Una pagina chiusa per sempre? L’Olocausto e la memoria
di Giuliano Cazzola
Oggi, 27 gennaio, ricorre l’80° anniversario della liberazione, da parte dell’Armata rossa, del campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau (in Polonia ma vicino ai confini con la Germania). In questa data, si svolge la Giornata internazionale della memoria delle vittime dell’Olocausto, promossa dall’ONU nel 2005 con l’invito agli Stati Membri a sviluppare programmi educativi per infondere la memoria della tragedia nelle generazioni future e impedire che quella tragedia si ripeta.
Negli anni scorsi, la commemorazione della Giornata del 27 gennaio (il Parlamento italiano assunse un ruolo di avanguardia a partire dal 2000) ha unito le opinioni pubbliche europee, ben al di là del loro atteggiamento nei confronti di Israele, lo Stato che alla fine del Secondo dopoguerra fu costituito, con un voto dell’ONU, per dare una patria comune dove la popolazione della diaspora potesse vivere e progredire in libertà e pace. Uno Stato sovrano è chiamato a compiere scelte ed azioni politiche nell’area in cui è insediato e sul piano dei rapporti internazionali. Anche nel dibattito interno in un regime democratico.
E’ normale che quelle iniziative politiche incontrino approvazione o dissenso. Ma non era mai successo (almeno da molti decenni) che un intero popolo unito da una stessa fede, ma articolato in contrapposte convinzioni politiche dei singoli e delle diverse comunità, nonché perfettamente integrato nella storia e nella vita delle nazioni in cui le generazioni passate avevano trovato accoglienza, fosse ritenuto responsabile in toto delle alleanze e delle politiche adottate ed effettuate dai governi di volta in volta in carica nello Stato di Israele.
Anche gli alleati e i prosseneti dei nemici dello Stato ebraico hanno manifestato nel tempo, verso gli ebrei sterminati a milioni dai nazisti, quella pietà che non hanno mai sentito nei confronti degli ebrei vivi, nostri contemporanei. In fondo, quanto era avvenuto in quella fredda giornata del 1945 costituiva un titolo d’onore per la gloriosa Armata rossa.
Dopo i massacri del 7 ottobre 2023 e la reazione dell’esercito israeliano deciso a venire a capo una volta per tutte dei nemici dislocati sui confini (peraltro con risultati effettivi dopo decenni trascorsi nel ricercare invano, attraverso i negoziati, situazioni di pacifica convivenza) sembra essere svanita – in tutto quel mondo civile che fino a pochi mesi addietro rivendicava le sue radici ebraico-cristiane – quella capacità di distinguere tra l’ebreo e l’israeliano.
Purtroppo una debordante solidarietà filo-palestinese, anche essa priva di riscontri recenti, ha recuperato dall’immondezzaio della storia la pianta carnivora dell’antisemitismo, resuscitando in Europa e in USA vere e proprie campagne di persecuzione delle comunità ebraiche. E sono proprio gli Istituti di eccellenza come le Università a distinguersi in queste insensate manifestazioni, che si affidano ad ogni pretesto per attaccare le comunità ebraiche.
Già l’anno scorso la giornata del 27 gennaio venne turbata dai filo-Pal al punto di impedire agli ebrei di sviluppare, per ragioni di sicurezza, le loro commemorazioni. Nulla può essere definito aberrante del risorgente antisemitismo camuffato da un moto di solidarietà con i palestinesi, magari agitando le stesse parole d’ordine di Hamas.
Davanti all’Università statale di Milano, lo scorso anno, un gruppo di studenti (che alle successive elezioni per eleggere le loro rappresentanze negli organismi accademici si rivelarono una netta minoranza) affissero un manifesto – col titolo “L’indifferenza è peggiore della violenza” – nel giorno in cui l’ateneo conferiva la laurea honoris causa in Scienze storiche alla senatrice a vita Liliana Segre.
Nel manifesto non si metteva in discussione l’onorificenza per la senatrice, vittima della Shoah, ma si criticava l’ipocrisia di un’istituzione accademica che ricordava gli orrori del passato, voltandosi dall’altra parte di fronte agli orrori del presente. Fino a collaborare alla ricerca bellica su nuovi strumenti con cui uccidere in tutto il mondo e negando il genocidio in Palestina. “Le università – concludeva il manifesto – hanno il dovere di fare memoria, e di farla vivere nell’oggi, di fronte ai genocidi del presente. Se non lo fanno, sono complici”.
In pratica un vero e proprio furto di memoria incistato in un insieme di falsificazioni dei fatti che poi sono dilagate in migliaia di manifestazioni settarie e spesso violente nel corso di tutto l’anno.
Quest’anno ci auguriamo che la stessa tregua trovata sui campi di battaglia si riversi a moderare la polemica politica, le cui avvisaglie sui social lasciavano intendere, da noi, un tentativo di esproprio della Memoria della Shoah con quanto viene definito oggi il ‘’genocidio’’ del popolo palestinese.
E’ una competizione assurda perché non vi è paragone tra i due eventi, pur se si assume il monito del poeta John Donne secondo il quale quando una campana suona a morto, lo fa per tutti gli esseri umani. Milioni di persone prima e durante la Seconda guerra mondiale furono sterminate per il solo fatto di appartenere ad una particolare etnia; nella Striscia di Gaza nessuno è stato ucciso apposta perché palestinese.
Anzi, sarebbe il caso di chiedersi: che cosa significa essere ebrei? Non si tratta certamente di una razza col naso adunco e la testa a pera. Chi si è recato ad Israele ha l’impressione di partecipare ad un congresso internazionale insieme a persone che provengono da ogni angolo del mondo con caratteristiche somatiche diverse perchè tipiche degli abitanti dei luoghi di provenienza: dalle persone bionde con la pelle bianca di origine nordeuropea, ai neri originari dall’Etiopia e in generale con i medesimi caratteri fisici delle popolazioni del medio-oriente. Essere ebreo significa professare e praticare una religione? No. Israele è uno Stato laico, governato secondo le leggi di uno Stato di diritto e non in base ai precetti della sharia, la cui violazione è punita con la morte. Nel caso di Israele si potrebbe evocare il principio classico del ‘’libera chiesa in libero Stato’’, nei paesi arabi teocratici, chi non osserva la religione rischia la morte. Per non parlare della condizione delle donne e dei c.d. diritti civili.
Oggi è bene che i media dedichino i loro programmi alla Shoah e continuino a farlo anche nei prossimi giorni. E’ certamente una scelta giusta, opportuna e condivisibile, perché la memoria deve essere coltivata e custodita anche quando riguarda l’abominio dell’Olocausto di cui l’Europa si rese responsabile.
Purtroppo – lo abbiamo appreso dopo il 7 ottobre – non si tratta di una pagina chiusa per sempre. L’antisemitismo è una piaga mai suturata nella storia secolare del Vecchio Continente, sulla quale ha potuto imporsi la ‘’banalità del Male’’ del nazismo, le cui radici erano piantate in vicende tragiche e spietate di autodafé, di pogrom, di ghettizzazione, di conversioni forzate, di negazione dei più elementari diritti, di torture e massacri. Ma tornare a ricordare senza interferenze questo passato non può essere un alibi, come lo è stato fino a 15 mesi or sono.
Sono in tanti coloro che si scaricano la coscienza commemorando gli ebrei morti, per criticare quelli vivi assediati – da nemici che troppe volte vengono giustificati per i loro delitti – in quella terra promessa che è lo Stato d’Israele. Poi non c’è voluto molto a capire che l’antisemitismo sia tuttora vivo e vitale in Europa. E non riguarda soltanto i settori dell’Islamismo radicale (anche senza spingersi tanto in là non dimentichiamo quell’integralismo di Stato che impone la legge islamica – la cosiddetta “sharia” – anche nella vita civile o prevede la morte nei casi di apostasia e blasfemia); ma cova anche nelle cellule cancerogene dei gruppuscoli neo-nazifascisti, riemersi in molti paesi europei, dove, dopo il 7 ottobre, l’antisemitismo è riuscito a “Buscar el levante por el ponente” ovvero arrivare all’estrema sinistra partendo dall’estrema destra.
Hannah Arendt ha spiegato i motivi di questo odio ancestrale che non ha solo aspetti religiosi. E’ noto che gli ebrei sono stati qualificati per secoli dalla Chiesa Cattolica come ‘’deicidi’’, gli uccisori di Dio. Toccò a Giovanni Paolo II, quando si recò a visitare la Sinagoga di Roma, dichiarare che non solo del Golgota non hanno colpa le generazioni che si sono succedute nel tempo, ma neppure l’intero popolo ebraico di allora, perché la responsabilità della morte di Gesù ricade soltanto su coloro che la vollero, agendo con pregiudizi ed ingiustizia; come ha scritto la politologa tedesca l’astio verso gli ebrei nasceva dal loro essere una comunità sovranazionale che poi, per questo popolo, non era altro se non una reazione difensiva rispetto alla diaspora. Di qui le critiche riguardanti la loro estraneità alle comunità nazionali e la loro identificazione con i c.d. poteri forti che a dire dei nazionalismi condizionano la vita dei popoli.
Chi scrive, cattolico praticante, porta al collo una catenina a cui sono appesi sia il crocefisso che la stella di Davide: è un modo per riconoscere le radici giudaico-cristiane dell’Europa. Ma anche un’espressione visibile di solidarietà nei confronti di un popolo perseguitato che, ancora oggi, deve guardarsi dall’ostentare i suoi simboli.
Da ragazzo mi capitò di compiere un’esperienza che mi ha lasciato un segno indelebile. Credo che fosse il 1964 o l’anno dopo. L’Associazione dei deportati invitò dei rappresentanti dei movimenti giovanili dei partiti ad un pellegrinaggio nei campi di sterminio (in cui venivano rinchiusi non solo gli ebrei, ma gli zingari, i politici e gli omosessuali). Io partecipai in rappresentanza della Federazione giovanile socialista.
Sul pullman c’erano ex deportati (anche per motivi politici e non solo razziali) e famigliari di quelli che non avevano fatto ritorno. Le visite si limitarono ai campi che si trovavano in Austria (allora le frontiere erano chiuse). Facemmo un solo passaggio in Germania Ovest nel campo di Gusen (sostituito da un Monumento), perché i siti principali tra cui Buchenwald si trovavano nella DDR.
Fu un’esperienza molto commovente perché ad ogni visita alcuni dei partecipanti avevano avuto un congiunto o vi erano stati rinchiusi. Il viaggio durò diversi giorni (con i relativi pernottamenti) durante i quali visitammo un gran numero di Campi, osservando de visu le loro caratteristiche. Ma soprattutto faceva impressione il loro numero, che, se si guarda la cartina, erano solo una parte di quelli in cui la delegazione si fermò, scegliendo prevalentemente i luoghi in cui vi erano memorie personali dei componenti della Associazione.
A pochi km da quegli orrori vi erano ridenti cittadine che sembravano uscite da cartoline illustrate. Visioni che ponevano degli interrogativi inquietanti su quanto era accaduto in quei luoghi nell’indifferenza di chi vi abitava. La visita più importante avvenne nel campo di Mauthausen che era praticamente rimasto intatto e che faceva da scenario per la vita quotidiana in quei luoghi funesti di detenzione. Quando ci recammo in quel sito era in corso una rievocazione a cui partecipavano rappresentanze straniere. A Mauthausen, già campo di punizione e di annientamento (128mila le vittime accertate) attraverso il lavoro forzato nella vicina cava di granito, e la consunzione per denutrizione e stenti (pur essendo presenti anche alcune piccole camere a gas) era in corso la celebrazione di una ricorrenza, forse del giorno della Liberazione da parte delle truppe americane il 5 maggio 1945. Mi fece piacere trovare un sottosegretario socialista, inviato dal governo italiano, che era stato detenuto in quel campo.
Un altro episodio che mi colpì avvenne durante il ritorno in Italia. A un certo punto – credo fossimo in Veneto – il pullman si fermò vicino ad un sacerdote che stava sul ciglio della strada. Uno dei partecipanti al pellegrinaggio, comunista, scese e lo abbracciò, perché era suo figlio. Ci stava bene, in quei momenti, una prova di amore e di tolleranza. Per me fu un’esperienza indimenticabile, non solo per la presa d’atto, da parte di un ragazzo poco più che ventenne, di quanto era accaduto, ma anche per il fascino che esercitavano alcune di quelle persone, già anziane, che avevano combattuto il fascismo tutta la vita, conosciuto anni di galera e tante esperienze da raccontare.
Ma la mia esperienza con queste tragedie della storia non era conclusa. Una decina di anni dopo, andai a visitare, in un altro ruolo più ufficiale, il campo di Buchenwald (con l’insegna crudelmente beffarda: “il lavoro rende liberi”). La costruzione, allora in DDR, era stata in parte demolita; al posto della baracche (ancora in piedi a Mauthausen) vi erano degli enormi rettangoli di carbone, mentre restavano intatti i locali delle “docce” di gas e dei forni crematori. Ma la cosa che più mi impressionò in quella visita non fu il campo in sé, giacchè, molti anni prima, ne avevo visti tanti (sic) in Austria: mi colpì la sua collocazione.
Buchenwald si trova a pochi chilometri da Weimar, la città di Goethe, dei musicisti e dei grandi filosofi idealisti. La città che fu capitale della Repubblica di Weimar, faro democratico tra le due guerre del XX secolo, la cui Costituzione venne presa come riferimento, nel dopoguerra, per le leggi fondamentali dei Paesi tornati alla democrazia. Raggiungere Buchenwald da Weimar, attraversando una foresta di betulle, è come se da Roma si facesse un salto a Frascati o a Genzano. L’ora più buia della storia dell’umanità confinava con quanto era stato il meglio della cultura europea.
La Shoah è un peccato originale di quella parte dell’umanità che la praticò e la tollerò. Una colpa che non si cancellerà mai dal loro dna “nei secoli dei secoli”, anche quando – come ha detto Liliana Segre – quella tragedia troverà posto solo in una riga dei libri di Storia. L’Olocausto – se è consentita una metafora – rappresentò una sorta di organizzazione tayloristica del genocidio (i responsabili della “macchina” dello sterminio si compiacevano dell’efficienza del loro lavoro); fu il “salto di qualità” di una pratica che per secoli era stata affidata all’artigianato dei ghetti, dei pogrom, dei massacri, degli autodafé, delle conversioni forzate, delle esecuzioni sommarie, degli abusi e delle devastazioni. Su quelle radici è cresciuta la pianta del Male Assoluto, non ancora completamente estirpata.
I Campi di sterminio nazisti disseminati in Austria