14
Apr
2010

Stessa spiaggia, stesso male

Non sarà ancora imminente, anche le prime belle giornate di sole sono qui a ricordare che la stagione estiva non è neppure così lontana. Ed è facile allora che il pensiero di chi già si vede vacanziero corra alle tonalità turchesi e bianchissime di una spiaggia, magari in Sardegna, magari quella famosissima della Pelosa (Stintino), singolare emblema della bellezza estiva del creato ma anche della sua caducità, alla luce degli effetti disastrosi di cui la natura stessa è capace d’inverno. E del colpevole aiuto che alla distruzione è offerto dallo statalismo e dall’ottusità di una certa cultura ambientalista.
Detto brutalmente, la spiaggia della Pelosa rischia seriamente di «sparire» a causa «dell’erosione costiera» che «di anno in anno porta via metri di arenile». L’ultimo a lanciare l’allarme è l’On. Ermete Realacci, responsabile green economy del Pd, che ieri ha presentato un’interrogazione parlamentare al Ministro dell’Ambiente Stefania Prestigiacomo.
Si tratta di «un danno enorme che, senza i necessari interventi di recupero – ha affermato Realacci – potrebbe rovinare per sempre una delle spiagge più belle e famose del nostro paese». Anche il più permaloso dei commentatori non potrebbe dissentire tutt’al più limitandosi, se sardo, a lamentare che con i continentali è sempre la stessa storia: le spiagge belle e famose sono “italiane” mentre il sottosviluppo è rigorosamente insulare.
«Da alcuni anni – ha spiegato il responsabile green economy del Pd – il Comune di Stintino, insieme all’Ispra (Istituto superiore per la Protezione e la ricerca Ambientale), e con la collaborazione di numerose università italiane, ha realizzato un progetto di ricerca per il recupero e lo sviluppo del turismo sostenibile dell’area che prevede molti interventi per fermare l’erosione costiera, per valutare la pressione turistica durante i mesi di maggiore affluenza e per salvaguardare il pregevole ecosistema che caratterizza quel tratto di costa».
Quasi rimpiangendo, insomma, la Stintino di cinquant’anni fa, un modesto borgo di pescatori quasi irraggiungibile che solamente ad agosto si “affollava” dei rampolli di qualche decina di famiglie della Sassari bene (quella Berlinguer, ad esempio). Prima che un signore milanese, un certo Angelo Moratti (petroliere, e dunque per ciò stesso nemico dell’ambiente!) ebbe l’intuizione di costruirvi un albergo – attorno al quale sorsero poi negli anni poi villette, locali, posti auto – che avrebbe dato il la a una frequentazione turistica crescente, anche superiore alle 10mila presenze giornaliere nei periodi di punta.
Il problema dunque non puntualizzare con una punta di scherzoso nazionalismo che il «paesaggio naturale e ambientale unico» delle spiagge sarde (ma lo stesso vale per quelle del Mezzogiorno o della Sicilia) sia “dei sardi” e non dei “continentali”. Il problema è che la loro condizione giuridica langue nella palude della “proprietà” demaniale, quel monumento alla tregedy of common, responsabile dell’incuria del degrado di territori, i quali laddove una chiara e stabile definizione del diritto di proprietà lo consentisse attirerebbero imprenditori e capitali determinati a mantenere la bellezza dei luoghi.
Come dimostra, ad esempio, un episodio che contro ogni logica è stato riportato come un caso di malaffare ambientale. Lo scorso febbraio, infatti, nella zona denominata L’ancora, in località Punta Negra – a pochi passi dalla Pelosa – gli uomini della Capitaneria di porto scoprirono 600 mq di spiaggia “fatta in casa” adoperando sabbia industriale a pochi passi dalla perla del Golfo dell’Asinara, la spiaggia della Pelosa. Lungi dal dimostrare un’insensibilità per le questioni ambientali, questo goffo tentativo di ripristinare – notte tempore, a spese proprie e quasi dovendosene vergognare – qualche piccolo fazzoletto di un arenile spazzato via dalla furia naturale dell’inverno dimostra quanto sia reale il circolo virtuoso tra tutela dell’ambiente e profitto.
La bellezza sarà smisurata, ma le spiagge non lo sono affatto. Ed è proprio questa scarsità che le rende beni preziosi suscettibili di valore economico. Invece, mentre si fanno tanti progetti, si organizzano convegni, e si giurano propositi istituzionali, alla fine dei conti il male – lo statalismo – è sempre lo stesso.
In verità, un piccolo ma concreto gesto di buona volontà è già venuto dalla Giunta sarda che quasi un anno fa, con la delibera n. 24/24 del 19 maggio 2009 ha, portando a sei anni (come da legge n. 494/1993) la durata della concessione demaniale anche in assenza del piano comunale di utilizzo del litorale, e favorendo la presenza delle strutture alberghiere site a ridosso della costa.
Scelta che comunque non è considerabile come una vera e propria privatizzazione – se non in una  estremamente blanda e ipotetica prospettiva futura – sia perché i concessionari saranno comunque tenuti a pagare un sovra canone di 2,11 euro a metro quadro per i primi 250 mq di concessione, e di ben 8,44 euro per quelli ulteriori. Inoltre, in maniera opportuna, la disposizione è scritta in modo tale da garantire la persistenza di sufficienti tratti di spiaggia libera.
Scontata la contrarietà di ecologisti e “amici della terra” vari che denunciano la misura come una regalia (ma come? è proprio l’attività degli albergatori l’hic sunt leones del sostegno al turismo?) e proseguono nell’invocare un ruolo pubblico sempre maggiore nel risolvere i problemi delle spiagge sarde, riduttivamente individuati – così come nel caso di qualsiasi altro spazio pubblico – nel classico sciorinamento dell’indifferenza e dello scarso senso civico dei pubblici fruitori di quegli spazi, per non parlare degli imprenditori e costruttori privi di ogni sensibilità ambientale.
Siamo seri. Il problema delle spiagge non sono certo un paio di bottiglie dimenticate la notte da una combriccola di giovani universitari che nel desiderio di svagarsi a conclusione di una dura sessione di esami si sono lasciati trasportare appena un filo oltre dall’euforia. È proprio necessario attendere che non ci sia più alcuna spiaggia, per capirlo?

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