Start-up, ma soprattutto bottom-up
Riceviamo e volentieri pubblichiamo da Emiliano Valerio Morgia
A dieci anni dall’introduzione dello Start-up Act, la pandemia e la crisi energetica hanno reso ancora più evidente lo stretto legame che esiste tra innovazione e libertà
“L’organizzazione è nemica dell’innovazione”
Naval Ravikant
“Innovazione” è il nome che diamo a un fatto sorprendente: abbiamo meno cose in comune con un nostro discendente del 2123 che con un nostro progenitore, cittadino dell’antica Roma, dell’anno 23; nonostante il primo sia 20 volte più vicino a noi nel tempo.
In questo inizio 2023, conviene tenerlo a mente almeno per un paio di ragioni.
La prima ragione è che, a fine del 2022 appena concluso, ha compiuto dieci anni lo Start-up Act, la prima legge organica sulle imprese innovative in Italia: il Paese dove serve una legge per tutto, anche per far spazio a concetti come venture capital e crowdfunding. Varata il 18 di ottobre del 2012 dal governo Monti, la legge ha creato il registro per le start-up e offerto alle imprese iscritte alcune semplificazioni: un abbattimento di oneri amministrativi, una disciplina societaria e del lavoro più agile, incentivi fiscali all’investimento in capitale di rischio. Così, lo Start-up Act ha segnato un importante passo nel rendere il Paese più competitivo sul fronte dell’innovazione.
Di quanto ciò sia cruciale ce ne siamo resi conto dapprima con la pandemia e poi con la crisi energetica. L’innovazione è quella che ci permette di convertire le maschere da snorkeling in respiratori per le terapie intensive, di installare turbine eoliche offshore in acque sempre più profonde, di estrarre gas naturale da formazioni o giacimenti non convenzionali, fino a pochi anni fa ritenuti non economicamente sfruttabili.
L’innovazione è ciò che converte le risorse in riserve: come ha scritto Alberto Mingardi, è ciò che ci permette di “forzare” i limiti della scarsità.
Al contempo, però, la pandemia e la crisi energetica sono state cavalcate dai governanti populisti, che hanno visto aprirsi vaste praterie per le loro proposte dirigiste. Proposte il cui fascino è tanto più forte, quanto più turbolenti sono i tempi che attraversiamo: dopotutto, se il mondo intorno a noi ci sembra imprevedibile e le nostre sorti appese a un filo, la prima cosa di cui ci preoccupiamo è che qualcuno faccia La-Cosa-Giusta. Per tale compito, lo Stato è il candidato ideale dal momento che, per definizione, non può sbagliare.
Il problema è che innovare vuol dire, anzitutto, saper stare a contatto coi propri insuccessi, e non chiedere di esserne schermati. Soltanto così, di fronte a una difficoltà, noi esseri umani reagiamo sovracompensando: riceviamo, cioè, nuove informazioni sul rischio e sviluppiamo capacità e forze aggiuntive.
Ecco la seconda ragione per cui conviene pensare, ogni tanto, a ciò che abbiamo in comune col nostro progenitore del 23 e il nostro discendente del 2123: infatti, come mostrano i dati, sono queste capacità e forze aggiuntive a costruire valore e attrarre talento.
Già prima della pandemia, nel 2018, le imprese iscritte al registro avevano visto aumentare il fatturato e il valore aggiunto dell’8% e del 12% rispettivamente. Un trend positivo che non si è interrotto negli anni seguenti, nonostante la pandemia. Dieci anni dopo l’ottobre 2012, gli investimenti in start-up hanno superato il miliardo di euro di finanziamenti, frenando anche il brain-drain: l’emigrazione di talenti osservata in Italia negli ultimi decenni.
Valore e talento, appunto. Due ingredienti fondamentali, per un sistema produttivo agile: che abbia, cioè, quella flessibilità che (come abbiamo sperimentato) è molto protettiva di fronte a uno shock esterno.
Al netto di questi buoni risultati ottenuti, però, il divario da colmare rispetto ai principali Paesi europei rimane. Ed è un divario soprattutto culturale.
Cosa intendiamo, esattamente, quando parliamo di sovranità tecnologica? Come mai ancora e ancora troviamo rassicurante la proposta di una direzione nazionale, top-down di politiche dell’innovazione? O quella di ampliare i confini del golden power per salvare startup italiane dalla “predazione” del mercato?
Come ha bene osservato Claudio Cerasa sul Foglio: queste idee non sono isolate, ma unite da un filo conduttore a tanti altri cavalli di battaglia di matrice populista, dall’atteggiamento di sospetto verso i vaccini all’ostilità allo Spid e al Pos.
Solo che alla base non credo ci sia, come sostiene Cerasa, un approccio luddista.
Rasoio di Hanlon (o forse di Napoleone Bonaparte): mai attribuire a un intento deliberato ciò che può essere più facilmente spiegato con l’ingenuità. Il desiderio di sovranità tecnologica, la speranza riposta in uno Stato che non soltanto faciliti ma addirittura susciti l’innovazione celano una visione del mondo in cui noi individui siamo deresponsabilizzati, sollevati dalla fatica che richiede trovare soluzioni ai problemi che pure riconosciamo e lamentiamo.
Una visione che consola (non è il caso di negarlo: altrimenti risulta inspiegabile l’appeal che esercitano queste soluzioni semplici a problemi complessi), ma che purtroppo va a scapito di progresso e innovazione.
Nelle società prospere, infatti, lo Stato non esonera gli imprenditori dal compito (quindi dalla responsabilità) di innovare prodotti e processi, divenendo esso stesso imprenditore – si limita a creare un framework all’interno del quale l’innovazione sia riconosciuta come valore e per ciò stesso promossa.
Qual è il beneficio concreto di ciò? Come avrebbe argomentato Adam Smith, già nel 1776: coloro che innovano si muoveranno all’interno di tale framework come guidati da una mano invisibile, cioè dal bilanciamento tra precisi incentivi e disincentivi. Nell’economia di mercato, infatti, la prospettiva del profitto fa sì che per l’impresa sia premiante imparare e adattarsi, tenendo la mente aperta sulle nuove tecnologie. D’altra parte, il rischio delle perdite fa sì che essa non agisca con cieco entusiasmo, ma che sia cauta nell’implementazione.
In un’economia pianificata, teniamolo a mente, accade l’esatto opposto. Senza prospettiva di profitto, non c’è l’incentivo a fare un efficace scouting tecnologico. Senza la prospettiva delle perdite, non c’è skin-in-the-game, che normalmente sarebbe un disincentivo a imbarcarsi nei progetti più fallimentari e insensati.
Non solo. La farraginosità tipica dei processi centralizzati di decision-making toglie ossigeno al tessuto delle imprese start-up poiché rende difficile lo sviluppo del mercato venture capital: questo è destinato a una piccola frazione delle imprese, ma è determinante per esse poiché sono quelle che hanno difficoltà ad avere credito a causa di un profilo di rischio alto oppure di prospettive di accesso al mercato lontane nel tempo.
La lentezza di una pianificazione pachidermica aumenta l’importanza della reputazione, e in questo modo crea di fatto una rendita per chi sta sul mercato da più tempo e una barriera ai nuovi attori che volessero entrarvi. Il risultato è uno stallo, che impedisce al mercato venture capital di crescere: più esso è piccolo, infatti, più tende a rimanere tale perché gli investitori sono restii a entrarvi temendo la mancanza di esperienza.
Si crea, come nota il Centro OCSE di Trento per lo Sviluppo Locale, un ecosistema piuttosto asfittico, troppo lento nei meccanismi di validazione di mercato. Non si muore, ma nemmeno si cresce, poiché tante opportunità sono precluse: sequestrate da ciò che il mercato non ha il permesso di potare via.
Invece, l’innovazione che ci ha fatto progredire fin qui dall’anno 23 (e che speriamo ci proietti verso il 2123) è legata a doppio filo con il libero mercato – o con quel poco che c‘è. Lo Stato on top ha senso se leggero, a salvaguardia della possibilità di sperimentare e di fallire: così da sostenere innovatori pesanti at the bottom, che assumono su di sé la responsabilità e la fatica del cambiamento.