Una nota austriaca sulle regolamentazioni
I liberali tendono a considerare la regolamentazione come un male in sé, e in genere con ottime ragioni. Esistono però mercati per cui ci sono ottimi motivi per fare eccezione, e uno di questi è la finanza: le banche sono infatti sistematicamente protette dalle conseguenze delle proprie azioni, e in queste condizioni non è pensabile che la libera concorrenza dia risultati positivi.
Le garanzie pubbliche, infatti, generano moral hazard, e questo fa “impazzire” il processo di mercato. Il moral hazard al giorno d’oggi assume forme diverse: garanzie pubbliche sui crediti, politiche monetarie lascive e anticicliche, assicurazioni sulle passività bancarie, bailout e ricapitalizzazioni a spese del contribuente. La finanza è un gigantesco gioco in cui i costi sono socializzati e i benefici privatizzati, ed è reso tale dai continui interventi pubblici.
Un mercato del genere non può funzionare, e dunque, o si elimina la causa principale del problema, o si regolamenta il mercato per impedire alle banche di trarre profitto dalle protezioni pubbliche assumendo rischi eccessivi. In questo articolo voglio spiegare perché la seconda alternativa è probabilmente destinata a fallire.
Come funziona un mercato? Ogni imprenditore valuta costi e benefici in base alle proprie conoscenze e formula delle decisioni. L’imprenditore non sa granché di cosa accade nel mondo, visto che l’economia è una cosa estremamente complessa, ma quasi tutta l’informazione che serve è fornita nel mercato dal sistema dei prezzi, mentre i profitti e le perdite rappresentano il feedback delle scelte effettuate.
Abbiamo quindi che individui con razionalità limitata e informazione incompleta sono in grado di coordinarsi decentemente in un contesto di incertezza irriducibile, grazie alla “divisione intellettuale del lavoro” (Mises) resa possibile dal processo di mercato. Il risultato non è ottimale in senso assoluto, ma economizza sui requisiti informativi, cognitivi e morali richiesti agli attori: il mercato funziona bene anche se le persone sono egoiste, ignoranti, e stupide. Si raggiunge un livello di coordinazione delle scelte individuali altrimenti irraggiungibile, cercando di allineare le azioni di milioni di persone in maniera decentrata.
Cosa accade però quando interi mercati sono distorti dal fatto che le perdite vengono socializzate? In primis, si creano esternalità che incentivano le strategie rischiose. Questo si ripercuote da un mercato all’altro tramite arbitraggio: se su un mercato il rischio viene sottovalutato, si creano discrepanze di prezzo tra questo mercato e gli altri, cioè opportunità di profitto, che distorceranno tutti i mercati collegati a quelli inizialmente distorti.
Ciò inoltre altera il contenuto informativo dei prezzi: il premio per il rischio diventa troppo basso, segnalando erroneamente che assumere rischi non è granché costoso. L’intero processo di scoperta e trasmissione dell’informazione viene distorto, così che l’informazione corretta non viene creata, perché sostituita da un mix di opportunità di profitto vere (cioè coerenti con i fondamentali del mercato) e immaginarie (in larga parte indotte dalle politiche).
Infine i differenziali di prezzo creati dalle garanzie pubbliche generano opportunità di profitto irresistibili, e si crea un fenomeno di selezione e apprendimento malato in cui il mercato seleziona chi assume troppo rischio, e gli agenti interiorizzano strategie troppo rischiose.
È possibile risolvere questo problema con le regolamentazioni? Si può pensare che l’arbitraggio del moral hazard può essere contenuto in vari modi: segmentando i mercati protetti dagli altri, aumentando il costo dell’arbitraggio stesso, aumentando i costi di transazione tra i diversi segmenti, e rallentando l’innovazione. In pratica, meno i mercati sono in grado di coordinarsi rapidamente ed efficientemente, e più il problema rimane limitato e circoscritto. Non una grande consolazione. Probabilmente è per questo che alcune economie, come quella americana, spagnola, estone e irlandese, hanno avuto un boom più deleterio per la stabilità economica, ma è lo stesso motivo per cui sono cresciute. Nessun responsabile di politica economica di buonsenso vorrebbe ottenere i risultati dell’Italia.
Appurato quindi che gli imprenditori non possono coordinare in modo efficiente i propri piani in tali condizioni, occorre chiedersi se sia possibile costruire regolamentazioni efficaci ed efficienti. Affinché ciò sia possibile, è necessario pensare regole che non siano facilmente aggirabili, che non comportino un peso informativo, cognitivo e morale eccessivo sui regolatori (che sono semplicemente uomini), che non richiedano le informazioni che il mercato ha smesso di produrre per poter essere implementate, che non forniscano incentivi eccessivi ad aggirarle, cioè che non siano incompatibili con gli interessi dei vari agenti (altrimenti i costi di enforcement tenderebbero all’infinito), e che non invecchino troppo rapidamente con l’innovazione.
Badate bene: non c’è motivo teorico – in un contesto di moral hazard sistematico – di credere che le attività finanziarie svolgano un ruolo positivo nell’economia. Alcune sì, altre no: pressoché ogni strategia o istituzione finanziaria può venire deviata, e di alcune follie è difficile trovare una giustificazione ragionevole. Ma non è in genere possibile monitorare dall’alto i mercati, e vincolarli in modo che non facciano danni, senza danneggiare anche i processi di scoperta imprenditoriali: non è possibile per lo stesso identico motivo per cui l’economia dell’Unione Sovietica non funzionava, il problema del calcolo economico.
Piccole cose forse si possono fare, ma più si va sul complesso, più i regolatori diventano impotenti. Un limite alla leva finanziaria può andar bene, come anche un limite alla trasformazione di liquidità, o alle possibilità di investimento di certe forme di risparmio in certi mercati: ciò aiuterebbe a contenere la fragilità sistemica creando “cuscinetti” di capitale e di attività liquide. Ma tendenzialmente ogni limite verrà aggirato, perché in un mondo complesso e dinamico e in condizioni di informazione imperfetta ci sono infiniti margini di manovra per reintrodurre distorsioni in forme nuove, e il moral hazard premia proprio chi investe nell’aggirare le regole (in pratica, la stessa banca centrale finanzia chi rende il lavoro dei regolatori un inferno!).
Di miracoli, dunque, non se ne possono fare: la coperta è troppo corta, perché il mondo è troppo complicato per poter essere regolato dall’alto. La complessità è gestibile quando le persone hanno incentivi a gestirla in maniera decentrata, e quando esistono sistemi di produzione e trasmissione dell’informazione, ma diventa rapidamente ingestibile quando viene regolata dall’alto in maniera costruttivista, in maniera cioè incompatibile con gli incentivi e le conoscenze individuali.
Ma allora cosa si può veramente fare? Una soluzione sicuramente esiste: eliminare le garanzie pubbliche che creano distorsioni. L’alternativa infatti assomiglia decisamente troppo ad un cane che si morde la coda: prima si incentiva l’irresponsabilità, e poi si limita la libertà per impedire comportamenti irresponsabili. Se abbiamo bisogno della libertà d’azione per coordinare il processo di mercato in maniera efficiente, abbiamo anche bisogno della responsabilità individuale affinché la libertà d’azione non dia risultati perversi.
Il problema è che il mercato economizza sulla virtù, l’intelligenza e l’informazione, mentre la politica non può farlo, e dunque i mercati sono robusti all’egoismo, alla stupidità e all’ignoranza in un modo che nessun settore pubblico riuscirà mai ad uguagliare. Non è per stupidità, ignoranza e corruzione che le politiche interventiste non funzionano: è che una buona politica interventista non è possibile, perché chiede a chi la implementa più di quanto sia lecito chiedere ad un essere umano.
In questo video: http://www.edge.org/3rd_culture/kahneman_taleb_DLD09/kahneman_taleb_DLD09_index.html si trova il nocciolo del problema: esiste una discrasia temporale tra l’interesse della società finanziaria e l’interesse dei dirigenti della società stessa. In parole povere, la società finanziaria ha interesse a fare utili non necessariamente nel breve periodo; il suo dirigente, invece, riceve i bonus su base anche solo trimestrale, quindi non ha interesse a puntare su un ritorno dell’investimento a due anni. Una soluzione è la nazionalizzazione delle banche, un’altra proibire i bonus di breve periodo, un’altra ancora è tenere piccola la dimensione delle banche, in modo che possano fallire… altro non mi viene in mente.
Conosco l’idea di massima della teoria in questione. Ma i bonus perché sono così e non diversi? E perché sono così solo in finanza? E perché i mercati finanziari non puniscono le aziende i cui dirigenti sono “paid for short term performance”? I problemi complessi non ammettono spiegazioni così semplici, secondo me.
Parole santissime direi: “too big to fail” è la stupidaggine (as gentlemen can say) piu’ grossa (ma piu’ utile!) che i finanzo-banchier-ladri hanno venduto ai politici (amministrazione Obama in primis). Se avessero lasciato fallire chi DOVEVA fallire, forse adesso saremmo in un mondo migliore (un po’ acciaccato ma con qualche prospettiva futura che non sia diventare tutti servi del comunismo cinese). I finanza-marpion-banchier-ladri invece non solo si sono salvati da una miserabile fine, ma hanno rialzato la testa e ora imperversano tranquilli trascinandoci sempre piu’ verso un brutto destino che non sarà (purtroppo) solo una “boutade” di finanza e investimenti.
Speriamo di no.
Pietro,
in certi passaggi mi sembrava di sentire Bersani. Io non direi mai che può essere opportuno un qualche intervento (limitativo o regolativo) per sopperire a deficienze operative causate ad esempio dalle garanzie pubbliche. Si finisce per avere il solito Stato che persegue un obiettivo, interviene, fa un danno, re-interviene per sistemare il danno, lo sistema (forse) creando un danno altrove e così via…
@Leonardo, IHC
E io che ho detto?
“Piccole cose forse si possono fare, ma più si va sul complesso, più i regolatori diventano impotenti. Un limite alla leva finanziaria può andar bene, come anche un limite alla trasformazione di liquidità, o alle possibilità di investimento di certe forme di risparmio in certi mercati: ciò aiuterebbe a contenere la fragilità sistemica creando “cuscinetti” di capitale e di attività liquide. Ma tendenzialmente ogni limite verrà aggirato, perché in un mondo complesso e dinamico e in condizioni di informazione imperfetta ci sono infiniti margini di manovra per reintrodurre distorsioni in forme nuove, e il moral hazard premia proprio chi investe nell’aggirare le regole (in pratica, la stessa banca centrale finanzia chi rende il lavoro dei regolatori un inferno!).”
“piccole cose forse si possono fare”
Io conosco la tua formazione, quindi non ti attribuisco cose che non pensi e so che non sei un keynesiano. Però il termine “piccolo” è vago e soprattuto, in politica, pericoloso. Piccolo può anche essere un “aiutino” a un certo settore, un “sostegnino” a certo rischio, una “limaturina” ai tassi.
Una goccia… ma le gocce poi scavano le caverne.
Direi che ogni regolamentazione, quando va oltre l’affermazione di cose come la proprietà privata e quindi la responsabilità dell’operato, è sempre un fattore distorsivo che può venire sì aggirato ma comporta, sia nonostante che anche per questo stesso motivo, allocazioni subottimali. L’incentivo politicamente indotto poi comunque distorce l’operato dei prezzi, e fa quel che sappiamo faccia.
All’inizio del pezzo mi sembravi un po’ troppo “possibilista” verso certa regolamentazione; credo fosse solo un’impressione, forse solo un fatto di stile, tutto qui.
Gli esempi che faccio sono tutte limitazioni della libertà d’azione delle banche: limiti alla leva, al maturity mismatch, etc. Nessun aiuto, solo vincoli.
Allora mettiamola così come esempio:
– alla banca viene posto il vincolo di operare con un certo limite di leva
– la banca opera irresponsabilmente nel credito, da un punto di vista economico, perché segue logiche politiche, ma osserva il limite di leva
– il limite di leva è più alto di quello teorico di libero mercato senza garanzie, ma la banca sa che verrà salvata quindi si spinge al massimo legalmente consentito
– la banca va nei guai per l’inflazionismo indotto
– la banca viene salvata dallo Stato perché è stata diligente rispetto al parametro di valutazione statale che è l’osservanza del limite di leva.
quindi lo stato interviene (salva) per tamponare un problema (crisi) che lui stesso a generato quando è intervenuto (fissazione di un limite) a tamponare un problema (leva eccessiva) che almeno lui aveva ritenuto un problema originario che invece è indotto da altri suoi interventi (aspettative di salvataggio).
Possiamo anche ragionare di limiti al mismatch. Chi dice che si sa quale è il limite al mismatch? chi può dire che le banche debbano operare con mismatch positivo? quelle sarebbero risorse per investimenti forzatamente non impiegate. chi dice che debbano operare con mismatch nullo? se ci sono fondi formalmente a breve ma sostanzialmente a lungo (e guardatevi i conti correnti) si ha sempre risorse insufficientemente utilizzate per motivi politici, non per scelta economica degli operatori.
Siamo d’accordissimo che un ente statale non ne può sapere abbastanza per intervenire; ma questo vale sia sul lato degli incentivi che sul lato dei limiti.
Non ho detto che i limiti sono efficienti e hanno senso: sono sicuramente arbitrari e danneggiano l’efficienza, come ho argomentato.
Ma siccome sappiamo che allo stato attuale l’economia tende a superare quei limiti, limitarli è second best.
Supponiamo che:
1. Ogni banca o istituzione finanziaria debba tenere equity per il 10% degli asset
2. Ogni banca o istituzione finanziaria debba avere debito junior o depositi non protetti per almeno il 20-30% delle passività.
3. Ogni banca o istituzione finanziaria debba avere cash per il 10% degli asset.
4. Ogni banca o istituzione finanziaria debba avere portafogli di debito senior di alta qualità per almeno il 20% degli asset.
In condizioni del genere, la fragilità sistemica sarebbe così ridotta che i costi di non fare bailout sarebbero una frazione di quelli attuali.
Io aggiungerei:
5. Ogni banca o istituzione finanziaria in crisi viene chiusa, gli azionisti annichiliti, e i debiti (cominciando da quelli junior, e dai depositi non protetti) vengono immediatamente trasformati in equity, finché non si arriva a bassi valori di leva e maturity mismatch.
Così si avrà un effetto domino di debt/equity swap che farebbe fare deleveraging sistemico in maniera molto rapida, senza richiedere di liquidare gli asset all’improvviso, senza distruggere il capitale informativo bancario, senza bisogno di bailout e ricapitalizzazioni a spese del contribuente. Si tratta di un aumento dell’efficienza del diritto fallimentare.
Questo risolve il problema alla radice, a differenza del tenere in vita gli zombie che hanno fatto finora alle banche centrali, minimizza il moral hazard perché distrugge gli azionisti e fa pagare i debitori, sgonfia automaticamente le liabilities, e a differenza di permettere un collasso sistemico, consente di mantenere in piedi il sistema dei pagamenti, ed evita le fire sales.
Fatto questo (che si può far subito), eliminiamo le safety net, e nel giro di un decennio le banche potrebbero imparare ad agire responsabilmente in questo nuovo ambiente di responsabilità economica, ambiente di cui non hanno alcuna esperienza.
Inutile dire che se facciamo la seconda cosa ora, avremo un immediato collasso sistemico, quindi comunque dobbiamo pensarci a come sopravvivere al breve termine. E (5) è il meglio che si può fare, temo. Invece (1-4) minimizzano i rischi nel caso in cui non si faccia nulla.
Un effetto secondario della regolamentazione che credo Leonardo volesse stressare, è che è deresponsabilizzante. Il comportamento degli agenti non sarà semplicemnte “lo stesso comportamento di prima, ma entro le regole”. In particolare se definisco un set di norme piuttosto stringente esternalizzo i costi di monitoraggio. Ovvero il controllo del rischio tenderà a coincidere (nel migliore dei casi) con il rispetto delle regole mentre nel peggiore avremo elusione e lobbismo per catturare il regolatore. A sua volta un impianto normativo come quello sopra esposto richiede, oltre alla regolamentazione, un’attività di supervisione, la quale a sua volta ancora crea ulteriori incentivi ad evitare i costi di monitoraggio della controparte. L’insieme di banche A che operano nel rispetto delle norme N sotto la supervisione dell’autorità G prezzeranno il rischio controparte male, con differenze risibili tra A1, A2,…An. Confonderanno gli assunti alla base delle norme e dei modelli prescrittivi con la realtà.
Mah
io sinceramente non so come si possa trasformare (per legge intendo) un prestito subordinato o meno che sia in equity senza violare il diritto di proprietà. Fare questa trasformazione e così riassorbire le perdite bancarie fa sicuramente non fallire la banca e comporta deleveraging, ma equivale a un esproprio forzoso a favore della precedente incapace gestione bancaria.
I precedenti azionisti avranno una quota di capitale minore, certo, in compenso i creditori si troveranno in mano una proprietà aziendale svalutata e non più i loro soldi (e magari per recuperare qualcosa rivenderanno le azioni ai vecchi azionisti, giacché se volevano fare gli imprenditori se le sarebbero comprate prima da soli, le azioni).
Che questo non preluda a future attese di salvataggi degli azionisti con i soldi dei creditori, e quindi che elimiti il moral hazard, ho i miei dubbi.
In realtà la legge fallimentare c’è già: si chiude tutto e si becca in base al grado di subordinazione. Semplicemente non si vuole applicarla e si preferisce il salvataggio con nuova moneta (altra forma surrettizia di trasferimento di ricchezza a danno non solo dei creditori, ma anche di tutti i terzi), perché l’esproprio pro-banca è veramente troppo anche per questo mondo keynesianmarxista.
Che poi in un mondo assolutamente e capitalisticamente spietato sarebbero fallite tutte le banche e il sistema sarebbe collassato io lo dubito. Man mano che le banche falliscono possono essere riacquistate, se vale la pena, a prezzi stracciati, oppure si crea subito il deleveraging che serve al sistema e il fallito lascia spazi di attività nuova a chi resta. Il mondo non si azzererà mai.
Non conosco il diritto fallimentare, ma immagino che una banca con equity negativa (fallita) debba in qualche modo essere liquidata, e i debitori devono subire perdite. E’ una conseguenza necessaria della responsabilità limitata. I debitori non hanno diritto a tutti i loro crediti perché la banca è fallita.
L’unica differenza di rilievo è tra interrompere la funzione della banca o ristrutturarne le finanze lasciandola all’opera.
Nel primo caso i debitori liquidano tutto e si ritrovano con una perdita per via della svalutazione degli asset al di sotto del valore dei debiti. In più devono liquidare rapidamente, e dunque perdono anche per le fire sale. Infine, il sistema dei pagamenti subisce una crisi, e la procedura va ripetuta per ogni anello della catena che finisce nei guai.
Nel secondo caso, non succede nulla, almeno non necessariamente, tranne riconoscere la perdita. I creditori si trovano con meno depositi e obbligazioni, e con più azioni. Gli azionisti precedenti vengono spazzati via. I manager sono controllati dai nuovi azionisti. La banca può andar avanti in mano ai nuovi proprietari, e nessuno deve fare fire sale perché il deleveraging è gratis.
Come procedura fallimentare è infinite volte più rapida e indolore.
Non c’entrano i diritti di proprietà: un fallimento implica che ci siano diritti di proprietà su cose che non esistono, la procedura fallimentare non è che il riconoscimento di questo fatto.
Signor Pietro ho letto con interesse i suoi precedenti articoli tesi ad illustrare il pensiero economico della cosidetta scuola austriaca, Carl Menger, il capostipite, Von Mises Von Hayek tutti fieri antagonisti del socialismo economico, delle teorie collettivistiche, dell’economia pianificata, paladini del pensiero liberale, del libero mercato.Trovo che forse lei centri il problema sul finire del suo articolo quando parla di un’etica della responsabilità degli attori finanziari necessaria a scongiurare comportamenti troppo spregiudicati rischiosi troppo finalizzati a una ricerca spasmodica del guadagno del profitto,inclini a comportamenti di moral hazard.
Sarebbe auspicabile nel prossimo futuro riuscire a mitigare gli animal spirits shumpeteriani del mondo finanziario con valori e principi di carattere etico e morale anche se ben sappiamo quanto sia stretto e quanto possa essere accidentato il sentiero che unisce l’etica e l’economia.
@Mario Cancellieri
Non credo che introdurre principi di carattere etico servirebbe a molto. E’ un problema istituzionale, non morale. Ma su una cosa così complessa ho bisogno di scrivere un post apposito.
@Pietro Monsurrò
Sono d’accordo con lei che sia un problema di carattere regolamentativo di diritto economico bancario di specifiche norme finanziarie e di governance all’interno delle società ma queste considerazioni non dovrebbero portarci ad escludere a priori dal dibattito ragioni attinenti alla morale all’etica che dovrebbe informare il mondo degli affari, che dovrebbero condurre a coloro che questo mondo frequentano ad attenersi a un ben preciso codice deontologico; questa lezione questa condotta era ben conosciuta e praticata dai banchieri del passato come Raffaele Mattioli ed Enrico Cuccia.
Pietro, ma che diavolo è una politica monetaria lasciva?
@Pietro Monsurrò
Il fatto che da un fallimento discenda una perdita di almeno parte dei crediti (almeno di quelli più subordinati o meno privilegiati) non deve far pensare che tanto vale allora far perdere quei soldi non come credito ma come capitale. IL punto di arrivo può (può, non è) essere lo stesso, cioè una perdita, ma questo non comporta alcun diritto sovrano di decidere di abdicare al diritto di proprietà.
In sede di fallimento, o meglio all’inizio, si apre una procedura di concordato fallimentare, cioè un incontro da imprenditore e creditori per vedere se si trova un accordo per una ristrutturazione del debito (riduzione dell’ammontare e ripianificazione delle scadenze). Quando questo non è possibile si va al fallimento totale, si recupera il recuperabile e si divide.
La tua “proposta” salta questa possibilità di “coordinamento” individuale, quindi incide sul diritto di proprietà. In qualche modo vede l’interesse al mantenimento di una banca alle spese di altri come superiore all’interesse dei singoli di pretendere un certo recupero del credito contrattandone le condizioni, interesse che TU non conosci, ma che il creditore conosce bene. Inoltre, la presenza di una simile possibilità disincentiva l’imprenditore bancario a coprire la perdita mettendo soldi propri, se gli interessa che la banca resti in piedi o non venga assorbita da altre.
La banca è un’impresa, e come dico sempre, deve essere trattata come tutte le altre imprese; attribuirle un ruolo “speciale” significa solo creare azzardo morale. Pensare di elencare per legge un privilegio al mantenimento dell’attività di una banca rispetto a un panettiere equivale all’imposizione di un sistema di preferenze che, ad esempio, io non condivido, quindi non è universale.
@Pietro Monsurrò
Mi era sfuggito un punto: a parte l’imposizione dall’alto di una trasformazione del diritto di proprietà, dopo la tua proposta i creditori hanno sì azioni, ma azioni deprezzate per la perdita, il che non è un gran guadagno. I precedenti azionisti non sono spazzati via, semplicemente la loro rappresentanza è diluita.
E di nuovo io ti chiedo di fare un passo ulteriore, e chiederti cosa se ne fanno gli ex creditori di quel pezzo di carta, visto che se volevano essere proprietari se le sarebbero comprate prima, e pensare che forse alla fine le rivendono per un tozzo di pane ai vecchi azionisti, gli unici che ne hanno interesse, che così tornerebbero proprietari a pieno avendo scaricato la perdita sui creditori cui hanno tolto, come ho detto sopra, la possibiltà di contrattare una ristrutturazione obbligando loro a pagare la perdita di altri in toto.
Se l’ipotesi ti sembra fantascienza, ti ricordo che in questo modo sono state fatte le privatizzazioni in russia: azioni a tutti i dipendenti a fini democratici di partecipazione del popolo (ahahahaha), che non sapendo che farsene le hanno cedute ai pochi vecchi politici (gli oligarchi, quelli che prima comandavano le aziende) veramente interessati in cambio di una bottiglia di vodka.
Se cerchi una via di responsabilizzazione e di punizione per la malagestio, la strada della conversione forzosa dei diritti non è quella giusta.
@Claudia Biancotti
Avrei dovuto dire oscena, ma ho preferito un eufemismo 😀
@Leonardo, IHC
“La banca è un’impresa, e come dico sempre, deve essere trattata come tutte le altre imprese; attribuirle un ruolo “speciale” significa solo creare azzardo morale.”
Dov’è l’azzardo morale nel NON salvare gli azionisti, nel NON salvare gli obbligazionisti e nel NON salvare i correntisti? L’azzardo morale richiede che qualcuno si salvi a spese altrui, no? Qui non succede, perché tutti subiscono una perdita, che, in assenza di fire sales, è probabilmente inferiore a quella che si avrebbe se la liquidazione fosse disordinata.
“I precedenti azionisti non sono spazzati via, semplicemente la loro rappresentanza è diluita.”
No no, io dico proprio di eliminarli. Si tratta di un processo fallimentare.
Io continuo a non capire cosa proponi.
I correntisti non possono non subire perdite: se l’equity è negativa qualcuno deve pagare. In presenza di responsabilità limitata, questi sono necessariamente i creditori, cioè i correntisti.
Possono accordarsi con gli azionisti per trasformare i loro depositi in debito, cosa che NON risolve l’insolvenza.
Possono correre allo sportello e costringere ai fire sales, cosa che massimizza le LORO perdite.
Possono diventare proprietari di una banca diventata solvibile, cacciando i vecchi azionisti, e subendo tante perdite quanta è la differenza di valore tra la vecchia e la nuova banca (perdita che è pari alla negative equity della vecchia banca).
Io sono d’accordo che si possono contrattare con gli azionisti, o tra debitori, diverse forme di trasformazione della struttura dell’impresa:
1. trasformare i depositi in debito (risolve solo i problemi di liquidità)
2. trasformare i depositi in azioni (risolve anche la solvibilità)
3. correre agli sportelli (cosa che non è nell’interesse dei correntisti)
4. liquidare tutto e vendere immediatamente tutti gli asset (idem)
5. trasformare i depositi in azioni privilegiate (che non sono vera equity, dunque risolve poco)
In tutti e cinque i casi i correntisti subiscono perdite. Però gli azionisti continuano a campare, nel mio caso vengono spazzati via. Dunque nel mio caso i correntisti hanno tutti gli asset in mano, ed evitando i fire sales hanno a disposizione tutto il tempo per liquidarli. In tutti gli altri casi o il problema non si risolve, o si creano perdite ulteriori per i correntisti, o si salvano comunque gli azionisti (creando moral hazard).
No pietro, ti stai sbagliando sul processo fallimentare. Nel momento in cui converti i crediti in capitale e con questo abbatti la perdita, non fai una distinzione tra l’abbattimento su certe azioni e non su altre, semplicemente si riduce tutto, il capitale netto torna positivo, ma basso, e il maggior numero di azioni presenti diventa il denominatore del frazionamento del netto tra azioni. Tutti restano azionisti ma i primi con una percentuale inferiore. Per aver la soluzione che prospetti tu (che forse ora mi è più chiara), devi fare oltre al fallimento anche un decreto che imputi la perdita solo su certe azioni. E sottolineo Decreto. Forse è per questo che non ci troviamo.
Per aver quello che vorresti tu, dovrebbe prima la banca fallire, e solo dopo i creditori volontariamente consorziarsi per rilevarla (cosa che fa ad esempio una banca debitrice di un’altra banca che fallisce e, con il contributino dell’ABI, la rileva e non la fa fallire o la ricrea) rimettendoci i loro soldi, ma di nuovo non puoi imporlo per legge.
Se un creditore rinuncia al suo credito, si riduce il passivo, risulta come sopravvenienza positiva in conto economico, e alla fine l’insolvenza non c’è più. A questo serve il concordato fallimentare e quello pre-fallimentare!
Io temo tu non veda correttamente il processo fallimentare e consideri solo il punto di arrivo di una perdita, per cui persi per persi i soldi comunque i creditori e solo loro diventano proprietari. Non è così, semplicemente. Che poi dal fallimento di un imprenditore debba discendere la perdita anche dei creditori è chiaro, ma attento a non confodere la perdita in sé (che volendo è trattabile in concordato) con la responsabilità imprenditoriale; la perdita per il cliente vale anche per insegnare al prestatore a valutare il rischio di credito.
Io propongo solo che si applichino le procedure fallimentari alle banche (invece di tenere in piedi gli zombie), compresi gli istituti di concordato preventivo e concordato fallimentare, perché la possibilità di salvataggio dell’attività e quindi di rinuncia dei crediti venga valutata e determinata sul mercato (e non per decreto), perché con essa sono gli individui a decidere se e quanto credito perdere, se e quanti asset liquidare, se e come ridimensionare l’attività, se e come continuare l’attività.