Ha torto chi teme che Industria4.0 sia nemica del lavoro grazie ai robot
Ci sono coincidenze che a volte si manifestano come cortocircuiti gravidi di significato. Così giovedì scorso, nella stessa giornata, due eventi a Napoli hanno segnato tangibilmente le macro contraddizioni del nostro tempo. Da una parte l’occasione concreta dello sviluppo e di un futuro migliore. Dall’altra un nuovo morso della crisi. Nelle stesse ore, per i primi 200 giovani selezionati ecco la cerimonia ufficiale dell’avvio della Apple Academy, che in pochi mesi da promessa di Tim Cook è diventata già realtà a san Giovanni a Teduccio. Mentre per 845 dipendenti di Almaviva a Napoli arrivava la comunicazione dell’avvio delle procedure per la riduzione del personale. A marzo la società aveva già avviato un’analoga procedura per 3mila dipendenti di cui 400 a Napoli, terminata poi senza licenziamenti e con il ricorso agli ammortizzatori sociali. Ma la maggiore società italiana di call center – circa 80mila mila occupati tra addetti ai telefoni e marketing collegato – non può più reggere ai costi inferiori di altri paesi, né alle gare al ribasso praticate da aziende pubbliche e private. Quindi ora è costretta alla messa in mobilità per altre 2.500 persone, il che significherebbe tra l’altro la chiusura completa a Napoli.
L’ansia a Napoli di centinaia di nuovi disoccupati e la speranza di centinaia di giovani informatici che scommettono, dopo una dura selezione, di accrescere verticalmente grazie a Apple le proprie conoscenze di sviluppatori per mettersi sul mercato, sono a ben vedere due facce della stessa medaglia. Non solo è così per coincidenza temporale. Bisogna convincersene: per quanto a molti e anzi ai più possa apparire ingiusto e paradossale, sempre più fenomeni contrapposti analoghi a questi andranno di pari passo.
Proprio in queste settimane l’talia sta dandosi lo scopo di recuperare il tempo perduto rispetto ad altri paesi, avviando un grande progetto di Industria 4.0: attraverso una strategia multilivello che il ministro Calenda ha il merito di aver incardinato tra le priorità del governo. Industria 4.0 è l’ultima chiamata per evitare la progressiva perdita di valore aggiunto della manifattura italiana, scesa dal 20% al 16% rispetto al PIL in pochi anni. Si tratta di diffondere le tecnologie digitali e la sensoristica a tutti i livelli della produzione, abbattendo una volta per tutte ciò che resta della produzione seriale fordista. Da isole produttive gestite già attraverso robot controllati da operai specializzati, nel controllo che da analogico è diventato digitale già molti anni fa ormai allo stabilimento Fiat di Melfi, bisogna passare al collegamento digitale dell’intera filiera produttiva, dal design industriale alla realizzazione e assemblaggio finale. Consentendo così di seguire l’evoluzione di ogni nuova richiesta del mercato e del cliente, assecondandola tanto da prevenirla, in modo tale che la tecnologia e la robotica diventino non difesa al meglio delle quote di mercato, ma strumenti di scoperta di nuove nicchie di consumatori e forme di domanda aggiuntiva.
E’ una rivoluzione che riapre però il problema storico con il quale sempre si sono dovute misurare le nuove tecnologie applicate alla produzione: quanto lavoro in questo modo si sostituisce e si distrugge, e quanto di nuovo e diverso se ne crea? Fin dalla fine del Settecento, nella Gran Bretagna che vedeva i primi opifici concentrare macchine più produttive che sradicavano il lavoro sui telai nelle case, a ogni rivoluzione tecnologica il luddismo ha tentato di contrastare l’avvento della sostituzione impersonale del lavoro, attraverso la quale capitale e lavoro si separavano per dar vita nella loro distinta cooperazione al capitalismo.
Con le nanotecnologie e la rivoluzione del cosiddetto “internet delle cose”, cioè la possibilità di far diventare sempre più in tempo reale un prodotto trasformato in un’esperienza, in una scelta in cui domanda e offerta si confrontano attraverso evoluzione e scambi in cui l’immateriale prevale sugli stessi input materiali di produzione, si ripropone lo stesso problema. Domanda: i giovani informatici che scommettono imprenditorialmente su se stessi alla Apple Academy sono il corrispettivo sostitutivo e migliorativo di coloro che perdono il lavoro ad Almaviva, messi nell’angolo non solo dai costi più bassa dell’Albania, ma in prospettiva dalla inevitabile sostituzione ai call center del personale umano attraverso risponditori informatici multivariati? O al contrario sono il segno che la nuova frontiera digitale porterà nuovi verticali divari di reddito, tra i pochi muniti delle necessarie conoscenze per padroneggiarla, e i più che ne resteranno invece vittime, spinti a gradini sempre più bassi in un’economia di sevizi despecializzati a basse skills?
Nella storia, ha sempre avuto torto finora chi ha profetato che le tre precedenti rivoluzioni industriali avrebbero portato all’esplosione sociale. Malthus vi vedeva un limite fisico: il passaggio alla produttività industriale non sarebbe mai stato in grado si sfamare torme crescenti di neopoveri. Non è stato così, come hanno scoperto negli ultimi vent’anni India e Cina, e come nell’Ottocento scoprì l’Europa. C’è stato chi a quel punto ha predetto che il limite vero non era fisico ma finanziario, perché il tasso di rendimento del capitale oltre una certa soglia sarebbe inevitabilmente caduto, divorando il capitalismo. Ma anche Marx ha fallito la predizione: checché ne pensi Piketty il tasso di accrescimento del reddito procapite e dei consumi ha puntualmente remunerato in maniera crescente il capitale investito, spingendo a nuove innovazioni. Oggi, c’è chi come Larry Summers pensa che siamo in una stagnazione secolare, e allo stesso modo è convinto che la produttività non stia tenendo il passo con l’oceanica liquidità da remunerare: e tuttavia scambia la crisi del Vecchio Mondo con quella del pianeta.
E ora, dal limite alla crescita fisico malthusiano a quello finanziario di Marx, è venuto il momento del limite immateriale di Internet? Il campo degli studi economici è puntualmente diviso, come a ogni rivoluzione industriale e della conoscenza. Se per esempio leggete Rise of the Robots dell’imprenditore di Silicon Valley Martin Ford, troverete opinioni non troppo diverse dall’ultimo filmato realizzato prima di morire da Gianroberto Casaleggio e appena diffuso qualche giorno fa, in cui si preconizza un fosco scenario in cui l’intelligenza artificiale prevarrà sugli umani, dividendoli sempre più tra pochi happy few e moltitudini di precari a bassissimi salari. Tyler Cowen e Alex Tabarrok la settimana scorsa si sono confrontati in un interessante dibattito proprio su questo interrogativo, e personalmente mi riconosco molto nelle osservazioni in proposito avanzate da Scott Sumner: checché pensino molti economisti, essi non sono in grado di dirci oggi con certezza che cosa davvero avverrà con la nuova ondata di applicazioni digitali alla produzione e ai consumi di massa, ma quel che sappiamo è che le rivoluzioni tecnologiche alle nostre spalle hanno sì accresciuto il divario dei redditi inizialmente, per alzare poi il reddito medio, aumentando e non diminuendo il numero degli occupati nel lungo periodo, al quale guardare al netto delle grandi crisi.
In realtà, la storia ci ha insegnato qualcosa di prezioso, se sappiamo interpretarla. I giovani selezionati a Napoli dalla Apple l’hanno giù capito, e hanno vinto la selezione per quello. Serve una maniera completamente diversa di formare i giovani, identificando bene le capacità adeguate alla nuova frontiera. La Germania vede quasi i due terzi degli studenti nelle ciclo secondario superiore frequentare istituti professionalizzanti, e oltre il 40% degli universitari conseguire titoli in Atenei che abilitano a professioni le cui caratteristiche sono disegnate insieme alle aziende. Il Fraunhofer Institute, una delle principali culle della ricerca industriale tedesca con oltre 120 sedi in Germania in ogni distretto produttivo, è al 70% finanziato dalle imprese al 30% da Laender e Stato. E sono le imprese a dettarne i programmi di ricerca, i cui frutti sono da trasferire poi nelle aziende.
Dobbiamo rivoluzionare la nostra scuola e università. Dobbiamo spezzare la catena che ci porta ad avere oggi il 29,8% dei giovani italiani fuori sia dalla scuola sia dal mercato del lavoro: in ambito Ocse la media è del 14,6% e solo la Turchia fa (poco) peggio di noi, mentre in Germania sono l’8,8%. Dobbiamo accettare l’idea che il lavoro non sia altro che continua ri-formazione delle proprie competenze (vedi qui e molti altri documenti qui). Dobbiamo cambiare radicalmente l’idea di come si definiscono i contratti tra dipendenti-sindacati e aziende (vedi qui), sfidando queste ultime a investire perché altrimenti scompaiono inevitabilmente.
Il futuro non è mai apparso come un rettilineo verso la felicità: né a chi perdeva il telaio a casa nel Settecento, né a chi lavorava nelle miniere di carbone, né agli operai in catena di montaggio. Milioni e milioni di persone hanno cambiato paese e continente alla ricerca di migliori occasioni, hanno accettato di ridefinire la propria cultura e il proprio habitat. Questa è la storia del lavoro e del suo progresso, anche in Italia. Il futuro che i giovani accademisti di Apple hanno già scelto avrà anch’esso il suo prezzo. Ma a maggior ragione per il Sud, che è stato tradito anche da Industria3.0, la sfida del capitale umano è la vera via prioritaria al futuro da imboccare.
I robot diminuiranno drasticamente il rapporto tra fatturato di una azienda e numero di addetti alla produzione.
Come fa il dottor Giannino a essere ottimista non saprei.
Se poi si vuole credere che lo stesso numero di addetti con basso livello di istruzione verrà sostituito con altrettanti ingegneri beh… qualche dubbio c’è lo avrei.
Per me il lavoro nel futuro sarà per pochi con alto livello di istruzione. Purtroppo il mondo è fatto anche di molte persone semplici con bassa propensione allo studio che purtroppo non hanno la voglia e la possibilità di diventare ingegneri.
Quindi? Eugenetica per produrre solo esseri umani super intelligenti?
In questi anni c’è stata una durissima lotta di classe tra ricchi e poveri ed è stata stravinta dai ricchi i quali si sa che non spenderanno mai tanto quanto una moltitudine di poveri e quindi sono loro stessi i primi veri nemici della crescita economica.
E’ vero che il futuro è della specializzazione e che i robot hanno bisogno di tecnici specializzati, ingegneri e programmatori, ma se prima uno nasceva poco intelligente, bene o male andava ad avvitare bulloni in catena di montaggio. Domani cosa farà questa persona per mantenersi dignitosamente?
Non serve un genio per capire che i robot portano una diminuzione dei lavori a bassa specializzazione.
L’avanzamento poi della robotica e dei nuovi studi di IA, porta implicazioni mai affrontate nella storia dell’umanità, capisco che il mondo vada in questa direzione, ma non sottovalutiamone le insidie.