Il sistema imperfetto: una lettura—di Mario Dal Co
Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Mario Dal Co.
I dati scientifici della finanza pubblica (Roma, 1890) sono un autentico capolavoro che la scienza deve a quel brillantissimo ingegno di Ugo Mazzola, spentosi, ahimè! troppo innanzi tempo. Ed un capolavoro è anche Il carattere teorico dell’economia finanziaria, pubblicato due anni prima da Antonio De Viti De Marco, libro di un economista tutto rivolto non a repugnare ma ad approfondire la concezione dello Stato come fattore della produzione.
Luigi Einaudi, lettera al prof. Rodolfo Benini, in: Nuovi studi di diritto, economia e politica, settembre-ottobre 1930.
Questa lettura affronta l’ampio panorama offerto dalla raccolta di saggi, che sono rivolti agli studenti ma interessanti anche per altri lettori, raccolta curata da Pieluigi Ciocca e Ignazio Musu. Ho messo la citazione di Einaudi per ricordare come nella tradizione liberale italiana il ruolo dello Stato sia centrale per lo sviluppo e per il buon funzionamento dei mercati. Serve anche a rintuzzare la visione-che in alcuni saggi aleggia- di una contrapposizione tra Stato e mercato, in cui i liberisti vorrebbero che lo Stato soccomba e scompaia.
Tre grandi negatività, all’interno di un successo clamoroso, caratterizzano, secondo i curatori, l’economia di mercato capitalistica, che “è instabile, frantuma la società in vincitori e vinti, ricchi e poveri; ferisce l’ambiente (…) ma come nessun altro modo di produzione è riuscita a moltiplicare la produzione, migliorando il tenore di vita degli esseri umani”.
La prudenza di questa visione neokeynesiana dei curatori non anima tutti gli autori, specie quelli che nel “ripensamento profondo a livello di teoria economia” pensano di trovare non le risposte a quesiti teorici, ma le risposte alla crisi: il libro è bello perché è vario.
Così, il saggio di apertura Beni comuni, beni pubblici. Oltre la dicotomia Stato-mercato di Valeria Termini, si addentra nella crisi fiscale dello Stato, responsabile della timidezza della risposta pubblica, e ne fuoriesce esortando all’impegno morale e civico, per contrastare la corruzione dei diritti di cittadinanza ad opera di un’ottica contrattualistica di mercato. Questo impegno morale e civico collettivo dovrebbe maturare per effetto di un intervento politico in materia di bisogni reali della popolazione, da parte di “alcuni membri della comunità (che) dispongono di visione, informazioni, competenze e conoscenze delle esigenze sociali che li rendono responsabili privilegiati di queste decisioni, in grado di superare la naturale miopia del consumatore individuale razionale”. Nel saggio della Termini questa guida benevola si appresta a stabilire quali beni meritori debbono essere offerti con lungimiranza ai miopi individui, naturalmente a carico delle risorse pubbliche. Confucio e Rawls sono invocati per approntare la risposta alla Grande Trasformazione che, secondo Termini, scuote l’ordine del pianeta (una seconda volta dopo la prima scossa registrata dal sismografo profondo di Polanyi). Oriente e Occidente scoprirebbero di potersi incontrare, escludendo solo la cultura musulmana estrema “il cui scontro drammatico si acuisce di giorno in giorno nei confronti delle civiltà occidentali”. Non potendosi rifiutare, anche Lucrezio viene chiamato a testimoniare che il problema della specie umana è la “miopia di una visione economico-individualistica di costi-benefici monetizzabili subito”.
Mauro Gallegati nel suo saggio Informazione asimmetrica prende le mosse da un’umanità diversa, colta all’uscita dell’Eden dove ha assistito alla proiezione della prima storia d’amore, inizio della vita sentimentale e relazionale sul pianeta. Da quel momento si trova in una condizione che esclude la necessità del coordinatore centrale e, aggiungiamo, della guida benevola. Gallegati usa la ramazza (della teoria) per sgombrare il campo dalle resistenze che, a suo giudizio, il modello economico dominante oppone a tener conto delle interazioni, dei ritardi, dell’apprendimento e dei suoi costi, dell’insussistenza della perfetta razionalità. Ed apre così la strada alle considerazioni più interessanti del suo saggio, quelle relative al ruolo centrale del credito nel sistema di produzione Il credito risponde (fin che può) all’ sigenza di compensare gli scostamenti che gli eccessi di domanda e di offerta, insieme agli errori di previsione e di attuazione, sempre comportano in un sistema economico complesso e integrato, di concorrenza assai imperfetta. Sono questi errori e la possibilità che il credito non possa correggerli, che rendono necessario l’intervento dello Stato. Aggiungiamo noi: intervento non necessariamente benevolo e sicuramente non perfettamente razionale.Esternalità di Ignazio Musu riconduce all’origine marshalliana di quel concetto e affronta in primo luogo le diseconomie esterne, come l’inquinamento prodotto dall’industria che colpisce cittadini privi di relazioni di mercato con le imprese che inquinano. Non ne segue automaticamente che questa “mancanza del mercato” sia correggibile con l’intervento pubblico, poiché le diseconomie esterne dimostrano non solo l’esistenza di un vuoto di mercato, ma anche di un vuoto istituzionale. Occorre una politica che punti a riempire in modo efficace questo vuoto istituzionale, per evitare di ammazzare il mercato in nome della lotta contro le sue imperfezioni. Musu richiama Coase, che per affrontare le diseconomie esterne propone di creare il mercato, laddove esso è mancante. Ad esempio, se un’industria inquina un lago su cui si affaccia un paese a vocazione turistica, per risolvere il problema si può introdurre il Il villaggio potrà , allora, penalizzare l’inquinamento della fabbrica fino a che questa troverà conveniente spostarsi o depurare i propri scarichi. Risultato analogo si otterrebbe attribuendo il diritto di proprietà all’impresa (teorema di Coase). Musu ricorda che il teorema di Coase non si applica al caso in cui le esternalità riguardano un bene comune, perchè non è possibile definire diritti di proprietà in grado di stimolare il mercato. La risposta è venuta con l’introduzione, ispirata alla tassa sull’inquinamento di Pigou, di un mercato oneroso dei diritti di inquinare, in modo che le aziende più efficienti siano quelle che riducono per prime il proprio inquinamento, al fine di contenere le emissioni complessive nei limiti stabiliti. Questa coraggiosa creazione di un mercato internazionale dei diritti di emissione, incontrerà nell’onerosità dei controlli e della applicazione delle sanzioni i suoi principale limiti applicativi.
Non meno interessante è la trattazione di altre forme di esternalità, quelle di rete, quelle della ricerca, quelle connesse ai modelli di consumo. Vogliamo soffermarci ancora sulle considerazioni del saggio di Musu sulla ricerca, dove l’autore esprime un condivisibile scetticismo sull’efficacia dei programmi pubblici di incentivo discrezionale all’innovazione: “l’intervento pubblico nell’innovazione non è peraltro automaticamente destinato ad avere successo (…) se non è fondato su infrastrutture di ricerca adeguate e su un capitale umano preparato, che richiedono lungimiranza strategica, risorse finanziarie consistenti e efficienza organizzativa”.
Il difetto di concorrenza di Giuliano Amato esordisce con un’argomentazione sulla utilità di non aprire alla concorrenza determinate attività: “la sala chirurgica nella quale si moltiplicano le operazioni giornaliere per incassare di più e l’università nella quale si moltiplicano i laureati, sono luoghi da evitare, non dei luoghi di eccellenza”. Un’affermazione che viene ribadita a proposito dei taxi, dove la “concorrenza deve svolgersi entri i confini di una nitida regolazione ad hoc, che definisca in primo luogo il numero e le modalità degli accessi”. Ma a noi pare che Il caso della sala chirurgica stakanovista sia perverso solo se il rimborso è a carico del bilancio pubblico e non dell’utente: quest’ultimo si renderebbe conto subito se il servizio non funziona. Mentre non se ne rendono conto le Regioni italiane che pagano a volte diversi ricoveri nello stesso giorno per lo stesso malato (stakanovismo di carta). Analogamente, l’università che regala i titoli senza preparare, sopravvive solo se vi è il valore legale del titolo di studio e se le tasse universitarie sono sostanzialmente indifferenziate. In altre parole, la concorrenza non si può introdurre se il mercato è regolamentato in modo tale da renderla monca, inefficace o dannosa. Anche l’argomento sui tassisti di Amato è quantomeno incompleto: in Italia il numero delle licenze è sicuramente contingentato, ma questo non produce alcuna garanzia sulla qualità del servizio. E il numero chiuso non impedisce il fiorire di servizi alternativi, come le auto a noleggio o Uber. E’ la regolazione del mercato e quindi del servizio e dei requisiti che devono avere gli esercenti (sicurezza, professionalità, educazione, corretta fiscalità) e la capacità di enforcement che assicurano il buon funzionamento del mercato e impediscono, o quanto meno rendono più oneroso. che l’autorità pubblica venga “catturata”, come dice Amato, dalla corporazione di volta in volta dotata di voce più stentorea.
Il raffronto tra la logica dell’Antitrust americana e quella europea offre ad Amato l’occasione per evidenziare alcune delle differenze più significative tra i due modelli. Ad esempio, quella relativa alle posizioni dominanti. Nella regolazione americana non vi è né l’obbligo a trattare con i concorrenti più deboli, né l’impedimento a praticare prezzi scontati per impedirne l’ingresso. Inoltre, per le concentrazioni, mentre nella valutazione americana prevale il criterio dell’efficienza, nella valutazione europea prevale in genere la considerazione che la riduzione dei pezzi, o l’apertura ai clienti di condizioni finanziarie favorevoli, possa essere tale da impedire l’ingresso o la sopravvivenza di altri concorrenti. Il saggio argomenta la preferenza dell’autore verso il sistema regolatorio europeo, ma il panorama è arricchito da una visione attenta non solo ad un altro angolo visuale, ma anche al punto focale che si sposta e rende necessario considerare le nuove esigenze di tutela della concorrenza che il mondo globalizzato, quello dei giganti della rete, presenta.
Salvatore Rebecchini nel suo Antitrust per la concorrenza dinamica, prende le mosse dalla distinzione tra concorrenza statica, quella in cui l’imprenditore agisce solo sui costi essendo price-taker, e la concorrenza dinamica o schumpeteriana, in cui l’imprenditore inventa nuovi prodotti o processi e quindi introduce innovazione e/o affronta nuovi mercati. Margini di profitto al di sopra del valore medio, sono necessari a questo processo innovativo ma, adottando questa visione, l’Antitrust potrebbe favorire il consolidarsi di posizioni dominanti. Di particolare interesse, in questo ambito, la recente possibilità per l’Antitrust di spingere verso una apertura competitiva dei mercati riservati alle aziende pubbliche, con una estensione della tutela antitrust che può portare alla creazione di mercati nuovi e di nuova competizione innovativa in mercati statici. Significativa, perché se applicata in modo estensivo potrebbe portare ad una apertura alla competizione di estese “riserve” prive di giustificazione, la possibilità introdotta dal decreto “Salva Italia” del 2011, dove i provvedimenti della pubbliche amministrazioni che determinano distorsioni della concorrenza sono impugnabili davanti al tribunale amministrativo, qualora l’amministrazione non si adegui al parere dell’Antitrust. Sull’advocacy come attività preventiva che l’Antitrust può svolgere, l’esempio più interessante è l’indagine dell’Antitrust del 2008 sull’assetto societario delle banche. L’indagine indicava fin da allora che i legami azionari e personali fra concorrenti e la scarsa trasparenza rendevano necessario un intervento normativo sulla banche popolari. Non aver ascoltato questa indicazione, quanto tempo ha fatto perdere e quali costi aggiuntivi ha scaricato sulla collettività per il risanamento del sistema bancario, tuttora in corso? Anche in questo caso, sottolinea Rebecchini, si manifestava la volontà dell’Antitrust di promuovere la concorrenza dinamica, nel settore più difficile di intervento, ma anche in quello cruciale per promuovere la crescita e l’innovazione.
Magda Bianco affronta il tema della Caccia a posizioni di rendita, illustrando efficacemente l’estensione delle pratiche volte a limitare la concorrenza e a piegare il funzionamento del mercato, e soprattutto della pubblica amministrazione, a favore di singole imprese, professioni, società controllate dagli enti locali o dallo Stato, settori (banche). Le stime sugli effetti di queste restrizioni sono difficili, ma indicano che il nostro Paese è tra quelli con maggiori restrizioni, con un impatto pari al 12% del pil, contro quasi zero dei paesi del nord Europa. La lobby è la forma con cui si esercita questa pressione per piegare agli interessi di parte la bilancia del regolatore, e il fatto che la lobby non sia riconosciuta e regolata è una delle ragioni dell’enorme diffusione del rent seeking in Italia, per adottare il termine introdotto da Anne Krueger nel 1974. Il saggio di Magda Bianco accenna alla gravità di questa mancanza di regolazione della attività di lobby senza svilupparla oltre: ma essa è particolarmente negativa in questa fase di sviluppo e vale la pena ribadirlo.
Siamo, infatti, in una fase caratterizzata dalla diffusione di innovazioni tecnologiche di cui non si conoscono bene esiti ed impatti e da un contesto internazionale, in cui relazioni istituzionali, accordi politici, progetti internazionali e finanziamenti multilaterali possono aprire o chiudere interi mercati. In questo contesto la lobby svolge un ruolo essenziale e non solo in modo negativo nel rent seeking, ma anche nello scambio di informazioni e nella riduzione dei costi di transazione . Esempi se ne possono fare sia nelle nuove tecnologie, sia nell’energia, sia nelle costruzioni, abbracciando quindi settori maturi e settori di punta. Si pensi all’estrazione della Total nel giacimento Tempa Rossa in Basilicata, che fu al centro delle polemiche in occasione del referendum sulle attività estrattive. Ma le accuse ad un grande operatore come Total erano strumentali: anche un grande operatore internazionale si muove nell’incertezza e deve ponderare le incognite che investimenti di quella portata comportano. Pensare che possano essere realizzati investimenti di quella dimensione senza uno scambio di informazioni tra istituzioni, decisori politici e aziende è irrealistico e dannoso. Non esiste amministrazione pubblica dotata delle informazioni e delle competenze, neppure ricorrendo ai migliori consulenti. A ciò si aggiunga che i consulenti sono fumo negli occhi per l’amministrazione pubblica italiana che da anni espunge ed esorcizza i professionisti come diavoli, in ragione di una pulsione giustizialista e qualunquista che si è radicata nell’opinione pubblica e nei media, e che condiziona la politica. Con il risultato che è sotto gli occhi di tutti, a partire dalla magistratura contabile che pure è parte attiva della caccia alle streghe, che la progettualità della PA è inesistente: i fallimenti nel campo dell’e-government lo testimoniano. Dalla Posta elettronica certificata alla Anagrafe, passando per il Sistema pubblico di identità digitale e finendo alla truffa della Carta di identità elettronica ogni tentativo di centralizzare i servizi digitali ha dimostrano che l’unica lobby efficace era quella degli incumbent che catturavano l’amministrazione, scrivendole i regolamenti o le bozze delle gare. La PA rinuncia al confronto aperto con le imprese, preventivo e pubblico necessario a valutare e definire le scelte di progetto. Teme il confronto pubblico e ricorre per necessità a quello sottobanco. E si chiarisce ancora di più il paradosso, che richiede un intervento normativo esplicito volto a riconoscere le attività di lobby. La lobby, infatti, come rent seeking che restringe o impedisce la concorrenza è sempre più dannosa, ma è sempre più necessaria la lobby nella forma esplicita e regolata che assicura lo scambio di informazioni, la riduzione dei costi di transazione e la valutazione dei rischi imprenditoriali e di quelli di origine politico-burocratica.
Paolo Donzelli analizza i Vuoti di imprenditorialità la cui esistenza dimostra la necessità di avere uno Stato non solo come regolatore o fattore produttivo, come dicevano i liberali classici, ma lo Stato imprenditore di alta quota, secondo la definizione di Braudel in una interpretazione con cui Donzelli vorrebbe salvaguardare una visione liberale. Ma da questa alta quota delle sue nobili origini il concetto rotola per le chine delle politiche industriali e degli interventi per promuovere l’innovazione. Donzelli caldeggia, infatti, uno Stato impegnato nel ruolo di “guida, regia ed il supporto del processo di sviluppo industriale, per la elaborazione di strategie e programmi finalizzati al progresso tecnologico in aree prioritarie”.
A beneficio di chi crede in questo ruolo demiurgico dello Stato ricordo le vicende recenti dei bandi MIUR per le Smart Cities e i Cluster, che dovevano consegnare i risultati per l’Expo di Milano e in molti casi non sono ancora partite, o le lentezze insensate dei processi di spesa dei fondi regionali e statali. Quei fondi e le scelte sottostanti, lungi dal poter indirizzare il processo di investimento, lo inseguono a distanza, con interventi che giungono, se giungono, fuori tempo massimo, quando ormai le tecnologie per cui erano pensati e finalizzati sono già obsolete, quando i bisogni a cui si riferiscono sono cambiati. Se la Bianco ci insegnava a considerare distruttiva di risorse la lobby che cerca rendite, Donzelli non considera invece distruttivo l’impegno che il MIUR ha richiesto a chi (università e aziende) ha lavorato per anni a definire un progetto nel miraggio di un finanziamento che se mai arriverà avrà 6 (sei) anni di ritardo, ovvero quando di smart city non si parla quasi più.
Il saggio di Donzelli naviga a vista nell’oceano tra storia, economia, politica economica, esponendo il lettore al rollio di affermazioni tipo: “L’analisi storica ha evidenziato il ruolo dello Stato nelle guerre mondiali (e nelle successive attività di ricostruzione), nella crescita del mondo occidentale nel suo complesso”…
Iniquità distributive, di Elena Garavaglia, insiste sulla necessità di considerare le iniquità distributive come risultato del funzionamento di un mercato che non si corregge da solo e che è intriso di elementi di potere: “Rispetto agli assetti di impresa, sembra utile ricordare la presenza, nei comitati che dovrebbero valutare la coerenza delle remunerazioni dei super manager, di soggetti nominati da dipartimenti delle risorse umane che sono sotto il controllo dei super manager stessi nonché l’indebolimento, nelle imprese, del potere dei lavoratori”. Per limitare questi abusi Garavaglia richiede “assetti di impresa equi”. Suggeriamo sommessamente, prima di avventurarci sul terreno scivolosissimo dell’impresa etica, di considerare quanto sia nociva nel nostro Paese la scarsa diffusione delle società di capitale quotate, dove gli azionisti hanno la possibilità di far valere i controlli sulle performance dei manager, controlli assai più efficaci di quelli affidati a qualche guida benevola, per evocare una delle maschere iniziali di questa nostra lettura. Molti esempi di distorsioni distributive citati nel saggio della Garavaglia rientrano proprio nella carenza di trasparenza e di competizione, ossia nella imperfezione del mercato non in sé, ma in quanto volutamente distorto da chi ha catturato il regolatore.
Le Instabilità di Pierluigi Ciocca caratterizzano un “sistema (che negli ultimi due secoli) ha moltiplicato la produzione di 80 volte” e sono di tre forme: reali, finanziarie, monetarie (dei prezzi). Il saggio presenta la sequenza che le diverse crisi presentano, pur manifestando una convergenza che può essere modellizzata, ma che non impedisce il sovrapporsi delle cause reali, a quelle finanziarie a quelle monetarie in un processo che si autoalimenta se la politica economica non spezza il circolo vizioso.
Le attese, nella visione di Keynes cui si richiama Ciocca, “sono «fondate su un’evidenza mutevole e inaffidabile», su probabilità di rado calcolabili, su ipotesi spesso convenzionali: «L’essenza della convenzione […] è nell’assumere che lo Stato presente degli affari persisterà indefinitamente, almeno finché non si avranno specifici motivi per aspettarsi un cambiamento […]. Alla precarietà insita nella convenzione si deve in non piccola misura l’insorgere di un problema di inadeguatezza degli investimenti»”. Ciocca manifesta una certa confidenza che le crisi reali e monetarie possano trovare risposta nella politica fiscale e monetaria. Anche se uno dei prerequisiti per questa efficacia, “il bilancio pubblico programmabile e flessibile”, paiono tratti da un libro di testo del secolo scorso. Anche la necessità che la “PA sostenga la domanda con investimenti produttivi socialmente utili” suona come un quartetto di Haydn che esce da uno spartito di Webern: sono scomparse le dissonanze tra obiettivi e strumenti, tra intenti e risultati, tra tempi di deliberazione e tempi di implementazione che caratterizzano “gli investimenti produttivi socialmente utili”. Non ci pare che oggi la politica fiscale sia in grado di affrontare le crisi reali e monetarie. Più convincente la prudenza con cui Ciocca presenta il quadro della crisi finanziaria, da affrontare con strumenti preventivi che si richiamano alle buone regola della finanza: “ratios patrimoniali, limiti all’indebitamento, divieti di determinate operazioni, diversificazione dei rischi, separatezza tra finanza e industria e tipi diversi di intermediari, concorrenza, obblighi informativi,trasparenza”. Se questi strumenti preventivi non bastano, e ciò può accadere, occorre tornare -dice Ciocca-, alla politica monetaria e alla politica fiscale: ma noi torniamo ai nostri dubbi.
La Disoccupazione di Giorgio Rodano viene analizzata nelle sue dinamiche temporali e nella sua variabilità spaziale, da paese a paese. Il mercato del lavoro è pieno di imperfezioni concorrenziali; mentre “la politica monetaria incontra non poche difficoltà per una efficace azione anticongiunturale. Il tutto è complicato dai vincoli statutari a cui è sottoposta la Bce (il cui obiettivo è il controllo dell’inflazione) (…) Non ci si può sorprendere, allora, che le cifre sulla disoccupazione nell’Eurozona siano ancora oggi così mortificanti”. La politica fiscale è stretta invece, soprattutto nel nostro Paese, da una rigidità del bilancio pubblico sia nella sua dimensione quantitativa sia negli aspetti qualitativi (spesa corrente e spesa in conto capitale). Per uscire da questa impasse Rodano auspica, ma forse non è convinto nemmeno lui della probabilità di questo esito, una accettazione di tassi di inflazione più elevati, che avrebbero il pregio di allentare la pressione del debito delle imprese e dello Stato e di aumentare la propensione al consumo.
Giacomo Costa espone i Problemi di crescita in un saggio che prende in considerazione il lungo periodo e la diversità dei paesi nei loro indicatori di reddito pro-capite, speranza di vita e “felicità” (autodichiarata). Se la correlazione tra speranza di vita e reddito pro-capite è molto forte, la felicità invece non segue il reddito pro capite, ma riflette la percezione del proprio status sociale (la propria posizione relativamente agli altri). Il saggio affronta il tema di come si è sfuggiti alla trappola malthusiana che manteneva in stato di stagnazione le economie fino alla rivoluzione industriale: due fatti concorrono a spiegarlo. Prima, la crescita della produttività dovuta alla meccanizzazione, che caratterizza il secolo della rivoluzione industriale (1760-1860) porta ad un aumento del reddito pro-capite e della popolazione, poi la caduta del tasso di natalità produce la fuoriuscita dal modello di sussistenza malthusiano. A questo punto la spiegazione di Costa è carente di qualche passaggio, ed emerge un po’ dal cilindro che l’industrializzazione accelerata dei paesi inseguitori (Stati Uniti, Francia, Germania…) si basa in misura più o meno esplicita sull’innovazione politico-istituzionale diffusa da Napoleone che si riassume in quattro fondamentali politiche: “ i) la creazione di un mercato nazionale mediante l’abolizione dei dazi interni e il miglioramento nei trasporti; ii) l’erezione di un dazio per la protezione dell’industria nascente dalla concorrenza britannica; iii) la creazione o l’incoraggiamento di banche per finanziare gli investimenti; iv) l’istruzione di massa per facilitare l’adozione delle innovazioni tecnologiche”. Il venir meno dello Stato a questi compiti fondamentali individua il “fallimento dello Stato”, con effetti disastrosi sulle capacità di sviluppo della società e dell’economia. Un fallimento che può essere voluto, come quando gruppi di potere si impadroniscono deliberatamente dello Stato non per farlo funzionare , ma per “estrarre” risorse dai cittadini trasformati in sudditi o in schiavi.
Fra Stato e mercato di Pier Angelo Mori esplora il mondo intermedio, ma non tanto quello delle onlus, quanto quello delle cooperative di utenti. A suo modo di vedere, queste forme societarie superano le difficoltà che le privatizzazioni hanno manifestato negli anni recenti, spingendo ad un sostanziale rallentamento di questo processo. Infatti, “se sono gli stessi utenti che gestiscono il servizio, viene meno la motivazione di base delle distorsioni tariffarie, cioè l’obiettivo del profitto”. Mori sostiene che il fallimento della regolazione è alla base della crisi di credibilità delle privatizzazioni. Ma non è sempre vero che la regolazione non funziona. Ne abbiamo un esempio in Italia, che per la verità non viene valorizzato nel nostro Paese quanto viene citato all’estero: la privatizzazione dell’Enel. Tutte le difficoltà indicate da Mori: controllo delle tariffe, trasparenza del servizio, standard qualitativi, controllo sull’inquinamento e, last but not least, occupazione e redditività, dimostrano che l’Enel guidata nel processo di privatizzazione da Franco Tatò e l’Autorità (AEEG) che vigilava sull’attuazione della privatizzazione, sulle tariffe e sugli standard di servizio e di inquinamento, guidata da Pippo Ranci, ottennero il risultato di un mercato più efficiente. Meno costoso, aperto, con standard di servizio e un livello di trasparenza e di risposta al cliente incomparabilmente superiori a quelli dell’Enel monopolista posseduta al 100% dallo Stato. Quell’esperienza ha dimostrato che una privatizzazione gigantesca, come quella del servizio elettrico, può essere fatta con successo se il regolatore è competente, attivo, indipendente, in una parola non catturato dal regolato. Mori porta alcuni esempi a favore della sua tesi che i consumatori associati risolvono le criticità della regolazione, ma altri potrebbero essere portati, dove consorzi di produttori sono falliti proprio per la loro incapacità di perseguire, non dico il profitto, ma una efficiente gestione dei servizi che i produttori affidavano al Consorzio stesso. Mori intravede i limiti della gestione cooperativistica, ad esempio nella necessità di disporre di capitale rilevante o di essere gestite con una effettiva partecipazione dei soci, ma trova che i rimedi possono ovviare a queste difficoltà e sportivamente invoca una partecipazione dei cittadini alla partita a tre tra “Stato, mercato ed enti democratici intermedi”.
Ruggero Paladini chiude la raccolta di saggi con un excursus sui Fallimenti dell’intervento pubblico. L’autore richiama le ragioni delle rivoluzioni conservatrici degli anni ’80, allorquando, aggiungiamo noi, il Regno Unito andò oltre l’economia mineraria del Labour e fece uscire di nuovo il Times dopo che il conflitto contro l’adozione di nuove tecnologie di stampa lo aveva bloccato per un anno. Richiama la crescita del prelievo fiscale, l’impatto negativo che può avere, anche sugli investimenti, ed uno particolarmente rilevante nel nostro paese, afflitto da una eccessiva dipendenza dal finanziamento bancario rispetto al finanziamento tramite equity: “Non si può escludere che la preferenza per il finanziamento a debito che l’imposta sul reddito societario determina abbia costituito un freno alla crescita delle imprese, soprattutto dove le condizioni del credito sono meno favorevoli”. Paladini nutre riserve sulla capacità delle teorie public choice di spiegare la grande variabilità dei comportamenti dell’agente pubblico nei diversi paesi, ad esempio tra nord Europa ed Europa mediterranea, e preferisce una integrazione tra teoria economica e analisi storica, come proposta da Acemoglu e Robinson (Why Nations Fail…), già richiamati nel precedente saggio. le conclusioni di Paladini più chiare e meglio argomentate: la spesa pubblica italiana al netto di interessi e pensioni è tra le più basse, e forse tra le più inefficienti. Concorrono all’inefficienza la distribuzione dei dipendenti pubblici, la loro preparazione, la loro scarsa attenzione verso il cittadino-cliente e la loro irresponsabilità verso i vertici. Infine, la stretta sui finanziamenti alla ricerca e alle università, iniziata prima ancora della crisi finanziaria del 2008, porta il paese ad avere scarsa capacità innovativa. Ma c’è di più -aggiungiamo noi-: lo scarso investimento nel settore dell’educazione a tutti i livelli è forse oggi la più grave carenza dello Stato. Essa ha ricadute negative sulla partecipazione delle donne, sulla qualità della forza lavoro, sulla capacità innovativa, sulla modernizzazione della PA e perfino sul quel senso civico che hanno evocato diversi saggi, esaminati criticamente in questa nostra lettura.
Pierluigi Ciocca e Ignazio Musu (curatori), Il sistema imperfetto. Difetti del mercato, risposte dello Stato, LUISS University Press, 2016, 24 euro.
Philip Leifeld, Volker Schneider, Information Exchange in Policy Networks, American Journal of Political Science, Vol. 56, No. 3, July 2012.