Speranze dagli USA, non da Keynes
Due giorni fa l’aveva detto, il presidente Obama, che la recessione sta finendo, e oggi il dato rilasciato dal BEA sul GDP americano nel secondo trimestre sembra dargli pienamente ragione. A me però viene da pensare alla vecchia canzone dei Righeira, pazzi torinesi: “l’estate sta finendo e un anno se ne va/ sto diventando grande lo sai che non mi va”. Vi spiegherò perché. C’è Keynes di mezzo, ancora una volta. O meglio, la sua vulgata. ma per non apparire pazzi lunatici, bisogna spiegarsi bene.
Date un occhio all’apparato analitico del comunicato BEA. E’ vero, nel secondo trimestre la diminuzione congiunturale del GDP è pari solo all’1% sul trimestre precedente, rispetto al primo quarter in cui la frenata era stata del 6,3%. E ciò porta la proiezione tendenziale del calo di prodotto nell’anno a un -3,9%, che dovrebbe migliorare fino a un esito inferiore al 3%, se la tendenza resta questa del secondo trimestre. Tuttavia, se vi prendete la briga di leggere gli apporti a questo dato delle diverse componenti, troverete che per esempio le spese per consumi delle famiglie sono diminuite nel secondo trimestre dell’1,2% mentre erano aumentate dello 0,6% nel primo; che il consumo dei beni durevoli è sceso del 7,1% mentre nel primo trimestre saliva del 3,9%; quello dei beni non durevoli è sceso del 2,5% rispetto a un aumento dell’1,9% nel trimestre precedente. E’ vero, in alcune componenti il gelo tende a passare dal Polo alla tundra, visto che si passa da un -39,8% a un -8,9% per gli investimenti, e dal -29,9% al -7% per l’export. Ma la differenza di fondo viene solo da una voce su tutte: la spesa pubblica. Essa è aumentata della bellezza dell’11% nel secondo trimestre, mentre nel primo si contraeva del 4,3%. Ecco perché c’entra il solito Keynes.
Ma se ha ragione Obama e la recessione sta finendo – mi devono convincere, con questi dati – non sarebbe il caso di pensare da subito al deficit? Facciamo due conti. Nel 2007 il deficit pubblico Usa è ammontato all’1,25 del GDP. Nel 2008 è salito al 3,2%. Nel 2009, secondo le stime del Congressional Budget Office, il deficit pubblico americano punta a 1,8 trilioni di dollari, uno spaventoso 13% del GDP. Dieci punti di prodotto nazionale di stimolo keynesiano all’economia. Nel 2010, il CBO stima che il deficit resterà nella migliore delle ipotesi superiore a 1,4 trilioni di dollari, dunque più del 10% del GDP. Roba che se si dovesse adottare il keynesismo ortodosso, bisognerebbe addirittura denunciare la contrazione del deficit come eccessiva. In realtà la storia vera è un’altra. Nessuno ci capisce più niente, in merito al famoso “moltiplicatore” della spesa pubblica in deficit in periodi di crisi. Nel senso che siamo tornati a praticarlo: eppure da anni nessuno ci credeva più.
Prima osservazione. I neokeynesiani tendono a fare male i conti con l’effetto che deficit pubblici esercitano in regimi di economie aperte, alias di globalizzazione. Gli USA possono pure illudersi di finanziare il deficit a doppia cifra non a scapito degli investimenti cioè del risparmio interno privato, bensì attirando capitali esteri come hanno fatto in maniera crescente negli ultimi 15 anni. Ma ciò avviene solo a patto di bilanciare l’importazione netta di capitali esteri con aumento dell’importazione di beni e servizi dall’estero, per mettere in pari la bilancia dei pagamenti. L’aumento della domanda interna da spesa pubblica in deficit, dunque, corrisponde a una diminuzione della domanda collegata al deficit commerciale. Dopodiché, si sperava che fosse chiara e inequivoca la lezione dell’ultimo grande esperimento storico di volontaria soggezione di una grande banca centrale indipendente al deficit, in funzione di stimolo abbracciato dalla politica fiscale di un governo keynesiano: avvenne negli USA negli anni Settanta. Il regolatore monetario, attraverso la monetizzazione del debito, forti iniezioni di liquidità e acquisto in massa di titoli pubblici può surrettiziamente dare l’illusione di maggior potere d’acquisto. Ne derivò la stagflazione, fino a che Paul Volcker non invertì la tendenza tornando a politiche monetarie rigorose, al costo della recessione 1981-82 pur di spezzare la spirale inflazionistica e ripristinare la convenienza agli investimenti privati, per attenuazione del crowding out pubblico.
Ma se tali sono le evidenze empiriche – che la politica tende sempre a dimenticare quando arriva una crisi – che dire delle ricerche teoriche? Olivier Blanchard del MIT, un anno fa, in un paper intitolato The State of Macro (NBER Working Paper no 14259)h ha tentato una modellizzazione convergente neokeynesiana. Diciamolo fuori dai denti: fino all’esplosione della grande crisi, non c’era quasi più nessuno che tentasse di difendere in sede teorica l’efficacia dello stimolo keynesiano. La convergenza prevalente si collocava sulla critica al moltiplicatore svolta da Robert J. Barro in testi come Macroeconomics: A Modern Approach (South-Western College Publishers, 2007). Barro si è concentrato sull’analisi di efficacia del moltiplicatore in anni di pace e di guerra, sottolineando come solo in questi ultimi possa essere considerato davvero efficace: e comunque anche in quegli anni – WWII, Corea, Vietnam – il moltiplicatore non è mai andato 0,8. Cioè anche negli anni di massima effettività, l’aumento di spesa pubblica si traduce solo in una frazione di aumento del prodotto. Barro ha dato evidenza statistica e teorica al fatto che in numerosi anni di pace il moltiplicatore della spesa pubblica tende addirittura a zero, con effetti sul GDP pressoché nulli. Paul Krugman naturalmente in più occasioni ha aspramente criticato tali risultanze. Altri autori, come Andrew Mountford e Harald Uhlig, hanno calcolato che, in caso di inattesi innalzamenti della spesa pubblica oltre quanto previsto dagli stabilizzatori automatici per il ciclo, possa determinarsi un aumento dell’1,3% di prodotto per l’1% di spesa pubblica aggiuntiva. Tuttavia, per i due autori “il taglio delle tasse anche in deficit è la miglior politica pubblica per stimolare l’economia”.
Altri hanno messo a punto modelli economici per simulare le conseguenze. Christina Romer e Jared Bernstein, consiglieri di Obama e Biden, in base a un loro modello sono dell’idea che l’1% di spesa pubblica incrementale accresca il GDP dell’1,6%. Altri, come John Cogan, hanno messo a punto modelli sulla variante Smets-Wouters, raggiungendo la conclusione che nel primo anno il moltiplicatore tende a essere molto modesto, e che comunque resta inferiore all’unità anche in seguito. Varianti del modello Smets-Wouters sono stati anche utilizzati per simulare l’effetto della spesa pubblica sul ciclo nel caso di politiche monetarie coerenti – cioè ancelle – alla politica di bilancio. Gauti Eggertsson è forse colui che più si è spinto avanti su questa strada, proponendo tre anni fa in uno staff paper della FED di New York la tesi per cui, con una politica fiscale esplicitamente a supporto fino agli estremi, il moltiplicatore potrebbe arrivare addirittura a 3,7. Ma ciò configurerebbe l’abrogazione di ogni autonomia della politica monetaria: lo stesso Eggertsson concludeva che, se la politica monetaria resta indipendente, come non può che essere a giudizio di un membro FED, il moltiplicatore tende allo zero.
Mi rendo conto che posa essere impopolare ricordarlo, ora che il secondo trimestre USA vede un calo d’intensità della recessione – ma sempre recessione è – ma esso è più figlio della spesa pubblica in frenata nel trimestre precedente, che dell’aumento verticale di spesa pubblica che nel frattempo avveniva. I deficit pubblici non possono creare domanda aggiuntiva reale combattendo “il risparmio stupido”, come lo definiva Keynes. Possono solo orientare la domanda da quella preferita dal mercato a quella preferita dal governo. È vero che la ricerca economica non dà quasi mai risultanze univoche, e ciò non capita infatti neanche per il moltiplicatore. Ma la vasta maggioranza degli autori prima della crisi attuale era per un moltiplicatore largamente inferiore all’unità, dunque inefficace. Lo stimolo keynesiano produce debiti, non occupati. Ma poiché le cattive idee raramente spariscono una volta per sempre, ecco che occorre reimpararne da capo l’amaro prezzo. Ci stiamo in mezzo, al gigantesco esperimento di neosomari a nostre spese.
Perché non fate una mailing list per ricevere sulla propria email i vostri post….purtroppo non si ha mai il tempo per navigare e controllare aggiornamenti…
Un dato interessante: la crescita della spesa federale non è quella dello stimolo ma la componente Difesa, che è di solito piuttosto erratica, e che nel primo trimestre era diminuita. Keynesismo militare?
http://blogs.wsj.com/economics/2009/07/31/stimulus-cant-take-credit-for-slower-gdp-contraction/
Delle due l’una: o lo stimolo federale andrà “online” nella seconda metà dell’anno, oppure il suo effetto espansivo sta venendo sistematicamente assorbito dalla crisi degli stati e dall’accresciuta propensione al risparmio delle famiglie. Non una distinzione da poco conto…
E’ la seconda, Mario, secondo me la seconda…… ci sono 11 punti di reddito disponibile in meno rivolti ai consumi, rispetto a 9 mesi fa negli Usa…..
Bravo Oscar!! Ormai sei uno dei pochi che riesce a diffondere un pò di nozioni di liberalismo economico! Continua cosi
Simone