Un mondo più uguale
A noi piace sempre mettere l’accento sull’efficienza. Il mercato e la globalizzazione ci piacciono perché sono giusti – nel senso che valorizzano la libertà individuale – e perché sono efficienti – cioè massimizzano la ricchezza prodotta. Ma sono anche equi? L’obiezione è frequente e diffusa. L’ultimo esempio, seppure molto specifico, sta nelle parole di Giulio Tremonti, che ha negato la possibilità di tagliare le tasse in nome della lotta alla “macelleria sociale“. Queste obiezioni ora devono fare i conti con un avversario imprevisto: la realtà. La globalizzazione ha ridotto, non aumentato, le diseguaglianze sociale. Lo spiegano, numeri e dati alla mano, Maxim Pinkovskiy e Xavier Sala-i-Martin in questo articolo su Voxeu, che riprende le conclusioni di un loro corposo paper.
Dall’analisi delle evidenze disponibili sulla distribuzione dei redditi, Pinkovskiy e Sala-i-Martin trovano che non solo la povertà, intesa come massa di persone che vivono con meno di un dollaro al giorno, si è ridotta in misura straordinaria, tra il 1970 e il 2006. Questo già lo sapevamo (anche se è bene ricordarlo). Si sono ridotte anche le disuguaglianze, sia misurate attraverso i quintili di reddito, sia attraverso il coefficiente di Gini. I due grafici sotto, che riportano la distribuzione del reddito nel 1970 e nel 2006 per il mondo e per aree geografiche, non hanno bisogno di commenti.
L’osservazione di questi fenomeni non è priva di un sostegno teorico: i meccanismi di mercato tendono a creare ricchezza diffusa, perché favoriscono la mobilità sociale e, grazie alle pressioni competitive, rendono anche gli strati sociali meno abbienti dei mercati attraenti (e dunque li rendono più ricchi). Un aspetto molto significativo dello studio è che, ovviamente, esso doveva fare i conti con una modellizzazione non facile, in particolare per l’indisponibilità di dati sistematici e sufficientemente dettagliati, e per i difetti intrinseci dei dati stessi. Normalmente la distribuzione dei redditi viene valutata conducendo interviste, e questo può portare sia a sovrastimare la povertà (per esempio considerando solo i redditi formali e in moneta, non quelli informali e in natura) sia a sottostimarla (perché è difficile rintracciare i poveri, e trovare da loro una disponibilità a parlare, specie nei paesi poveri). Allo stesso modo, possono sottostimare la ricchezza (perché i ricchi sono normalmente meno disponibili e tendono a sminuire la loro ricchezza). Insomma: i quintili più alto e più basso tendono a essere i meno accurati, pur essendo – per certi versi – quelli più interessanti. L’aspetto veramente forte dello studio è dunque questo:
our methodology allows us to conduct a thorough stress-test of our results to alternative assumptions. World poverty and inequality fall markedly for all the variations we try.
La globalizzazione e il mercato servono non solo a creare ricchezza, ma anche a distribuirla in modo più diffuso. Saperlo rafforza le nostre convinzioni, e indebolisce le posizioni di quanti difendono lo status quo.
(Hat tip: Moro, Topa e Brusco)
Il lavoro da lei sintetizzato entra a pieno titolo nel “kit del mercatista”. Negli Stati Uniti – si noti anche nella blogosfera distante anni luce dal pensiero liberal – circolano però dei lavori – ben fatti, anche se di sapore complottista – che mostrano come la middle class sia a pezzi e le elites ben pasciute. Secondo costoro, prima o poi si arriverà alla resa dei conti. Bisognerebbe pensare a delle argomentazioni “mercatiste” per costoro che non sono del “colbertisti”. Trovatele, le si possono inserire nel kit. Ecco un esempio di denucia – scritta da un signore che leggo da anni e che di professione è lo “strategist” di una grande banca – degli andamenti dei paesi anglosassoni:
http://www.zerohedge.com/article/scandal-albert-edwards-alleges-central-banks-were-complicit-robbing-middle-classes
Gentile Carlo Stagnaro,
non mi è chiaro leggendo lo studio di Sala-I-Martin e Pinkovskiy da cosa si evincerebbe la correlazione per cui “La globalizzazione e il mercato servono non solo a creare ricchezza, ma anche a distribuirla in modo più diffuso”. È vero che dal 1970 la globalizzazione dei mercati è aumentata rapidamente, ed è anche vero che molti paesi prima ad economia non di mercato hanno gradualmente accolto il paradigma del capitalismo privato, per cui l’affermazione “l’economia di mercato contribuisce a distribuire la ricchezza in modo più diffuso” da sola mi andrebbe anche bene, se riferita ai mercati interni delle nazioni.
Tuttavia, lo studio in questione evidenzia anche quanto segue: “between 1970 and 2006 […] the global poverty rate has been cut by nearly three quarters […] the South Asian poverty rate fell by 86%, the Latin American poverty rate fell by 73%, the Middle Eastern poverty rate fell by 39%, and even the African poverty rate fell by more than 20%”. Da dove tiriamo fuori il dato per cui le macroaree geografiche dove l’indice di Gini è caduto di più (Sud-est asiatico e America Latina) sono anche quelle dove nel periodo considerato, globalizzazione ed economia di mercato hanno fatto maggiormente breccia? Ovvero detto in altre parole: la riduzione della povertà relativa potrebbe ben dipendere da altri fattori, quali: avanzamenti della tecnologia, andamento del prezzo delle materie energetiche, incrementi nella spesa sociale… Certo, dal punto di vista teorico sono tutti fattori legati ad un maggior prodotto pro capite, e quindi indirettamente riconducibili ad una maggiore efficienza allocativa conferita dal mercato rispetto alle economie dirigiste, ma la globalizzazione che c’entra? Potrebbe perfino essere vero il contrario: che questi stessi paesi con una globalizzazione introdotta più gradualmente, avrebbero raggiunto condizioni di maggiore equità!
Questa osservazione vuole essere non una critica, ma uno spunto di riflessione ulteriore da un lettore affezionato di Chicago Blog. Il tema del rapporto tra globalizzazione e crescita è affascinante ma anche ben complesso, dato che international trade migliora sì le condizioni di tutti i paesi che vi partecipano, ma incrementa anche la volatilità delle economie e può modificare (in breve tempo) gli equilibri su cui si fonda la distribuzione della ricchezza tra gruppi d’interesse domestici.
La globalizzazione sarà anche equa nel senso che ha migliorato le condizioni di vita dell’operaio cinese e peggiorato quelle dell’operaio italiano. Il dogma mercatista vorrebbe anche che l’operaio italiano dovrebbe essere contento di questo ma per il momento mi pare ancora un po’ troppo nonostante le arti ipnotiche messe in campo.
Che alla middle class sia stata fatta la festa ad esclusivo beneficio di quella ultra super upper (e degli operai cinesi. Per il momento…) non lo dicono i complottisti ma le buste paga. Quelle rimaste s’intende.
Gentile D’Andria, a me pare che due cse siano abbastanza evidenti: le diseguaglianze TRA paesi sono calate e, molto spesso, sono calate anche le diseguaglianze NEI paesi. A livello globale, è calato tanto il tasso di povertà relativa (questo già lo sapevamo, anche attraverso proxy come la diffusione di fame e sete, l’aspettativa di vita alla nascita, eccetera) quanto l’ampiezza delle diseguaglianze (questo è il contributo di questo paper). L’altra cosa che sappiamo è che, nell’intervallo di tempo considerato, si sono aperti e integrati molti mercati. L’integrazione dei mercati la chiamiamo, convenzionalmente, globalizzazione. Ora, è chiaro che non necessariamente esiste una relazione causale tra questi fenomeni, ma quantomeno un forte sospetto che non si tratti di questioni mutuamente estranee dovrebbe sorgere sia in virtù di evidenze empiriche (i paesi più poveri presentano normalmente diseguaglianze più marcate, e sono tendenzialmente quelli meno liberalizzati e integrati nell’economia globale) e un framework teorico per interpretare tali evidenze (lei stesso riconosce che le spiegazioni alternative difficilmente possono prescindere, in ogni caso, dall’aumento del reddito pro capite). Mettiamola così: la cosa più conservativa che si possa dire è che il binomio globalizzazione/mercato (e tra le due cose non c’è soluzione di continuità) quanto meno non ha ostacolato il diffondersi della ricchezza, oltre alla sua creazione. Mi pare che già questo sia un elemento significativo da sottolineare, quando qualcuno rileva che i ricchi sono più ricchi e i poveri più poveri. Sarà anche così, ma i dati dicono il contrario. Nel caso la si pensi diversamente, bisognerebbe prendersela coi dati…
Giorgio, al netto dei toni complottisti, il punto mi pare sia semplicemente che le politiche monetarie lassiste della Fed hanno contribuito a causare la crisi (con tutte le sue conseguenze e di efficienza, e di equità). E’ una tesi che, da queste parti, non possiamo che condividere…
Ecco, è proprio questo punto che a mio parere andrebbe affermato con più cautela: globalizzazione e mercato interno sono due aspetti distinti della questione. Per farla breve, rimando ad un paper di Dani Rodrick (1998, basato su dati della World Bank), le cui conclusioni mi sembrano sufficienti a chiarire il punto: “The international integration of markets is often perceived as undercutting the effectiveness of governmental action at the national level. The findings presented in this paper provide a different perspective, suggesting that there may be a degree of complementarity between markets and governments. The scope of government has been larger, not smaller, in economies taking greater advantage of world markets. Indeed, governments have expanded fastest in the most open economies.”
In sintesi: lo stato gestisce una fetta di PIL maggiore nei paesi più aperti al processo di internazionalizzazione dei mercati. E quindi la relazione tra la “globalizzazione” ed i mercati domestici diventa piuttosto complicata e non lineare… Potrebbe benissimo darsi che la storia vada raccontata nel modo seguente (è solo un esempio, non rispecchia la mia visione delle cose): una maggiore globalizzazione aumenta la volatilità dei mercati all’interno dei paesi più aperti, ciò porta ad una maggiore richiesta di spesa sociale ed altri interventi statali che ne smorzino gli effetti sui fattori della produzione domestici, e quindi il divario tra i redditi si riduce per virtù della redistribuzione pubblica. È una storia plausibile, quindi non può essere dismissed senza dati specificamente analizzati, no?
Quando un paese si modernizza, all’inizio le disuguaglianze aumentano, ma poi, col tempo, diminuiscono. Sono fatte a pezzi le vecchie attività e le vecchie reti di sicurezza, mentre le nuove attività prosperano, e chi ha innovato guadagna molto. Col tempo le nuove attività, grazie alla crescita della produttività, distribuiscono maggiori salari e la disuguaglianza diminuisce. Non mi meraviglia quindi che nel tempo si riduca la disuguaglianza nei paesi in via di sviluppo. Il punto che volevo sollevare è la maggior disuguaglianza dei paesi anglosassoni, che si saranno modernizzati ancora, ma che erano già moderni al punto di partenza. Perchè sia andata così non lo so. Posso fare molte ipotesi, fra cui quella delle politiche monetarie lasche.
Che i paesi molto poveri in partenza – come quelli asiatici – stiano molto, ma molto meglio di un tempo mi sembra incontrovertibile. Lo scetticismo, che è molto diffuso, ruota intorno al sospetto che la globalizzazione per ora abbia favorito i ricchi ed i poveri dei paesi “in via di sviluppo” ed alcuni segmenti delle elites dei paesi “sviluppati”. Il malessere c’è, anche se finora non è emerso nell’arena politica. Tutto qui.
Sono dati aggregati. Ivory Tower. Prendi il Gini italiano (ie: meno aggregato di quei grafici li’ sopra) degli ultimi 10 anni e confrontalo con i dati del pil pro capita: a fronte di una diminuzione media del pil (10%), c’e’ un aumento della concentrazione di gini (10%). Quindi localmente, qui da noi, dove ci interessa, e’ un disastro: meno ricchezza in generale, e piu’ concentrata. Cioe’ “macelleria sociale”; e sto citando Tremonti.
Inoltre da quella solita visione “da monitor”… non si includono alcuni sforzi che popoli interi hanno fatto per decenni. L’America Latina ha cercato di svincolarsi, da tempo… i pataccones argentini, l’acqua venezuelana, etc… magari la politica di quei leader non piace, e’ assolutamente controversa, etc… ma questo ha portato una maggiore distribuzione in tutta l’America Latina. Analogamente e’ accaduto in India e in Cina. Allora se tu sommi questi enormi agglomerati di popolazione, vedi che magari la poverta’ e’ calata perche’ son state fatte politiche di distribuzione in questo enorme bacino demografico, non perche’ c’e’ il libero mercato. Al piu’ e’ una risposta, susseguente, agli eccessi di liberta’ nel mercato; e’ un rifiuto in massa del libero mercato; e… beh… dopo certe uscite di Greenspan (“ho trovato un bug in quello che pensavo essere il meccanismo che regola il mondo”, “l’errore e’ stato pensare che i cda sapessero tutelare i propri azionisti”; al senato americano, nel 2005 mi pare), o Tremonti (“illusione forsennata di ricchezza”, “non guardate i libri di economia, guardate la bibbia”, AnnoZero, Novembre 2008); e’ semplicemente idiota. Quello che riporti e’ una disperata difesa dell’ideologia del dio mercato…
Poi che nel mondo ci sia “solo” il solito “last billion” di gente che muore di fame e di sete… non e’ cosa nuova, e siam tutti felici. Ma imputare questo successo al libero mercato (ie: con una mano rubo per fare il fighetto, con l’altra faccio beneficienza per placare la coscienza) e’ demagogia spicciola. Bispensiero.