla democrazia millenaria della civitas e quindi al suo mercato – come sostiene Salvati – può venire incrinato per gravi e drammatici motivi (come quelli del tardo Ottocento) ma deve appena possibile venire ripristinato.
La cosa curiosa è la modestia delle reazioni corporative: gli architetti dovrebbero essere felici di essere ora in grado di proporre ai loro clienti soluzioni planimetriche e arredamenti finalmente liberi e fantasiosi, offrendo finalmente sul mercato la loro libertà inventiva, e invece li vedo trincerarsi dietro alla pretesa di essere migliori garanti di un capomastro della stabilità statica degli edifici da restaurare: poco, mi pare.
Marco Romano è professore ordinario di estetica (http://www.esteticadellacitta.it) della città. Il suo ultimo libro è “La città come opera d’arte” (Einaudi, 2008).
Semplicissimo: non possiamo essere liberi dentro la nostra casa perche’
“il vile sceriffo di Nottingham” ci deve spremere in continuo.
Ovvero il numero di vespasiani determina la classifcazione dell’immobile , ergo il tuo reddito….e quindi quanto paghi fino a che morte non ci separi….perché subito dopo pagheranno una tantum gli eredi….per avere poi il privilegio di pagare per tutta la loro esistenza.
Tutte le regole sulle case hanno un unico fine: alimentare l’immonda bestia confederata.
Serenissimi Saluti
Martino
Più che conseguenza di un motivo impositivo, la straordinaria regolamentazione del privato domestico segue da una parte l’aspetto culturale generale di omaggio al Sovrano-stato, che deve mettere il naso dappertutto, e dall’altro la giustificazione di un apparato burocratico che deve intervenire nella codificazione e nel controllo di quanto avviene anche dietro la porta della camera da letto.
Tutto ciò, caro professore, con la Bellezza ha ben poco da spartire.
Un saluto
microalfa