Una scuola libera è di libero mercato
Riceviamo e volentieri pubblichiamo da Riccardo Canaletti
L’articolo di Demetrio Marra, uscito l’8 luglio per la rivista «La ricerca», pone la questione fondamentale del futuro della scuola. In particolare, si suggerisce una virata specifica del sistema scolastico in favore di quelle battaglie tipiche dei Social Justice Warrior e che vengono, un po’ troppo facilmente, definite “il politico”. Questo politico che dovrebbe tornare nelle scuole, visto come anello di congiuntura tra l’ambiente dell’istruzione e l’esterno, la vita reale, è – com’è chiaro leggendo il pezzo di Marra – un politico di parte (ed è del tutto legittimo; sarebbe, anzi, strano, che non fosse così). Cosa si chiede alla scuola del futuro? Principalmente tre cose: libertà di critica e libera gestione della conoscenza fornita; sensibilizzazione verso i problemi dell’attualità, declinati attraverso le correnti dominanti di critica del sociale quali il femminismo, l’ecologismo, ecc.; e la possibilità che gli studenti e i docenti tornino a essere protagonisti della vita scolastica, avendo voce in capitolo nelle scelte che la riguardano. In quest’articolo cercherò di mostrare come le prime due istanze (libertà di critica e sensibilizzazione politicizzata) siano in contraddizione. Inoltre, suggerirò che una vera libertà di critica sia possibile solo in un contesto concorrenziale. Infine, grazie al principio di homestead proposto in un articolo di Rothbard del 1969, trovando anche un punto di incontro con quanto detto da Marra, suggerirò che l’intuizione secondo cui la scuola (pubblica) sia degli studenti e debba tornare a loro è legittima (ma, vista l’importanza dell’argomento, che richiederebbe un altro articolo, ho scelto semplicemente di accennarlo senza poi approfondire).
Inizio col dichiarare subito le mie posizioni al riguardo: un sistema scolastico privatizzato e competitivo, politico per scelta degli studenti-consumatori.
Voglio sottolineare già un elemento: i consumatori sono forse la categoria (anche se non ha senso, in questo caso, parlare per gruppi) che riceve il miglior trattamento in una società. Il filosofo Michael Huemer sottolinea:
Customers of big corporations are often unreasonable and disagreeable, and the company puts up with it and bends over backwards to make the customers happy. Example: I buy a product at a big chain store, take it home, cut off the packaging, then decide, for no particular reason, that I don’t like it anymore. I take it back to the store to return it. Dialogue: “Is there anything wrong with it?” “Nope, I just don’t want it anymore.” “We’re very sorry, sir.” Then they give me my money back. That’s the sort of interaction that I typically have with big corporations and their representatives. (In case this isn’t obvious: in that story, I’m the one who’s being a jerk.)
Questo per suggerire già, sul piano pratico, quale potrebbe essere il modo migliore di guardare agli studenti. In secondo luogo, voglio aggiungere che politico in questo senso vorrà dire politico in base alla scelta di chi in quella scuola vive e studia. Infatti, ipotizzare che la scuola possa tornare ad essere politica, senza chiarire cosa dovrebbe essere insegnato (anche se Marra suggerisce nell’articolo: “Parlare di nuovi soggetti pedagogici, di femminismo, di violenza, di immigrazione, dunque di intercultura, di gender; parlare di crisi ambientale ed economica, di ecologia, ecc.”). Faccio un esempio: poniamo che la situazione in Italia ci porti a protendere per idee come la chiusura dei confini e il blocco dei flussi migratori (tra l’altro impossibile, ma potremmo pensarlo); poniamo, inoltre, che il cristianesimo torni a svolgere un ruolo, che in parte ha comunque mantenuto, di arbitro morale e che magari accetterebbe la presenza di coppie omosessuali, ma non l’adozione, perché «contro natura». Cosa dovrebbe impedire alla scuola di avere un piano didattico tarato su questo?
Probabilmente la risposta sarebbe: proprio a questo serve far rientrare il politico nella scuola, per evitare che le coscienze si scarnifichino legandosi a queste idee sbagliate. Il problema è che (1) non vedo quale possa essere la giustificazione per una pianificazione della scuola in base a certe idee e non ad altre (anzi, questo porterebbe a una contraddizione tra la volontà di riportare al centro la libertà di gestire la propria conoscenza sul mondo e l’imposizione di una interpretazione specifica che taglia fuori il resto). Inoltre (2) ci troviamo di fronte a un ulteriore ostacolo: poniamo – for the sake of argument – che si condividano i concetti di base che interessano anche il femminismo, il problema ambientale, ecc. Esattamente quale femminismo dovrebbe essere insegnato? Quello libertario? Quello marxista? E quale ecologismo? Quello primitivista? quello liberale? E siamo sicuri che, trattandosi di attualità e di politica, il corpo docenti potrebbe davvero essere neutro e fornire la stessa quantità di informazioni su tutte le alternative e non solo su quelle che interessano a loro?
Il problema sopramenzionato, come quello trattato da Marra sulla libertà di parola nelle scuole (con gli esempi della professoressa di Palermo, della docente di matematica, ecc. – cfr. nell’articolo, par. 4) in realtà è un problema della scuola pubblica. È un problema, meglio, che si dà nel caso in cui si accettasse la volontà di far rientrare il politico ma all’interno di questo modello. Infatti, ciò di cui si parla è come tutti possano scegliere sulla propria istruzione, sia dal lato dei docenti che da quello degli studenti. Ma questa scelta, che dovrebbe essere garantita lasciando piena autonomia agli individui dentro e fuori dalla scuola (per cui il caso della professoressa che ha sputato a un agente in divisa non costituirebbe più un problema), come viene anche scritto oltreoceano, ha senso solo se la scuola deve rimanere quel bacino confuso e confusionario in cui convivono animi e spiriti diversi, incomprensibilmente trattati allo stesso modo.
In uno scenario privato, i genitori sceglierebbero di iscrivere il proprio figlio nella scuola con l’offerta didattica più in linea con quanto pensano. In quel caso accetterebbero le clausole contrattuali relative alle regole della scuola (per es. potrebbero esserci regole del tipo: “Vietato fare manifesti inneggianti al razzismo” oppure “Vietato fare qualunque tipo di propaganda politica”, ecc.). In quel caso, una professoressa potrebbe scegliere di provare a entrare in una scuola più tollerante verso le sue idee personali, uno studente potrebbe essere libero di paragonare le leggi razziali al Decreto Sicurezza, poiché avrebbe pagato per studiare e formarsi in un contesto che non prevede la censura politica.
Pensare che questo darebbe voce a realtà intolleranti costituisce una implicazione non necessaria. Infatti, come sottolinea Dario Antiseri nel suo recente libretto edito da Rubbettino Più libertà per una scuola migliore:
La verità è che la concorrenza è la migliore e più efficace forma di collaborazione; è, come dice F. A. von Hayek, una macchina per la scoperta del nuovo da cui scegliere il meglio e questo vale nella ricerca scientifica, nella vita di una società democratica e sul libero mercato.
Questo significa che probabilmente si tenderebbe a una situazione di omogeneità spontanea, dovuta alla necessità di doversi confrontare con l’intera rete di soggetti istruiti anche in scuole diverse (è implausibile pensare che un’azienda-scuola scelga di proporre un’offerta formativa del tutto incompatibile con quelle delle altre scuole, poiché nessuno sceglierebbe di isolarsi dal resto del mondo scegliendo un programma completamente fuori asse). E quindi la palla tornerà, eventualmente, nelle mani della società civile e non della scuola; se vogliamo una società come la desideriamo, dobbiamo impegnarci ogni giorno per convincere quanta più gente possibile, non possiamo imporre dall’alto in maniera del tutto arbitraria le idee del partito socialista di turno (attraverso il sistema scolastico e il monopolio statale dell’istruzione, oggetto della critica di Antiseri, che non auspica comunque ciò che invece io ho in mente).
Inoltre, è bene non escludere i possibili motivi che stanno dietro alle risposte che si danno ai problemi attuali e che vengono portate avanti dagli intellettuali. Lascio direttamente la parola a Robert Nozick:
L’economista Ludwig von Mises ha spiegato l’opposizione al capitalismo come un risentimento di quella parte della società che ha minor successo. […] Tuttavia, gli uomini d’affari che non hanno successo di solito non accusano il sistema. E perché gli intellettuali dovrebbero incolpare il sistema, piuttosto che i loro concittadini che non li apprezzano? […]
Gli intellettuali si aspettano di essere le persone più stimate di una società, quelle con il maggior prestigio e il maggior potere, quelle con i maggiori riconoscimenti. Sentono di averne il diritto. Ma di solito una società capitalista non onora i propri intellettuali. […]
Gli intellettuali sentono di essere le persone di maggior valore e di maggior merito e ritengono che la società dovrebbe ricompensare le persone secondo il valore e il loro merito. Ma una società capitalista non soddisfa il principio della distribuzione “a ciascuno secondo il suo merito o il suo valore”. Fatta eccezione per le donazioni, le eredità e le vincite al gioco che si verificano in una società libera, il mercato distribuisce a colore che colgono e soddisfano la domanda espressa dal mercato e le modalità di questa distribuzione dipendono dall’entità della domanda e dell’offerta alternativa. Gli uomini d’affari e i lavoratori che non riescono a conseguire il successo non hanno contro il sistema capitalista lo stesso rancore degli intellettuali fabbricanti di parole. Solamente la sensazione di una superiorità non riconosciuta, di un diritto tradito, può produrre quel rancore. […]
L’intellettuale pretende che la società sia una grande scuola, che sia come l’ambiente in cui egli andava così bene e in cui era così apprezzato.
Notiamo, in maniera quanto mai rapida, due elementi: (a) una scuola davvero dentro al mondo, come anche Marra auspica, è una scuola che condivida il sistema di premi e contrappesi dovuti al libero scambio che caratterizzano la società (anche se questo libero scambio viene spesso inquinato proprio dallo Stato, ma non è argomento dell’articolo). (b) L’unico motivo per auspicare un ritorno dei temi politici (declinati in termini intellettuali, come il femminismo, l’ecologismo, ecc.), ovviamente vagliati da un gruppo platonico di intellettuali/filosofi che ci assicuri l’eliminazione di spinte razziste e intolleranti, è il rancore e l’invidia sociale degli intellettuali. L’unico modo, ripeto, per cambiare legittimamente le cose è lavorare dal basso e rispondendo alla domanda del mercato di cui parla Nozick, ovvero la domanda della gente che sceglie cosa preferire.
A questo punto le discussioni sulla riforma dei metodi didattici diventano del tutto secondaria non si tratterebbe di una riforma top-down, ma di una scelta dei singoli docenti che metterebbero nel mercato il loro metodo, cercando di essere scelti). Ma, a titolo personale, posso trovarmi d’accordo su uno svecchiamento della scuola, anche per ciò che riguarda la lezione frontale. Sono anche d’accordo su ciò che riguarda la parola data agli insegnanti, agli studenti, al personale. In un articolo di Murray N. Rothbard si dice chiaramente come secondo il principio di homestead (secondo cui la proprietà appartiene a chi la occupa, la trova e la trasforma con il suo lavoro) la scuola pubblica sia in realtà degli studenti e dei docenti che ci lavorano (e in particolare, si noti, proprio degli studenti che pagano, ancora più che dei docenti che ci lavorano). Quindi non ci sono dubbi che dovrebbe essere proprio il corpo studenti ad avere l’ultima parola sulla scuola. Ma non, come si penserebbe, dicendo cosa fare e cosa no. Bensì, come in qualunque altro caso, chiamando “l’assistenza clienti” o scegliendo, in alternativa e più semplicemente, di cambiare scuola, possibilità, questa, che in uno scenario di monopolio dell’istruzione pubblica politicizzata (perché politico significa sempre, è evidente, politicizzato da qualcuno) non ci è data. Forse prima ancora della libertà di parola e di critica nelle scuole, dovremmo pensare alla libertà delle scuole stesse, libertà, prima di tutto, da qualunque imposizione.