Solitudine e intransigenza di Margaret Thatcher a confronto
Riceviamo e volentieri pubblichiamo da Amedeo Gasparini
Si dice che uno dei difetti dei grandi leader politici sia che spesso siano solitari; tuttavia, si dimentica che è proprio quella solitudine che può dar loro forza. Se però la solitudine è mischiata all’intransigenza e alla durezza nel trattare i propri collaboratori, le critiche di terzi sono potenzialmente dietro l’angolo. Il che non è un problema, se il leader in questione è un personaggio vincente, ma appena le sue fortune si eclissano, ecco che tutti coloro che avevano tollerato un un’attitudine intransigente, si vendicano. Successe così all’inizio degli anni Novanta a Margaret Thatcher. Allora, il Primo Ministro britannico aveva governato per oltre un decennio sia il paese che il Partito Conservatore con successo, fermezza e intransigenza. In politica estera, la Lady di Ferro era realista: a tratti radicale, dal momento che non voleva né smantellare né ridurre l’apparato nucleare nazionale perché credeva che le armi atomiche fossero la migliore premessa per la pace globale.
Eppure, i suoi amici Ronald Reagan e Mikhail Gorbaciov si accordarono per limitare i rispettivi arsenali, fino ad arrivare alla distruzione di alcuni ordigni. A metà degli anni Ottanta, Thatcher aveva dichiarato che il nuovo boss del PCUS era un uomo con cui si poteva fare affari, ma una sfiducia di fondo nei confronti di “Gorbi” rimase – l’Iron Lady restava radicata nel Novecento e nello schema dei blocchi: Occidente contro URSS. Caratterialmente, Thatcher era molto dura con se stessa. Soprannominata Maggiethollah o, con disprezzo, “That Woman” o TBW (“That Bloody Woman”) – e nessuna femminista prese le sue difese all’epoca – la numero uno dei conservatori britannici non riconosceva ad altri i meriti che faticosamente si era conquistata. Il concetto andava al di là di una mera questione di giustizia: era far notare all’interlocutore quanto lei fosse stata brava in un certo frangente.
«Non ho avuto alcun colpo di fortuna nella mia vita, mi sono sempre meritata tutto», disse una volta. La sua intransigenza si riversò anche in politica: i doveri prima dei diritti, spiegava. E sì che alle volte Thatcher stupiva in merito alla lungimiranza e all’apertura progressista – alla fine degli anni Sessanta votò per la legalizzazione dell’omosessualità tra adulti consenzienti, nonché la legge sull’aborto – ma il grosso della sua azione politica era volta a governare con una durezza talvolta innecessaria. Difficile dire se fosse pragmatica: lo era se si faceva come voleva lei; il che – al di là del fatto che è il leader che prende le decisioni – non è buona cosa nel lungo termine. Quando venne eletta alla testa dei conservatori nel 1975 succedendo a Edward Heath, pochi nel partito credevano che sarebbe durata. Presto, l’intransigenza thatcheriana si mischiò alla sua caparbietà. Tuttavia, il fatto di prendere decisioni in solitudine non deve essere confuso con l’arroganza.
Due elementi coesistevano in Thatcher: imparare e studiare. Come ricorda John Campbell (The Iron Lady), la signora riconobbe che avrebbe dovuto istruirsi in termini di pratica politica. Lavoratrice indefessa, imponeva ai suoi collaboratori i ritmi frenetici auto-imposti e imposti agli altri. Thatcher traslava in pratica ciò che predicava in politica economica: concorrenza, rigore, efficienza. «Essere Primo Ministro è un lavoro solitario. Deve esserlo: non si può essere governati dalla folla», scrisse in Downing Street Years. «Presenzialista e workaholic, sempre sul pezzo, informata, perfezionista fino al tormento, aggressiva e caparbia […]. La sua etica del lavoro non prevedeva tempo libero […]. Educata, preparata, onesta»; la dipinge così, appena entrata in Parlamento alla fine degli anni Cinquanta Elisabetta Rosaspina. Addirittura, Thatcher portava con sé la sua assistente, Paddi Victor Smith, anche dal parrucchiere, dove continuava i lavori di parlamentare.
«Quattro ore di sonno corrispondevano per lei a una bella dormita», continua Rosaspina nella biografia Mondadori dedicata alla Lady. Tornata a casa, a notte fonda, cominciava «a leggere i faldoni di carta che si era portata dall’ufficio, ponderosi testi di economia liberista, discorsi da revisionare e correggere. Lavorava con pignoleria sui suoi interventi fino alle tre o alle quattro del mattino, li ripuliva come fossero meccanismi di un orologio». Campbell spiega che Thatcher era una donna sola. Era ambiziosa e la durezza verso gli altri era un riflesso della sua intenzione di raggiungere i propri obiettivi. Una volta ammise addirittura la sua più grande debolezza: quella di non avere fiducia in nessuno. Né sul piano privato, né su quello lavorativo, dove si circondava di esperti in materia, ma anche di tanti yes men. «Si circondò di persone delle quali conosceva punti di forza, debolezze e virtù […]; e che poteva quindi dirigere, manipolare, controllare», ricorda Rosaspina.
L’intransigenza come metodo aveva fatto perdere a Thatcher l’empatia umana verso il prossimo. Alle volte, la signora dava la parvenza di non capire apposta le difficoltà delle persone. Diceva di capirle in massa (gli imprenditori, le aziende, i liberi professionisti), ma quando si trattava di capire disagi particolaristici Thatcher mostrava la corda. La maschera della “dura” la indossò più volte. Il prezzo fu che in parte perse lucidità alla fine del suo lungo decennio al vertice dell’esecutivo. Famosa la sua dichiarazione, ripresa anche in Downing Street Years: «C’è la persistente tendenza a considerare i senzatetto come vittime della società borghese, piuttosto che la società borghese vittima dei senzatetto.» Neppure il marito, Dennis Thatcher, era riuscito a farle cambiare idea sulla pena di morte. «Margaret era pervicacemente convinta che la forca potesse rappresentare un deterrente per i criminali. Non le importava di apparire feroce, tantomeno di andare controcorrente» (Rosaspina). Eccessiva intransigenza e solitudine non sono una buona ricetta per la coerenza politica. Forse la Lady lo capì, nel novembre 1990, quando in molti, nel partito, spinsero per le sue dimissioni da Downing Street.
Workaholic, maniaca del controllo, intransigente, ansiosa, apatica e insonne. Insomma, un esempio da non seguire. Inoltre, di liberale non aveva nulla se non i riferimenti ad Hayek quando parlava di politica economica.
In sintesi è stata una spietata conservatrice che ha infangato il nome del liberalismo e del liberismo in tutto il mondo.