Terremoto. Le scosse d’assestamento (fiscale)
I disastri naturali e le distruzioni umane non creano ricchezza. Da sempre i primi erano considerati punizioni divine e per quanto riguarda le seconde gli uomini avrebbero dovuto capire da tempo che commerciare è più conveniente che fare la guerra, cooperare è preferibile a distruggere e lanciare Opa è meglio che lanciare bombe. Eppure non sono poche le persone convinte che guerre, terrorismo, terremoti e persino invasioni aliene, spingendo i governi a fare spesa pubblica, producano crescita economica. L’errore logico di chi vede le catastrofi come opportunità per l’economia è stato smascherato oltre 150 anni fa da Frédéric Bastiat col celebre racconto della finestra rotta. L’economista francese invitava a tenere conto dei costi occulti per capire che rompere un vetro non fa girare l’economia, ma impoverisce tutta la comunità (escluso il vetraio che rimpiazza la finestra). Il racconto di Bastiat, ripreso dal fortunatissimo L’economia in una lezione di Henry Hazlitt, faceva parte di un libro dal titolo Quello che si vede e quello che non si vede e mi è venuto in mente a proposito della ricerca di fondi per la ricostruzione post-sisma in Emilia.
Poco dopo aver aggiunto una nuova accisa sui carburanti e proprio mentre discuteva di tagli alla spesa pubblica per cercare fondi per l’Emilia, il governo stanziava 51 mln di euro per il terremoto dell’Irpinia. Con questi fanno (per ora) 67 miliardi di euro in 32 anni, come ben raccontato da un’inchiesta del Corriere. L’enormità dello sperpero è talmente evidente che basta quello che si vede enon c’è nemmeno bisogno di scomodare Bastiat e i costi occulti. Anche allora c’era chi guardava alla spesa per la ricostruzione come un volano per l’economia, erano quelli che il post-comunista Isaia Sales definì il “partito degli occasionisti”, “erede di quella cultura che per secoli ha governato con il teorema: grandi calamità, leggi speciali, ciclo edilizio e controllo politico su tutto. Quelli che ritengono che le tragedie o le emergenze possano rappresentare occasioni di sviluppo”. La filosofia “occasionista” si è messa all’opera già dalla progressiva dilatazione della lista di comuni destinatari dei fondi per la ricostruzione: inizialmente erano 36, poi 280 e infine 687. Si tratta di un’area che va dalla provincia di Foggia a Ischia, dalla Basilicata al basso Lazio, in cui rientravano comuni che avevano avvertito il sisma solo da radio, giornali e tv. Paradossalmente i soldi che dovevano servire alla ricostruzione sono piovuti su aree che hanno visto sorgere agglomerati urbani alle pendici del Vesuvio, ponendo le condizioni per una nuova drammatica tragedia. Alla fine dei conti il terremoto ha impoverito sia gli irpini (i faraonici piani per l’industrializzazione di zone di montagna sono miseramente falliti e ci sono aree dell’Irpinia che negli ultimi 40-50 anni si sono spopolate del 60%) che gli italiani (spogliati di 67 miliardi di euro). Ma non tutti ci hanno rimesso, bisogna sempre tener conto che per ogni finestra rotta c’è sempre un vetraio che si arricchisce. In questo caso le vetrerie sono state due: la politica e la criminalità organizzata. Guidata da un “filosofo della Magna Grecia” e spinta dall’enorme flusso di soldi, la “banda degli avellinesi” ha scalato i vertici della politica e delle istituzioni e, sempre negli anni ’80, il clan dei casalesi ha edificato il suo potere sul business della ricostruzione.
Oggi la politica continua a mandare danari per un terremoto di trent’anni fa ed è incapace di dare un sostegno immediato all’Emilia, un’area in piena emergenza, una delle zone più produttive d’Italia che rischia di veder scomparire un tessuto di imprese competitive a livello globale. L’apparato pubblico mostra grande inefficienza e inadeguatezza proprio nelle sue funzioni più essenziali. Siamo un paese dove lo Stato fa malissimo quello che non deve fare e peggio quello che dovrebbe fare, dove la politica non risolve problemi ma è un danno che si aggiunge alle catastrofi naturali. I processi di ricostruzione sono uno dei tanti “fallimenti dello Stato” di cui parla la scuola della public choice: quei politici che quotidianamente se la prendono con la speculazione finanziaria, sono gli stessi che hanno usato i disastri naturali per estendere il proprio potere politico-economico. Questo potere simanifesta ogni volta che mettiamo la benzina e facciamo il pieno di accise: dal Vajont all’alluvione di Firenze fino a quello più recente in Liguria, dai terremoti del Belice, Friuli, Irpinia fino all’Emilia, dalla guerra d’Abissinia a quella in Bosnia non c’è disgrazia sulla quale lo speculatore politico-statale non abbia messo le mani e dalla quale le abbia tirate indietro, anche a distanza di 75 anni. Non vorrei turbare i sogni dei pochi che ancora ci credono, ma il potere politico non si preoccupa del bene comune e se spende i tuoi soldi non fa nemmeno crescere l’economia.
Supponete che in Italia si fossero succeduti dei governi saggi. Questi avrebbero premiato con uno sconto fiscale le nuove costruzioni antisismiche e la ricostruzione degli edifici in prossimità dei corsi d’acqua a rischio esondazione. I terremoti dell’Emilia e quello de L’Aquila non avrebbero causato il blocco economico della zona colpita. E’ da tempo che si conosce che quelle zone sono in grado di generare terremoti di magnitudo comparabile a quella degli ultimi eventi su base plurisecolare in caso, secolare nell’altro. Pensate poi alle ultime alluvioni dal vicentino, al genovasto alla lunigiana, ecc., fino alla Sicilia settentrionale. Tutte prevedibili su base statistica, eppure tutte capaci di disarticolare la capacità produttiva locale.
Il buon senso normativo (ovvero costruisci in modo da resistere agli eventi naturali e io Stato non ti chiedo altro) non è nell’interesse di nessun politico. La ricostruzione, invece, è un business infinito su cui i soliti partiti si gettano come cani sull’osso da spolpare. Ciò che è bene per gli interessi particolari non mai un bene per l’economia.
Un esempio di distruzione rigeneratrice. La ragnatela di interessi corporativi continua a crescere inesorabile imbrigliando l’organismo economico fino a soffocarlo, per liberarsi di quella tela occorrono statisti lungimiranti e pazienti che filo dopo filo disarticolano la tela o almeno ne rallentano e ostacolano la crescita. In una finta democrazia come la nostra, o come le altre che si affacciano sul mediterraneo, è improbabile che gli uomini più lungimiranti e capaci abbiano accesso alla stanza dei bottoni; avviene così che, ciclicamente, quando l’organismo è prossimo all’asfissia nascono rivolte violente, scatti di rabbia, colpi di reni che hanno l’obbiettivo di spezzare le spire, di divincolarsi dall’abbraccio mortale. L’esito di queste rivolte è incerto e spesso nefasto, ma in qualche caso ha sortito effetti positivi rimettendo in gioco le forze più sane a danno di quelle parassitarie. Non auguro all’Italia di trovarsi ancora una volta in quella situazione, ma chi guida la nave deve sapere che una repentina inversione di rotta non è più rimandabile.
Ogni disastro naturale fa lo Stato ancor più ladro.