20
Giu
2018

Un mercato del lavoro flessibile è nell’interesse di tutti—di Alessio Mitra

La liberalizzazione del mercato del lavoro è divenuta, negli ultimi decenni, una politica sempre più suggerita da economisti e scienziati sociali. Il principale argomento di teoria economica che risiede dietro tali indicazioni è la convinzione secondo la quale un mercato del lavoro meno rigido consenta una migliore allocazione del capitale umano tra le occupazioni disponibili.

Il neo-insediato Ministro del Lavoro e dello Sviluppo Economico, Luigi Di Maio, ha recentemente annunciato quale sarà il primo decreto del Governo M5S-Lega sul lavoro: Il così denominato Decreto Dignità. Il Ministro afferma “Il Jobs Act è andato nella direzione dell’eliminazione di diritti e tutele, noi faremo esattamente l’opposto”.

Per quanto il termine dignità richiami a principi e valori più che condivisibili, nella stesura del nuovo decreto è auspicabile che il Ministro tenga conto che lavoro e sviluppo economico molte volte vanno di pari passo, due compagni che non possono esistere uno senza l’altro.

Un mercato del lavoro più flessibile, conuna  più efficiente allocazione delle competenze possedute da ciascun singolo individuo, consentirebbe infatti un incremento della produttività delle imprese e un conseguente aumento delle future opportunità occupazionali.

Se un individuo maggiormente adatto a ricoprire una posizione lavorativa, alla quale molti ambiscono, ottiene tale posto, non è solamente un vantaggio nei confronti di colui che ottiene il posto, ma anche per coloro che non lo ottengono. Gli individui che non hanno ottenuto il posto potrebbero in futuro avere maggiori possibilità di trovare un’occupazione che a sua volta massimizza l’insieme di competenze tecniche ed umane che essi possiedono. Questo si verifica perché un’ottima allocazione delle risorse umane conduce a crescita economica, che a sua volta genera maggiori opportunità lavorative per tutti.

Per quanto tali affermazioni possano sembrare fortemente teoriche, una loro corretta interiorizzazione nei processi di costruzione delle politiche pubbliche può condurre a rilevanti effetti positivi per la vita di tutti i giorni.

Nonostante la maggioranza della letteratura economica moderna concordi sugli effetti positivi della liberalizzazione di mercati fortemente regolamentati, risulta importante effettuare rigorose verifiche empiriche capaci di confermare tali teorie.

Quanto viene di seguito presentato ha lo scopo di verificare scientificamente le conseguenze di una politica di liberalizzazione del mercato del lavoro in Italia. Nel 2011 l’Italia presentava uno dei mercati del lavoro più rigidi e regolamentati d’Europa. Il licenziamento per i lavoratori impiegati a tempo indeterminato in imprese con più di 15 dipendenti era riposto, caso per caso, al giudizio del tribunale del lavoro. Nei casi nei quali il tribunale decideva che il licenziamento era stato dovuto a non giusta causa, il datore di lavoro era costretto a riassumere il licenziato e compensarlo monetariamente per gli stipendi perduti durante il corso processo.

Per le imprese con meno di 15 dipendenti le regole erano invece meno stringenti, consentendo all’impresa di scegliere se reintegrare il lavoratore o non riassumere e pagare il lavoratore con una buona uscita proporzionata al salario dello stesso.

Con l’insediamento del governo Monti nel novembre 2011, il ministro Elsa Fornero varò la Legge 92/2012 riducendo la protezione che i lavoratori delle imprese più grandi godevano. In sintesi, la legge ridusse i casi nei quali era possibile reintrodurre i lavoratori licenziati in azienda e diminuì l’ammontare monetario della compensazione da licenziamento. Le conseguenze di tale politica sono state in linea con quanto predetto dalla teoria economica? La riforma del ministro Elsa Fornero ha migliorato l’efficienza allocativa dei lavoratori? È aumentata la produttività?

Per rispondere a tali domande è necessario ricorrere a rigorosi metodi matematico-statistici in grado di estrapolare relazioni di causalità dai dati disponibili. Non è infatti sufficiente osservare e comparare i dati tra prima e dopo la politica, una grande quantità di altri fattori possono aver influito, e una loro inclusione nei calcoli potrebbe indurre a risposte errate o mal ponderate.

Un’analisi rigorosa degli effetti della Legge 92/2012 è quella fatta dai Professori Fabio Berton (Università di Torino), Francesco Devicienti (Collegio Carlo Alberto) e Sara Grubanov-Boskivic (Commissione Europea) nel paper Employment Protection Legislation and Mismatch: Evidence from a Reform.

Utilizzando una Difference in Difference (metodo matematico-statistico) i tre economisti mostrano come la riforma abbia generato un aumento dell’efficienza allocativa del 9.5%. A seguito di tale aumento allocativo, la produttività delle imprese risulta incrementata. Nonostante l’incremento non possa definirsi elevato, meno del 5%, nel contesto italiano, affetto da cronica bassa produttività, è un risultato più che rilevante.

Potenziale critica ai risultati portati da tale analisi potrebbe essere il fatto che essi sono una conseguenza della maggiore facilità con la quale le imprese possono licenziare. Tale critica è parzialmente vera: parte della nuova efficienza allocativa è stata possibile licenziando lavoratori meno qualificati ed assumendone di nuovi con caratteristiche più in linea con le necessità aziendali. Lungi dal voler negare tale evidenza, è però necessario evidenziare come tale elemento di turnover non sia negativo per l’economia e la società. La miglior persona al miglior posto significa più crescita e benessere per tutti. Ovviamente chi si ritrova a perdere il lavoro sarà di un’opinione diversa, ma un individuo inefficientemente allocato, mantenuto per una rigidità legislativa, risulta, nell’aggregato, un costo per la collettività.

Ciò non significa che sia necessario o auspicabile un totale annullamento dei meccanismi di protezione del lavoro e dei lavoratori, ma che bisogna tenere conto dei trade-off esistenti tra efficienza e protezione, al fine di non trasformare certe protezioni in fattori di discriminazione. In quanto vi è poca dignità nella protezione di pochi a discapito di molti.

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