Su quale Paese sia più giusto, se a minor dispersione o con ascensore veloce
Al workshop Ambrosetti di Venezia dei giovani di Confcommercio il segretario della Cisl, Raffaele Bonanni, a proposito di quale sia il modello di Paese più giusto, a un certo punto ha pianamente riconosciuto che le tante polemiche alimentate in Italia sull’eccessiva dispersione dei redditi siano in realtà infondate. In termini di coefficiente di Gini, l’indice che misura la forbice di distribuzione del reddito disponibile tra percettori, l’Italia sta assolutamente nella mediana dei Paesi europei, incomparabilmente meglio dei Paesi anglosassoni. Ma la domanda è un’altra. Qual è davvero il Paese più “giusto”? Quello con pochi ricchi e pochi poveri, come molti intuitivamente ritengono? La risposta è no, e qui trovate solidi numeri a dimostrarlo.
In questo paper, Denisa Maria Sologon dell’Università di Maastricht e visiting ad Harvard, e Cathal O’Donoghue , della National University of Ireland, estendono un loro progetto di ricerca in corso da anni. Rielaborano i dati delle fonti ufficiali di tutti i Paesi europei, in materia di stratigrafia dei redditi e posizioni sul mercato del lavoro, in termini statici e al variare delle unità di tempo, e propongono di conseguenza omologhi confronti comparati. In questa maniera è possibile fare ciò che nel dibattito pubblico italiano in materia non si riesce ad ottenere mai: cioè a riferirsi a solidi e condivisi indicatori quantitativi. Potrete scatenarvi anche voi, nell’abbeverarvi all’infinità di dati proposti dalle moltissime tabelle nelle 62 pagine fitte. Io mi limito a proporvi i seguenti, per giungere alla mia conclusione.
Nel 1994, coloro che nel nostro Paese appartenevano al quinto di italiani a reddito più basso – i più poveri, diciamolo – nel 68% dei casi l’anno successivo restavano nello stesso quintile più svantaggiato, mentre nell’8% passavano al ceto medio, al terzo quintile per distribuzione dei redditi. Nel 2000, dunque solo 6 anni dopo, la probabilità dei più poveri di restare nel quintile più basso l’anno successivo era salita al 70%. E solo il 5,8% di loro riusciva ad entrare l’anno successivo nel ceto medio del terzo quintile.
In Spagna avveniva il contrario: a distanza di 6 anni, i più poveri restavano nel quintile più basso non più al 54,5% ma al 49%, mentre al 12% riuscivano in un solo anno a entrare nel terzo quintile. Nel Regno Unito, le cifre sono eguali negli stessi 6 anni, e anche lì – nel tanto criticato modello anglosassone, che molti considerano più ingiusto di quello europeo continentale – la permanenza da un anno all’altro nel reddito inferiore è ben più limitata che in Italia: il 58% – 12 punti meno che da noi – resta nel quintile più basso di appartenenza, il 7% balza da un anno all’altro al ceto medio. Non voglio poi parlarvi della Finlandia, che in quegli stessi anni vede la possibilità in un anno dei più poveri di arrivare al ceto medio passare dal 7% all’11%, e quella di restare nel quintile più basso decrescere dal 62 al 57%.
Ecco che cosa succede, in un Paese come l’Italia. Se continuiamo a crescere troppo poco, l’ascensore sociale si bloccherà ancora di più. E sarà sempre più difficile per chi sta in basso salire i gradini del reddito e del patrimonio. Per questo serve una grande discontinuità. Maggiori sono i disincentivi all’offerta e domanda di lavoro rappresentati dall’alta tassazione – vedi tesi di Ted Prescott – più elevate sono le barriere all’impresa rappresentate da oneri regolatori e amministrativi per decine di miliardi di euro l’anno, meno flessibili e concorrenti sono i mercati dei prodotti e dei servizi – eccetera eccetera, sollevatemi dall’elenco completo delle concause della bassa crescita italiana – minore diventa le velocità e possibilità di ascesa dei cittadini nella graduatoria dei redditi, nell’arco della propria vita.
Su quale sia il Paese più giusto, quello a fotografia statica con minor dispersione dei redditi, o quello a cinematografia dinamica con il più veloce ascensore sociale, la mia risposta è netta. Il secondo. C’è un meraviglioso capitolo in materia, in Capitalism and Freedom di Milton Friedman, opera edita nell’anno del Signore 1962. L’Italia più giusta che abbiamo in mente non è quella che si concentra prima di tutto sulla differenza tra il reddito più alto e quello più basso. Ma quella che antepone a tutto la possibilità e la velocità per chi sta in basso di salire verso l’alto.
Scommettendo su se stesso e sull’interazione con gli altri.
Sulla capacità, sullo studio, sulla conoscenza, sull’innovazione.
Inoltre la scarsa mobilità sociale è, in Italia, fortemente condizionata fortemente condizionata dalla politica. A parole siamo tutti uguali ma nei fatti occorre o/e essersi scelti i genitori giusti e/o il partito politico giusto. In assenza di mobilità sociale una società un paese è destinato ad una lenta e dolorosa agonia.
Mi sembra un modo molto elegante di osservare certe dinamiche,ma vorrei capire quale e’ la morale che i governanti devono tenere a mente
per fare realizzare il modello in cui si antepone a tutto la possibilità e la velocità per chi sta in basso di salire verso l’alto.
si possono scomporre i dati italiani in nord e sud?