Una proposta. Rifondare il senso di comunità (e la sua capacità di decidere) con il sistema elettorale uninominale
Riceviamo e volentieri pubblichiamo da Matteo Repetti
Diceva Roger Scruton che una società, una comunità, si può facilmente valutare sulla base di quello che le persone ritengono di dover fare – in modo tendenzialmente disinteressato – non per i propri figli, per gli amici, ma per i loro vicini di casa: è la cd. vicinitudine (neighbourliness).
E’ questo, in definitiva, il primo nucleo fondativo di ogni comunità che vada oltre l’appartenenza familiare e il proprio clan; che permette, innanzitutto, di amministrare il condominio in cui si abita e di occuparsi del quartiere dove si vive.
E’ questo senso di appartenenza, basato sul rispetto di pochi valori fondamentali e di regole di comportamento sostanzialmente condivise, che consente ai gruppi sociali e alle persone che ne fanno parte, come in un sistema di cerchi concentrici, di preoccuparsi del proprio vicinato, così come della scuola presso cui mandare i propri figli, dei mezzi di trasporto per raggiungere il centro città, e poi del governo della città, e così via.
Per fare questo le comunità, a partire da quelle più piccole, provvedono alla selezione degli individui ritenuti più adatti ad occuparsi dell’amministrazione delle cose di tutti, in base ad un naturale principio di rappresentanza e di conseguente responsabilità; e la responsabilità è fondamentalmente personale e diretta.
Perché fare proprio queste riflessioni durante la più grave pandemia degli ultimi 80 anni, quando ci si dovrebbe invece preoccupare con assoluta priorità ed urgenza del piano sanitario da predisporre per distribuire i vaccini, delle decisioni che riguardano l’eventuale riapertura delle scuole, delle misure di sostegno per le attività economiche pesantemente penalizzate dal virus, e di come spendere la montagna di soldi che – seppur a debito ed a carico delle prossime 3/4 generazioni – l’Unione europea ci elargisce?
Perché è evidente a molti come il nostro sistema sia fondamentalmente inceppato e frammentato. E di come si faccia molta fatica ad individuare le soluzioni, le vie di uscita.
Partiamo dalla – ormai famigerata – lotta alla burocrazia. Tutte le persone di buon senso sanno che nel nostro Paese è difficilissimo rapportarsi con la pubblica amministrazione, che risulta tremendamente farraginosa: nessuno sa e/o riesce a prendere delle decisioni ed è complicatissimo districarsi nel mare magno delle diverse competenze, dei distinti livelli di governo, delle circolari, dei pareri, ecc..
E’ come se, ogni volta che entrano in gioco interessi pubblici e decisioni da prendere per la collettività, si perdessero di vista le stesse categorie fondamentali dell’agire quotidiano che presiedono invece alla vita individuale delle persone. Perché, se devo comprarmi un cappotto, so esattamente cosa devo fare (ne ho bisogno, non ne ho bisogno, mi piace, non mi piace, è troppo caro, ecc.), mentre se ci si deve occupare della metropolitana della propria città non si riesce a fare altrettanto? Eppure basterebbe farsi le stesse domande: serve, non serve, quanto costa, ci sono alternative, ecc..
Ebbene, a fronte di questi problemi, i più accreditati tentativi di cui si è parlato negli ultimi tempi sono stati il fantomatico decreto-semplificazioni, in base al discutibile principio per cui dovrebbe essere aggiunto un nuovo provvedimento per rimediare alla confusione generata da quelli già esistenti (si tratta di riforme sempre n+1 anziché in levare); oppure la tentazione di derogare a tutto secondo il cd. modello del Ponte di Genova. Ma così facendo non si migliorano le proposte del Recovery Plan, né si rende più efficiente la macchina amministrativa: è la progettualità che manca, e la capacità di decidere. Allo stesso modo, la sempre invocata digitalizzazione della P.A. è certamente un utile strumento: ma per andare dove?
Il problema è evidentemente più strutturale, attiene ai meccanismi naturali, quasi antropologici, sulla cui base si forma una comunità e la si amministra. Insomma, forse è bene ripartire dal vicino di casa di cui abbiamo parlato, da una sorta di nuovo contratto sociale con nuove aspettative di reciprocità; e dalla formazione di nuova classe dirigente, e dalla necessità di decidere (a fronte della legittimazione ricevuta).
E’ – neppure a dirsi – un lavoraccio (ce n’è per tutti: dalla scuola all’informazione, alla ridefinizione del ruolo del lavoro nella società, all’importanza dei soldi, passando per la globalizzazione, l’Europa, ecc.). Sarebbe, in altre parole, il compito della politica.
Se queste sono le premesse da cui partire, c’è forse uno strumento che più di altri può svolgere un ruolo determinante.
Penso ad una riforma del sistema elettorale in senso uninonimale, sul modello di quello britannico per capirci. Ogni quartiere di ciascuna città italiana, ogni conurbazione di 80/90.000 abitanti circa, eleggerebbe un unico proprio rappresentante da mandare in Parlamento, sul modello delle costituencies britanniche.
Storicamente, in Italia, i sistemi elettorali di tipo maggioritario, e soprattutto quelli uninominali, non hanno riscosso troppa fortuna. Sono stati privilegiati i meccanismi proporzionali: in parte per il timore, così si diceva una volta (e a volte si sente dire ancora oggi), di derive autoritarie; in parte per la prevalenza di ideologie politiche totalizzanti, per cui era ritenuta preferibile un’astratta identità di schieramento rispetto alla pragmatica necessità di formare un’opinione sui problemi concreti da provare a risolvere.
I risultati sono sotto gli occhi di tutti. Siamo una società assolutamente frammentata, del tutto disabituata ad affrontare i problemi per quello che sono ed incapace di decidere, vittima di ogni particolarismo e corporazione, di interesse pubblico manco a parlarne.
Il sistema uninominale all’inglese è stata la proposta – isolata – del partito radicale di Pannella, per molto tempo osteggiata da (quasi) tutti. Anche con la seconda repubblica, successivamente al referendum che poi ha determinato, in ambito locale, il passaggio ad un sistema maggioritario, si è per lo più sempre ragionato in termini di coalizione e di premio di maggioranza.
Adesso, siamo di fatto tornati al pantano del proporzionale (anche per effetto dell’ultima decisione della Consulta di rigetto della proposta referendaria maggioritaria avanzata dalla Lega di Salvini). Come se ne esce?
Il sistema elettorale uninominale presenta molti vantaggi. Si conviene comunemente che garantisca un’innegabile spinta al bipolarismo, ad un sistema politico nel quale è più facile l’alternanza di forze diverse al potere.
Ma ancora prima, l’elettore sceglie direttamente tra un numero molto limitato di candidati, con ciascuno dei quali può avere un contatto quasi immediato: si consente così la conoscibilità personale di chi si presenta alle elezioni (che è probabilmente cresciuto nella sua circoscrizione ed è conosciuto per quello che ha fatto nel corso della sua vita personale e professionale, e sarà ulteriormente chiamato a rispondere di quello cha avrà fatto dopo essere stato eletto).
Il contatto ravvicinato tra elettore e candidato fa sì che, nella scelta di voto, pesi la fiducia nella persona più che l’opzione ideologica a favore di questo o quel partito; questo favorisce, nel dibattito e nella formazione delle scelte politiche, il prevalere del pragmatismo sull’ideologia (a partire dalle questioni che più direttamente e concretamente riguardano la circoscrizione elettorale).
La prossimità tra elettore e candidato rende più difficile e svantaggioso per le segreterie dei partiti la possibilità di presentare candidati paracadutati: in altre parole, si alza fatalmente la qualità del personale politico.
Tendenzialmente si riduce il costo della campagna elettorale per il candidato: il collegio uninominale è infatti la circoscrizione elettorale più piccola che si possa avere (in genere le sue dimensioni si misurano in qualche decina di migliaia di elettori, e non in centinaia di migliaia o milioni, come accade nei sistemi proporzionalistici); questo attenua il rischio che, per farsi eleggere, il candidato sia costretto a contrarre obblighi particolarmente gravosi verso questo o quel finanziatore.
Insomma, l’adozione di un sistema elettorale di tipo uninominale potrebbe costituire il tentativo di invertire la rotta e contribuire a rifondare il senso della nostra comunità (e la sua capacità di decidere).
Si tratta di un criterio pervasivo: il principio di prossimità e responsabilità potrebbe progressivamente estendere i suoi effetti in altri ambiti della società, nel campo del lavoro (in vista di una sua maggiore produttività), dei rapporti sociali, influenzando positivamente la rigenerazione del mondo dell’associazionismo e dei corpi intermedi.
Ecco perché è forse opportuno parlarne adesso, di fronte alla più grave crisi sanitaria ed economica degli ultimi 80 anni: per avere qualche strumento utile in più per provare a fronteggiarla.