Il ritorno britannico al nucleare: bomba atomica sul mercato elettrico?
Il nucleare parla inglese. Il governo britannico, dopo una lunga negoziazione, ha approvato la realizzazione di due nuovi reattori atomici presso il sito di Hinkley Point C. La centrale verrà costruita da un consorzio franco-cinese guidato da Edf, e godrà di un prezzo minimo garantito (“strike price“) circa doppio rispetto al valore di borsa dell’elettricità. Chi vince è difficile dirlo. Perde sicuramente il mercato.
Per capire come siamo arrivato qui, e dove stiamo andando, bisogna fare un passo indietro. Il Regno Unito da alcuni anni ha avviato un percorso di allontanamento dai principi di mercato. Il principale driver di tale allontanamento è stata la politica ambientale: la convinzione, cioè, che non fosse possibile raggiungere obiettivi “verdi” (la riduzione delle emissioni di CO2) attraverso strumenti di mercato (anche se non è necessariamente così). Questo ha portato prima a piccoli aggiustamenti che hanno prima gradualmente compromesso la coerenza del modello inglese di mercato elettrico, sostanzialmente fondato sulle dinamiche “naturali” di domanda e offerta, e poi introdotto una riforma ad ampio raggio che, nella sostanza, implica un quasi totale abbandono della concorrenza come principio guida dell’interazione tra i diversi stakeholder. Gli aspetti principali dell’Energy Bill sono descritti in questo paper di Stefano Verde.
I pilastri della riforma – e mi scuso per l’ultra-semplificazione – sono, da un lato, la regia politica degli investimenti, dall’altro, una variante abbastanza complessa dei prezzi minimi garantiti. Se l’obiettivo è il taglio delle emissioni ben oltre gli obblighi europei, lo strumento è l’individuazione di tecnologie prive di emissioni che godranno di privilegi speciali. Tali privilegi si sostanziano nella certezza di una remunerazione minima che garantirà il ricupero dei costi fissi. Al mercato – inteso come processo di scoperta del prezzo – viene lasciato un ruolo residuale: i prezzi di mercato si applicano solo alle tecnologie “sporche”, nella misura in cui quelle “pulite” non saturano la domanda, e a queste ultime solo nel caso in cui eccedano i livelli minimi.
Che c’entra, in tutto questo, il nucleare? C’entra perché, tra le tecnologie prive di emissioni, a dispetto di tutti i rischi e le incertezze esso continua a essere quella più conveniente. Lo si deduce dallo strike price di 92,5 sterline / MWh, inferiore alla più conveniente tra le fonti rinnovabili, l’eolico onshore, a cui viene attribuito uno strike price di 100 sterline / MWh. In un certo senso, dunque, dietro questa scelta storica – storica perché si tratta del primo investimento in un greenfield nucleare in Europa da decenni – c’è l’harakiri dell’ambientalismo tradizionale, che vede entrare in conflitto la sua battaglia storica (quella contro l’atomo) con la sua battaglia più attuale (quella contro il riscaldamento globale). Il punto è: se davvero il cambiamento del clima è la più grande minaccia che l’umanità deve fronteggiare, allora qualunque mezzo è lecito, incluso il nucleare (lo sostiene, per esempio, Chicco Testa). Se però si obietta che il nucleare non va bene, pur essendo in grado di ottenere risultati migliori a un costo inferiore rispetto alle alternative, allora significa che il riscaldamento globale non è la peggior minaccia di sempre ma, al massimo, la seconda peggiore, il che lo rende assai meno spaventoso, visto che col nucleare conviviamo abbastanza bene da decenni (con ciò non nego né Chernobyl né Fukushima, ma chiedo a chi me li agita davanti di riconoscere le peculiarità di questi due vecchi impianti e l’eccezionalità del terremoto-tsunami giapponese; comunque la sicurezza nucleare non è il tema di questo post).
Il nucleare presenta anche vantaggi di altro tipo: in particolare, esso si presta a coprire efficacemente la domanda di base (baseload) senza determinare inconvenienti e problemi di rete che sono consustanziali alle fonti intermittenti, quale l’eolico, la più diffusa in Gran Bretagna (sui costi espliciti e impliciti dell’eolico, si vedano questo interessante studio di Michael Giberson, la risposta dei produttori eolici americani, e le contro-obiezioni di Mike 1, 2, 3 e 4).
Il passo da qui alla scelta inglese, però, non è ovvio, tutt’altro. Se davvero il nucleare ha qualcosa da offrire, perché per realizzarlo in UK ci vogliono i sussidi? Mio malgrado avvalora la tesi di quanti, come Alberto Clò, ritengono che il nucleare sia incompatibile col mercato. Io ho una mia tesi sul perché gli investimenti nucleari siano crollati dopo le liberalizzazioni, e ritengo che dedurre che siano crollati a causa delle liberalizzazioni sia una fallacia logica (post hoc ergo propter hoc, direbbe chi ha studiato). In particolare, come spiego qui alle pp.13-17, a mio avviso ciò è la conseguenza del sovra-investimento in nucleare (e carbone) che era, esso sì, connaturato agli schemi di pricing tali da ribaltare a valle tutti i costi di generazione, tipici dei monopoli verticalmente integrati, che incentivavano implicitamente la realizzazione di impianti caratterizzati da elevati costi fissi – quindi maggiore prevedibilità di prezzo nel lungo termine – e alta reliability.
Sia come sia, nel Regno Unito il ritorno del nucleare coincide con – ed è strumentale a – la compressione delle dinamiche di mercato. Anzi, ne è la manifestazione: Edf e i soci del consorzio hanno condizionato l’investimento stesso allo strike price, in modo tale da annullare il rischio-prezzo, considerando implicitamente nullo il rischio-volume in quanto il nucleare, in virtù dei bassi costi marginali, nel mercato elettrico tende a collocarsi a sinistra della curva di merito economico.
Il problema, insomma, non è il nucleare (o, se è per questo, l’eolico) in sé, ma il progressivo e rapido abbandono del mercato da parte della Gran Bretagna, dovuto alla pretesa degli uomini politici di dettare scelte tecnologiche e, in ultima analisi, prezzi. Questo è quello che si intende “politica energetica” e oggi è, simbolicamente, la fine del grandioso ciclo inaugurato dal celebre intervento del 1982 di Nigel Lawson sul ruolo dello Stato nell’energia.
Non ho mai avuto paura di definirmi favorevole al nucleare. Ma quella del ritorno atomico in Gran Bretagna è una notizia molto triste, perché sancisce la fine del mercato. L’atomo forse non ne sarà il colpevole, ma è senza dubbio l’arma del delitto.
Il quadro offerto è chiaro e puntuale.
Tuttavia, mi permetto di essere più ottimista nelle conclusioni.
La notizia dell’accordo non mi ha stupito, sia perché il rilancio del nucleare in UK era nell’aria da qualche
anno sia perché ero già a conoscenza del fatto che i cinesi stavano costruendo in casa anche per vendere presto altrove.
Ora, nonostante sia essenzialmente d’accordo sul fatto che si percepisca una “deriva statalista” oltremanica
(penso all’idea di “pianificazione centrale e totale”, ma forse esagero – ho riletto da poco “La via della schiavitù”
di von Hayek), il mio ottimismo consiste nel vedere ancora la possibilità che i due fenomeni
(“rilancio” e “deriva”) siano in parte solo correlati e non strettamente uniti da relazione causa-effetto.
Uno dei fattori in gioco a favore della mia conclusione potrebbe essere il fatto che l’accordo anglo-franco-cinese dimostra
una volontà quantomeno non autarchica, ovvero conforme al principio che il consumo/produzione di energia
possa essere un veicolo su cui fondare collaborazioni, scambi e relazioni sulla via della pace invece che della guerra.
Un altro è legato allo sforzo in atto a livello mondiale per studiare metodi concreti per rendere il nucleare più economico
senza diminuirne la sicurezza (anzi!): tali sforzi possono essere alimentati solo grazie alla costruzione di
nuovi impianti, altrimenti rimangono inchiodati al livello dei concetti astratti se non delle considerazioni filosofiche.
Un altro ancora potrebbe essere legato alla durata di vita stimata per i nuovi impianti, davvero lunga.
Data la grande stima che nutro nei confronti dell’autore spero non trovi le mie osservazioni troppo superficiali.