TBTF: limiti alla crescita bancaria e politica monetaria
Non riesce a persuadermi, l’argomento sollevato da Mario Seminerio nel suo post di stamane, citando l’intervento del presidente della Fed di Dallas Richard Fischer. Mi riferisco al problema posto all’efficacia della politica monetaria da banche e intermediari finanziari TBTF – too big to fail; ormai come insegna l’esempio AIG o delle finanziarie delle case automobilistiche non sono solo le banche a rientrare nella definizione, bensì ogni intermediario finanziario le cui dimensioni e interrelazioni su rischio di controparte possano essere valutati macrosistemicamente imprescindibili, per evitare reazioni a catena. Per scoraggiare l’assunzione di dimensioni monstre, bisogna assumere politiche antitrust ostili alle fusioni? Oppure ratios di capitale variabili al crescere degli asset patrimoniali, pre dichiarati ma inevitabilmente a discrezione del regolatore? O ancora, adottare una disciplina più onerosa delle riserve obbligatorie degli intermediari e dei relativi repos presso le banche centrali? Non mi sfuggono i limiti del gigantismo, ma non ne sono convinto. Un paper molto utile, per quanto di autore a me non molto caro, rafforza ulteriormente i miei dubbi.
L’autore è il neo o post keynesiano – fate voi – Daniel Gros, insieme a Cinzia Alcidi. E’ finalizzato a capire quali lezioni possiamo trarre dalla comparazione dei dati della crisi attuale rispetto a quella degli anni Trenta. Lo trovate qui. Gli aggregati ai quali si riferisce la comparazione sono essenzialmente cinque. Sui tassi d’interesse, la lezione Friedman-Schwartz è stata fatta propria dai regolatori monetari, dunque abbiamo evitato gli alti tassi della Grande Depressione. Sulla politica di bilancio, rispetto alle sue convinzioni Gros è costretto a masticare amaro: contrariamente alla successiva vulgata keynesiana, infatti, i dati degli anni Trenta NON mostrano alcuna inferenza diretta tra ripresa e aumento della spesa pubblica. Anche prima dell’elezione del tanto decantato Franklin Delano Roosevelt – l’Obama di allora, secondo il mito dei democrats – il bilancio pubblico dal pareggio del 1929 venne portato a un deficit non oltre il -5% del GDP nel 1931, dopodiché rimase in uno stretto corridoio tra il -4 e il- 5% sino al 1937, quando superò di poco l’1%, per poi avvicinarsi nuovamente al -5% nel 1939. Ma in quegli stessi anni il prodotto nazionale conobbe un andamento totalmente erratico rispetto al deficit, passando da un -12% del 1932 a un +10% nel 1934, per poi ripiombare a un -4% nel 1936. In quei bei tempi, infatti, la spesa pubblica federale non superava il 2,5% del GDP, e alla fine degli anni Trenta era arrivata a malapena al 5%: come si vede da questi dati che i più ignorano, che dalla recessione si sia usciti grazie ai massicci deficiti pubblici è una balla bella e buona. Dunque i massicci deficit attuali e per gli anni a venire – Gros è costretto ad ammetterlo – non possono essere affatto presentati come una buona lezione appresa negli anni Trenta. Due a zero per Milton Friedman.
Il terzo aspetto che viene esaminato da Gors è quello degli investimenti pubblici in infrastrutture, altro mantra dei keynesiani di sempre. Finisce in poche righe tre a zero per il nostro amato zio Milton. Gros evita persino di proporre charts in proposito, se la spiccia ricordando di fretta che la spesa pubblica in infrastrutture ammonta a malapena a uno o due punti di prodotto nazionale in Usa ed Europa a seconda dei casi, e solo immaginando impensabili aumenti di svariati multipli da un anno all’altro è pensabile che essa possa esercitare un traino apprezzabile sulla domanda, a fronte della recessione: ma in ogni caso in termini temporali molto lunghi, come sono quelli inevitabilmente collegati alla realizzazione di imponenti opere infrastrutturali.
Il quarto punto riguarda la correlazione tra risparmi e investimenti, e qui i cicli di allora e degli anni Trenta decisamente divergono, cioè le crisi sono irriducibilmente diverse. Il risparmio ammontava al 4,5% del reddito disponibile nel 1929, divenne negativo fino al -1,5% nel 1933, per tornare positivo e salire a più del 6% nel 1937. Dalla Grande Depressione si uscì per uno straordinario ciclo degli investimenti privati che si attivò in quegli anni, il risparmio non mancava né prima né dopo. Nella crisi attuale siamo entrati dopo anni di consumo Usa finanziati a debito e di risparmi negativi, mentre il tasso di risparmio in soli 8 mesi negli USA è passato da un -3% del reddito disponibile a un quasi +8%: una forbice che segna la terribile stretta dei consumi. Oltretutto, non solo oggi ma negli anni recenti su questo aspetto USA ed Ue s0ono stati assolutamente divergenti: in Europa – con l’eccezione di Irlanda e Spagna – risparmi e investimenti sono stati assai più stabili che negli States, ed è difficile attendersi chissà quale rilancio proprio oggi, quando invece servirebbe.
Infine, veniamo al capitolo più utile ai fini della tesi la tesi Fischer-Seminerio: quello relativo alle banche. Nella Grande Depressione NON si seguì l’approccio TBTF. Le banche commerciali divenute insolventi venivano sospese e fatte fallire. Dal numero totale di 631 fallimenti negli anni dal 1921 al 1928 compreso, si passò ai 659 fallimenti del 1929, 1.350 nel 1930, 2.293 nel 1931, 1.453 nel 1932, 4.000 nel 1933. Tra il 1930 e il ’33, oltre 9mila banche fallirono, per un ammontare totale di depositi pari a 6,8 bn di dollari dell’epoca, con una perdita media dei depositanti di poco superiore al 20% anno dopo anno. Come si vede, in realtà anche allora , in epoca pre FDIC e anteriore alla garanzia federale sui depositi, il tasso di garanzia sui risparmi affidati alle banche risultò molto più elevato di quanto pretendano i teorici del “mai far fallire”. In ogni caso, la grande morìa si attuava allora in un mercato nel quale il tasso di concentrazione bancaria era di molto inferiore a quello degli Usa pre crisi odierna. A metà anni Trenta, le 3 maggiori banche americane detenevano a malapena l’11% del totale degli asset di sistema, a metà 2008 la quota era superiore al 40%. Le 9mila banche che chiusero i battenti pesavano per poco più del 20% del totale degli asset di sistema. Lehman Brothers da sola, prima del fatidico fallimento del 15 settembre 2008, non aveva depositi ma i suoi asset pesavano per circa il 5% circa del sistema bancario USA, e in più bisognava aggiungere 600 bn$ di bonds da questa emessi a breve e lungo termine, su un totale di circa 1,2 trilioni dall’intero sistema delle banche commerciali Usa.
Ma che cosa avvenne allora che le banche furono lasciate fallire, invece che accorpate in giganti ancora più mostruosi come si è fatto oggi negli Usa? Scrivono Seminerio-Fischer:
“Il vero nodo della questione è la modalità di trasmissione della politica monetaria: in tempi di vacche grasse le banche troppo grandi per fallire usano la leva ed il basso costo della provvista per crescere più rapidamente. Ciò finisce col ridurre l’efficacia di una eventuale politica monetaria restrittiva in atto, costringendo le banche centrali a frenare maggiormente. Durante le recessioni, per contro, quelle stesse banche devono far dimagrire i propri libri e finiscono col frenare la politica monetaria espansiva adottata dalla Fed per contrastare la crisi. Se il sistema finanziario è dominato da questo tipo di istituzioni, il risultato finale sarà un credit crunch con costo del credito in aumento proprio nel momento in cui la Fed sta tentando di fare l’opposto. Ciò finisce col rallentare la crescita economica, ridurre il valore degli attivi e della ricchezza complessiva, per effetto delle restrizioni alla disponibilità di credito.”
Ma il concreto comportamento tenuto dalle banche fu allora in larghissima misura analogo a quello odierno. Non diverso come dovrebbe esser stato, se fosse fondata la tesi di Fischer sull’opportunità-necessità di opporsi alle TBTF. La Grande Depressione portò a picco negli anni Trenta i profitti delle imprese Usa: nella loro generalità, passarono dal 10% e oltre del GDP nel 1929 a perdite pari al 2,5% nel 1932. Ma l’eccezione fu sempre e costantemente rappresentata dalle imprese bancarie: i loro profitti – di quelle che restavano in piedi e non fallivano, naturalmente – restarono sempre positivi, e declinarono fino a una punta massima non superiore al 40%, in linea insomma con l’andamento nominale del GDP. I risultati negativi si concentrarono massicciamente nelle imprese non finanziarie, e contagiarono gli intermediari finanziari non bancari: le banche guadagnavano meno, ma restarono immuni dal rosso.
Se ora consideriamo l’andamento dei profitti americani negli anni 1980-2000 e lo compariamo agli anni 1920-40, possiamo osservare che gli utili del settore bancario e dell’intermediazione finanziaria non bancaria sono praticamente e sorprendentemente sovrapponibili (qui si parla naturalmente delle banche commerciali, e con l’avvertenza che gli utili sono riportati secondo il criterio statistico della contabilità nazionale, che non è mark to market e dunque non comprende capital gains o minusvalenze sulle financial securities, il che signfica che per la contabilità nazionale i profitti dell’intermediazione finanziaria tendono a essere più bassi di quelli riportati ai mercati nelle fasi di boom, più elevati invece nelle fasi di crisi).
I profitti annunciati negli Usa dalle recenti trimestrali delle grandi banche – oggi tutte commerciali – non devono dunque sorprendere: è esattamente come negli anni Trenta. Esattamente come allora, le banche si dimostrano in grado di recuperare le perdite accumulate stornando un maggior premio di rischio sulle spalle dei loro clienti. Cioè mettendo sacchi di sabbia nella catena intertemporale della politica monetaria decisa dal regolatore, tenendo oggi i tassi negativi in vista di massicci impieghi al fine di evitare il credit crunch. Non è un caso che in questi mesi i tassi alla clientela corporate in euroarea siano nella media di 350 punti base superiori ai minimi record dell’Euribor, e alla clientela ordinaria superiori fino in un ordine di 650 punti base. Capita esattamente lo stesso negli Usa, dove il prime rate è all’incirca al 3,3%, 300 punti base più del costo di finanziamento marginale incorporato nei Fed Funds.
Se è così, a meno che stia commettendo un madornale errore nell’interpretazione dei dati, vuol dire che opporsi al TBTF – sia con misure antitrust che con ratios incrementali – non è affatto soluzione che accresca l’efficacia della politica monetaria in favore della ripresa della crescita. È un problema di vigilanze più condivise ed efficaci a livelo di macroaree, NON di limiti alla crescita degli asset intermediati. Che ne dici, Mario?
Riguardo l’aspetto dimensionale delle istituzioni sistemicamente sensibili, concordo che la correlazione con la dimensione degli asset può venire meno; penso al caso di una istituzione relativamente piccola che venda protezione di credito via CDS sul pianeta intero, come AIG Financial Products, che è l’epicentro londinese della crisi americana, ed era una branch di dimensioni contenute.
Riguardo il pensiero specifico di Fischer, io credo che lui focalizzi il problema sul livello di leverage che può essere consentito alle banche. Noi oggi sappiamo che le banche più grandi (quelle che hanno creato divisioni di investment bank da giustapporre alla banca commerciale tradizionale) mostravano anche un formidabile aumento di leverage, causato proprio dalla non segregazione delle attività di investment bank da quelle tradizionali. Quindi, qui abbiamo crescita dimensionale (preesistente, ma innocua) e crescita di leverage (dopo la caduta del Glass Steagal Act). Questa evidenza contraddice (o meglio, si affianca) a quella di istituzioni piccole ma sistemicamente rilevanti. A me pare si possa affermare che i problemi si moltiplicano quando abbiamo istituti di grandi dimensioni (cioè con market power nazionale, in termini di costo della raccolta e price-setting sui servizi) E sistemicamente rilevanti, ad esempio con leverage altissimo e utilizzo di espedienti di regulatory relief.
Che fare? Osserva che Fischer non parla di antitrust (non avrebbe neppure titolo per farlo), ma suggerisce di applicare alle banche di maggiori dimensioni le procedure di resolution che si utilizzano per tutte le altre, e più in generale per i casi di dissesto. Io sposo in pieno questa tesi, e la preferisco ad azioni antitrust per timore (più che giustificato, credo) di cattura regolatoria. In soldoni, che significa tutto ciò? Che se una banca si dissesta, i suoi obbligazionisti “must take a hit”, cioè accettare una conversione (parziale o totale) in equity dei propri crediti. Questa tesi, come noto, è stata ferocemente avversata da molti, in buona e meno buona fede. Alla prima categoria appartengono quanti pensano che, se gli obbligazionisti bancari perdono soldi coi propri crediti, si verificherà nell’immediato una corsa agli sportelli e, nel lungo termine un inaridimento della capacità di raccolta delle banche. Ciò non è vero, vista la garanzia della FDIC sui depositi.
Alla seconda categoria (quella della assai meno buona fede) appartengono le varie PIMCO e BlackRock, cioè i bond asset manager, e di quelle non vorrei occuparmi, anche se so che dalle parti del Tesoro sono molto ascoltate, per usare un eufemismo.
Mi pare però sufficientemente oggettivo che il violento deleveraging delle banche-centauro (investment bank più banca commerciale) abbia bloccato e stia bloccando il meccanismo di trasmissione della politica monetaria allo stesso modo in cui in fase di economia in crescita, queste stesse banche abbiano fatto esplodere l’offerta di moneta.
Per concludere, credo che un opportuno mix di limiti al leverage e di controllo del regulatory relief usato ed abusato dalle banche (ad esempio con i CDS), possa essere utile per ridurre i rischi futuri, e per fare ciò servirà una vigilanza sufficientemente capace e “potente” da poter agire in modo principle-based e non rule-based, data la natura “liquida” dell’innovazione finanziaria.
Sono molto d’accordo con la tua conclusione, per quanto il principle-based dia inevitabilmente adito a discrezionalità. Credo invece molto difficile far rientrare nella categoria di coloro entitled to take a hit i bondholders, perché inevitabilmente si porrebbe il problema di TUTTI coloro che hanno sottoscritto, acquistato o magari solo opzionato financial securities di vario tipo. La tutela dei bodholders come classe di soggetti comunque più tutelati nelle procedure concorsuali si è rivelata una mera fiction, nelle decisioni fallimentari assunte dal regolatore e confermate dal giudice USA – vedi il secco diniego giudiziale alle toericament più che legittime pretese dei fondi che si opponevano all’esiguierrimo recupero nella procedura Chrysler – a fronte del fatto che era il rischio di controparte nelle securities, il “vero” elemento discriminante per decidere come pilotare fallimenti e sopratutto salvataggi….. da quel che vedo, una teoria micro e macro sistemica per clòasse di securities e relativo rischio di controparte è ben lungi dall’essere sviluppata e matura, anche solo per costituire orientamento d’indirizzo di tipo principle e non ruled….
Beh, considera che il debt-to-equity swap è la norma in ogni procedura di Chapter 11, sia tradizionale che out-of-court, per raggiungere la ricapitalizzazione necessaria a far ripartire imprese che siano considerate ancora vitali, non c’è bisogno di sviluppare teorie sistemiche per asset class. Comprendo che le banche sono imprese particolari, e che la raccolta è un tasto molto sensibile, ma tra una raccolta iperprotetta (dalla FDIC) in depositi e una che non lo è, tramite bond, la via dovrebbe essere quella.
Ovviamente questo non vale sempre e comunque: i broker-dealer (come era Bear Stearns) non possono essere salvati in questo modo, perché compravano Abs e Cdo e li finanziavano con repo, per cui quando la controparte del pronti-termine rifiutava il rinnovo, la società moriva nel giro di poche ore.
Quanto al caso-Chrysler, c’è una differenza: il problema che ha dato origine al braccio di ferro è stato sollevato dai bondholders secured, cioè quelli che avevano acquistato obbligazioni con pegno su impianti ed attrezzature dell’azienda, che ritenevano che dalla liquidazione avrebbero recuperato pressoché tutto il credito, non dagli unsecured, che sono quelli più importanti per masse coinvolte, e a cui si riferisce Fischer e, si parva licet, il sottoscritto.