14
Dic
2017

Tassa Airbnb: c’è un giudice a Palazzo Spada?

Qualche mese fa, nell’affrontare la comparsa di servizi come Airbnb, capaci di sovvertire in pochi mesi equilibri e prassi del mercato immobiliare ferme da decenni, il governo aveva seguito pedissequamente la celebre massima di Ronald Reagan: se una cosa si muove, tassala; se continua a muoversi, regolala; se smette di muoversi, sussidiala.

Con Airbnb e compagni siamo ancora alla prima fase. Il turismo internazionale è stato a dir poco stravolto dall’emergere di piattaforme di intermediazione online che offrono forme di accoglienza alternative a quella alberghiera: i cosiddetti “affitti brevi”, effettuati direttamente tra privati tramite Airbnb e servizi simili. Albergatori e intermediari tradizionali, negli ultimi anni, hanno denunciato con forza il fenomeno, ritenendolo una forma di concorrenza sleale. La ragione è semplice: gli appartamenti privati, a differenza di ostelli, B&B e alberghi, non sono sottoposti a tutta una serie di norme (sulla sicurezza, sulle garanzie da offrire alla clientela, sui livelli di igiene, sul trattamento fiscale) che ne complicano – e quindi ne rendono più onerosa – la gestione.

Il problema è che applicare le regole previste per alberghi e altre strutture assimilabili agli appartamenti privati ha effetti a dir poco grotteschi: come si può pretendere che una persona che affitti il proprio appartamento per pochi giorni provveda a dotarsi di cucine “di almeno 14 metri quadri” o di “installare un sanitario water-bidet provvisto di doccetta limitrofa”, come previsto in alcuni regolamenti regionali?

E così, nell’impossibilità di assimilare Airbnb ai servizi alberghieri ma sotto la pressione delle categorie professionali di questi ultimi, il legislatore ha agito nel modo in cui è solito agire in mancanza di altre idee: tassando. Lo ha fatto con una cedolare secca sugli affitti brevi al 21%, applicata dall’intermediario in quanto considerato sostituto di imposta, con obbligo di comunicazione mensile dei dati all’Agenzia delle entrate. Un bel problema – non solo economico, ma soprattutto organizzativo e gestionale – per Airbnb, che infatti ha immediatamente presentato ricorso al Tar, contestando soprattutto la disparità di trattamento con gli operatori nazionali e con quelli che non intervengono nel trasferimento dei pagamenti tra ospite e proprietario, come Booking, entrambi non soggetti agli obblighi.

A esprimere qualche dubbio sulla “tassa Airbnb” era stata, fin da subito, l’Autorità antitrust, segnalando il pericolo che alla fine gli unici a perderci sarebbero stati i consumatori. L’Autorità si dichiarò “pienamente consapevole” che l’intervento del legislatore fosse mirato a realizzare “un interesse pubblico di natura fiscale e a contrastare il fenomeno dell’evasione”, e tuttavia l’introduzione degli obblighi previsti non appariva “proporzionata rispetto al perseguimento di tali finalità”. Insomma: volete contrastare l’evasione? Fatelo, ma senza rendere la vita impossibile a chi vuole solo affittare una stanza o un appartamento. E ciò a maggior ragione perché la norma rappresenta un unicum nel panorama europeo, con il rischio di allontanare utilizzatori finali e operatori e, così, frenare lo sviluppo del turismo italiano.

Il Tar, nel frattempo, bocciò la richiesta di Airbnb di sospendere il provvedimento in attesa di maggiore chiarezza sui suoi effetti. Ma ieri dal Consiglio di Stato è arrivata la doccia fredda: i giudici di Palazzo Spada hanno ordinato al Tar di riprendere in mano le carte, in quanto le questioni poste dall’azienda sarebbero “meritevoli di un attento apprezzamento”. Per il momento, insomma, rimane tutto in gioco: la speranza è che, per una volta, l’interesse generale e il buon senso abbiano la meglio sulla difesa dello status quo.

Twitter: @glmannheimer

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2 Responses

  1. Riccardo

    La citazione di Reagan, messa cosi’, e’ abbastanza fuorviante o perlomeno ambigua…
    Quella di Reagan era una osservazione critica/polemica, qui sembra quasi un auspicio

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