Uno sugar daddy per la tassa sulle bibite: l’amaro risveglio del voto americano
Negli Stati Uniti e all’estero, il destino della corsa alla Casa Bianca ha comprensibilmente monopolizzato i commenti successivi alla recente tornata elettorale americana. Tuttavia, i sudditi dello zio Sam – o dello zio Don – erano chiamati a eleggere anche rappresentanti al Congresso, governatori, legislatori statali e sindaci, nonché a pronunciarsi, a livello locale, su una serie di quesiti con immediati riflessi di policy, su temi variegati come la legalizzazione della marijuana per uso medico, la regolamentazione delle armi da fuoco, i prezzi dei farmaci o la disponibilità dei sacchetti di plastica. Anche da queste consultazioni provengono indicazioni poco confortanti.
In particolare, tre città californiane – San Francisco, Oakland e Albany – e Boulder, in Colorado, hanno approvato l’introduzione di accise sulle bevande zuccherate, che si aggiungono a quelle già applicate a Berkeley, di nuovo in California, e a Philadelphia, in Pennsylvania. Anche Cook County – la contea che ospita Chicago, nell’Illinois – potrebbe intraprendere la stessa strada questa settimana. L’inasprimento del prelievo sulle bibite non è un’idea nuova – nel 2012, un’analoga iniziativa era stata adombrata anche in Italia, per mano dell’allora ministro Renato Balduzzi – ma gli esperimenti pratici erano rimasti finora piuttosto sparuti: è possibile che le recenti vittorie elettorali producano una diffusione su vasta scala della soda tax?
Il rischio è tangibile: specie se consideriamo che all’accresciuta attenzione al tema corrisponde una sempre maggiore propensione alla spesa da parte delle fazioni in campo. Il New York Times ha sottolineato come a San Francisco e Oakland si siano spesi per i quesiti sulla soda tax circa 50 milioni di dollari: più di quanto abbiano raccolto complessivamente – nella stessa area – le campagne senatoriali, quelle sull’uso medico della marijuana e quelle sulla regolamentazione delle armi da fuoco. E se è del tutto naturale che le aziende colpite contribuiscano pesantemente per contrastare queste proposte, la novità è che i sostenitori della misura sono quasi riusciti a eguagliare il loro livello d’investimento.
Anche gli alfieri della lotta alle bibite zuccherate hanno trovato – per così dire – uno sugar daddy: e il dato assume una più intensa valenza politica dal momento che si tratta dell’ex sindaco di New York Michael Bloomberg. Già nel corso del proprio mandato di primo cittadino, il magnate dell’editoria si era segnalato per un approccio piuttosto radicale alla materia, in particolare con il divieto di servire porzioni di bevanda superiori alle 16 once – decisione in seguito cassata dai giudici e tanto demagogica quanto velleitaria, nella terra del refill.
Se interamente traslato sul consumatore, il tributo aumenterebbe di 67 centesimi il costo di una bottiglia da due litri: con un plausibile effetto sui consumi, ma con un impatto molto più fumoso sui fattori di rischio connessi all’obesità. La specie (le imposte sulle bibite zuccherate) sconta i limiti caratteristici del genere (le imposte sugli alimenti in funzione di politica sanitaria): si tratta di strumenti che mirano a incidere su fenomeni multicausali attraverso la criminalizzazione di singole componenti, senza tenere conto degli effetti di sostituzione e dell’importanza di uno stile di vita globalmente equilibrato; e così facendo, per giunta, finiscono per colpire sproporzionatamente le fasce più deboli della popolazione, con un effetto regressivo che – a propria volta – influenza negatimente l’aspettativa di salute.
L’ascesa della soda tax negli Stati Uniti è una circostanza da non sottovalutare in un mondo caratterizzato da una sempre più accesa convergenza delle ricette regolamentari – specie di quelle che soddisfano l’action bias degli amministratori pubblici senza controindicazioni apparenti. La forza di gravitazione dello spauracchio Trump induce a guardare altrove: ma occorre ricordare che i politici – anche i peggiori – passano; mentre le politiche tendono a essere terribilmente più persistenti.
basterebbe smetterla di dare sussidi all’agricultura per le piantagioni di mais, che generano un prezzo ben al di sotto del market clearing price per il corn syrup. E invece no, il povero consumatore viene fregato due volte: prima viene tassato per dare sussidi al corn, poi, siccome il corn syrup fa male, viene tassato pure quando beve la bibita. Fantastico!
Io sono totalmente a favore, a chiacchiere si avanzano critiche, ma un esperimento di massa e lungo non s’è mai fatto.
Dal mio punto di vista accolgo favorevolmente l’imposizione di questa tassa sulle bevande zuccherate,con il tentativo di ridurne i consumi in particolare tra i bambini. Penso che il risultato sarebbe scarso se non si imponesse ai fabbricanti di ridurne l’uso di zuccheri o dolcificant di almeno il 50% in ogni prodotto alimentare con una seria e rigida imposizione legislativa.
L’obesità nella popolazione giovani e anziani ha un costo in termini di sanità ben più elevato del ricavo dalla imposizione fiscale.
Sarebbe auspicabile anche in Italia e Europa.
Io capisco (ma non necessariamente approvo) la posizione di chi e’ a favore, pero’ trovo assurdo che si applichi una tassa prima di eliminare il sussidio che rende le bibite zuccherate piu’ economiche.