Studiare per lavorare… o far lavorare
Tra poco scade l’appuntamento con l’Agenda di Lisbona, e vedremo quanti Paesi hanno davvero fatto dei passi avanti verso un’Economia della Conoscenza, in cui è considerato essenziale l’aumento della quota di laureati in quanto segno di incremento di capacità lavorativa ad alto livello; è plausibile che una tale “superiore” capacità lavorativa sia più remunerativa per l’economia intera, permettendole di rispondere alla potenza manifatturiera degli “emergenti” puntando su settori diversi. Intanto L’OCSE divulga un po’ di dati che riguardano anche parte del 2009: i laureati aumentano, guadagnano più dei non-laureati, e risentono meno dell’aumento della disoccupazione; questo ovunque, tranne che in Italia.
A quanto si legge, un po’ in tutto il mondo l’istruzione terziaria ha aperto canali para-universitari professionalizzanti. In Italia invece tale formazione è “dispersa” tra le riforme dell’istruzione secondaria (istituti tecnici) e titoli triennali universitari. Dobbiamo quindi pensare che fino a pochi anni fa, a parte la buona volontà di singoli docenti, non ci fosse niente di “professionalizzante” (sensazione che ogni mio collega ragioniere e parte dei miei colleghi universitari ha avuto). Personalmente non so quanto debba essere professionalizzante l’università, ma pretenderei lo fossero sicuramente le varie “specializzazioni” e corsi “post-laurea” così come un istituto tecnico che pretende di formare “periti”. In Italia si è di fronte, pare, ad un incremento di lauree di dubbio valore scientifico e poco apprezzate sul mercato del lavoro; l’incremento dei laureati non rappresenta pertanto un effettivo “valore” per il Belpaese, che quindi resta e resterà indietro nello sviluppo economico. È con questo che l’OCSE spiega l’anomalia italiana sulla disoccupazione: solo in Italia la crisi ha mietuto più vittime tra i laureati che tra i non-laureati, perché in Italia il disallineamento tra titolo conseguito e aspettative occupazionali è massimo.
L’OCSE non lo dice, ma lo dico io: in Italia praticamente si studia di più e si creano più indirizzi per favorire il lavoro solo degli insegnanti. La colpa di questo non può essere (solo) di un Ministro dell’Istruzione: c’è dentro tutta la gerarchia e struttura scolastica, l’insipienza non sanzionata di molti insegnanti, il controllo centrale sui programmi, ma pure la disonestà di dipingere un’Italia come potenza tecnologico-scientifica mondiale quando tutto quel che realmente viene sostenuto è la bassa manifattura.
Le classi più mature non sono facilmente recuperabili sul piano dell’istruzione. Politicamente è un grosso problema dir loro “arrangiatevi”, e così lo Stato vede di tutelarle, il che si è tradotto in Italia con il permettere loro di continuare a fare lo stesso lavoro proteggendo e salvando i settori interessati. Direi che questa è un’ottima ragione per la “stasi” indotta in Italia da subdole politiche industriali (si parla tanto dell’assenza di una politica industriale ma, come ho sostenuto qui, se ne può rintracciare per fatti concludenti una che da decenni mantiene invariata la struttura industriale). D’altra parte la “stasi” di una struttura economica imperniata su certa manifattura implica la non-necessità di alti livelli di istruzione, e da questo deriva anche il deprezzamento del merito a favore della pratica e della relazione (qui il ragionamento più in esteso). L’istruzione così perde una forza “trainante”, la “domanda di competenze”, e finisce per avvilupparsi su se stessa cedendo alle logiche burocratiche. È per questo che dico che in Italia si studia non per il proprio lavoro futuro ma per far lavorare gli insegnanti (e magari finendo anche per far lavorare i Paesi esteri che sanno accogliere le capacità di ex studenti italiani).
A corollario va ricordato che in una fase di crisi tendenzialmente (cioè a parte la non perfetta selettività del bust e le solite distorsioni statali) tendono a uscire dal mercato le competenze meno importanti e essenziali; dalla tradizione economica austriaca, o da qualsiasi teoria che non ragioni in termini di “valori oggettivi”, sappiamo che un qualsiasi bene ha un valore in relazione all’impiego che ne può essere fatto nell’economia, pertanto un fattore produttivo che è utilizzato per produzioni di poco valore (o che non è affatto utilizzato) avrà conseguentemente un valore basso (o nullo). Ad esempio, se la struttura produttiva è basata sui braccianti, una laurea in economia dei mercati finanziari o in fisica nucleare non vale nulla, ma vale molto la forza fisica. Per tornare a quanto detto dell’istruzione italiana, se questa è (come non le rimane che essere) subordinata a logiche diverse dall’assecondare l’economia, chi è “forte” di istruzione è il primo a restare disoccupato perché appunto “forte” in qualcosa di “inutile”. Che poi questo si traduca soprattutto in disoccupazione giovanile è logico, perché i più istruiti e con meno esperienza (e l’esperienza è una delle cose più importanti in un contesto “statico”) sono i giovani, che quindi sono quelli che “valgono meno” e i primi a venir scartati. Così io mi spiego i dati OCSE in un modo che nessun canale di informazione ufficiale avrà mai il coraggio di fare.
Il modo in cui è letta l’Agenda di Lisbona, per lo meno in Italia, è “create gente istruita, ché loro faranno crescere il Paese”. La realtà è che il mondo sta avanzando, prima il solo occidente ora sempre più anche gli emergenti, verso attività a crescente contenuto di informazione e conoscenza su cui l’istruzione ha un ruolo decisivo, un livello industriale da “occupare” perché gli altri, i più “labour-intensive”, vengano naturalmente (per la teoria dei vantaggi comparati) coperti da Paesi meno sviluppati; per questo far crescere l’istruzione è necessario. E questo è vero in un Paese che è disposto a cambiare. Ma l’istruzione è un fondo, a livello di Paese, una necessità che viene espressa con l’avanzare stesso dell’economia (che deve essere economia “aperta” alle innovazioni anche dall’esterno). Mille ingegneri in più non sono mille brevetti, ma 999 persone capaci di gestire un brevetto da cui emergono mille aziende che hanno bisogno di gente capace. L’imprenditore traina, l’istruzione asseconda, e come una corda tira dietro l’economia. Ma in Italia, si è visto, non c’è vero spazio per l’innovazione o per mettere in discussione l’esistente, e quindi per una vera imprenditoria.
E non si può spingere una corda.
Sottoscrivo e condivido in toto.
Io sono ingegnere meccanico e lavoro in una piccola realtà; so bene cosa voglia dire passare dall’approccio “artigianale” a quello avanzato/industriale, e quanto le generazioni precedenti oppongano quella che si potrebbe chiamare forza d’inerzia al cambiamento.
Non fatico ad immaginare situazioni simili nel resto d’Italia.
Concordo pienamente. Da ingegnere informatico che lavora nel campo informatico posso dire solo una cosa: quasi tutto quello che ho studiato serve ben poco per il lavoro che sto facendo. Ormai una mia battuta tipica è: se avessi una laurea in filosofia avrei le stesse conoscenze utili datami dalla mia laurea in ingegneria per fare questo lavoro! C’è un abisso fra università e mondo del lavoro. Nelle statistiche ci sono i laureati che fanno un lavoro inerente al loro titolo di studio. Sarebbe interessante sapere quanta sia “vera” questa inerenza.
Le leggi di mercato sono inesorabili. Operai specializzati non si trovano e guadagnano di più di un inutile ingegnere. Mi dispiace, ovviamente, per la situazione personale, ma non posso che riconoscere la giustezza di ciò. La cosa che trovo irritante è la società, dalle famiglie con il mito del figlio dottore ai media, che illudono tanti giovani con il mito della laurea, novello Santo Graal.
Partirei dall’ultimo paragrafo: dove sono in Italia le aziende che cercano i profili “istruiti”?
Non sto parlando di laureati in giurisprudenza o scienza della comunicazione, corsi probabilmente troppo ‘gettonati’ negli ultimi anni, ma -per esempio- che fine hanno fatto le grandi aziende del settore TLC?
Finalmente, su questo argomento (istruzione ed opportunità di lavoro) un articolo sensato !!!!
Io, sebbene ormai anzianotto, sono laureato in informatica. Ad oggi avrei un guadagno maggiore se facessi il bidello. Ovviamente il maggiore aumente se si tiene conto anche dalla “volatilità” dei redditti.
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Il discorso sarebbe complesso (io sono per l’importanza della cultura “filosofica” anche in campo tecnico-scientifico) ma condivido, una corda non si tira.
Nel clima italiano si premia solo la staticità e il conformismo.
@Roberto Bera Caro Roberto non nascondo che la mia battuta sulla filosofia vuol essere un riconoscimento alla cultura filosofica. Sono anch’io convinto dell’utilità di un po’ di filosofia anche in campo scientifico, sperando così di aver dei colleghi che abbiamo un minimo senso della realtà.
Questo è senzabubbio un articolo molto interessante, perchè scritto non solo con cognizione di causa, ma perchè tocca i problermi di fondo dell’ economia italiana. Mi dispiaccio sempre molto quando sento asserzioni dove si vuole far passare l’idea che nella nostra nazione ci sono “TROPPI” laureati e poca manodopera, semplificando così una realtà molto complessa. Comunque la cultura è anche fine a se stessa, ed è sempre apprezzabile che le persone tendano ad un miglioramento intellettuale, al di là di quello che una società cosiddetta moderna può o non può dare. Molti genitori fanno studiare i propri filgi,(che dovrebbero essere le pietre miliari di un’ipotetica economia nazionale ma anche internazionale), non certo per “il mito di un figlio dottore”, ma perchè l’struzione è necessaria, ora molto più di prima. Con la globalizzazione, la competizione lavorativa ed intellettuale nel mondo è enorme e non possiamo quindi peccare di superficialità riducendo la nostra nazione a sola manodopera (magari non qualificata), ma la sfida invece è di migliorarsi e di tendere sempre più in alto. Se vogliamo quindi cercare a tutti i costi un colpevole per la situazione “difficile” che sta vivendo l’Italia, lo possiamo trovare solamente nelle nostre istituzioni, che per troppo tempo hanno completamente disatteso le aspettative di molti italiani. I giovani talenti emigrano all’estero nella indifferenza più totale, la cultura viene sistematicamente sminuita come se ormai fosse un “disvalore”. Nostro malgrado ci dobbiamo chiedere ormai quale futuro ha la nostra nazione.