Siamo fatti per cose grandi e fallibili
Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Sergio Morisoli.
Questo articolo è stato precedentemente apparso su Il Corriere del Ticino del 22 gennaio 2021.
Perché non dovremmo sperare di tornare come prima del coronavirus? Dall’anno scorso continuiamo a sentire e leggere invocazioni e prediche, dai politici importanti alle autorità religiose, dagli scienziati ai media che contano, che vivevamo in modo sbagliato. Alcuni si spingono a dire che la COVID-19 sarebbe un’opportunità per cambiare e abbandonare il modo di vivere dei tempi che hanno preceduto la pandemia; e assumere un nuovo stile di vita. Dissento e sono anche un po’ stufo di questo ragionare.
Primo, perché non ci dicono mai, a parte teorie astratte pensate a tavolino, come concretamente dovremmo vivere per essere felici senza che un «grande fratello» di turno ce lo imponga. Secondo, non ci dicono perché non dovremmo sperare di riappropriarci delle libertà che avevamo conquistato e conosciuto prima? Perché non dovremmo sperare di muoverci, comprare, consumare, divertirci, incontrarci, vivere e morire come prima? Ci dicono perché era troppo, era una libertà esagerata, era consumismo. Io dico, e allora? Troppo rispetto a cosa? Esagerato rispetto a cosa? Lo stare rinchiusi in casa, non poter andare al bar, non poter incontrare gli anziani, non poter girare di notte a fare casino, non poter fare sport, shopping, non poter andare in massa da qualche parte, e tutte le altre privazioni che stiamo conoscendo; ci stanno rendendo migliori, e quello che stiamo vivendo sarebbero le premesse o l’incubatore per una società migliore? Le premesse per desiderare meno di quanto avevamo prima? È lo scontro epocale tra la verità o la bontà «del volere di meno» contrapposta alla menzogna o al male «del volere di più?».
Il ragionamento che dovremmo ridurre i desideri, calmarci nei consumi, per sognare una decrescita felice è, oltre che ideologico, disumano. È disumano perché è «altro» rispetto la realtà e alle capacità e alle doti che abbiamo per viverci dentro. È una visione innaturale, artificiale, di un mondo progettato a tavolino e costruito con gli esperti. Invece, siamo fatti per cose grandi, non per vivacchiare pilotati da sensori e aggeggi elettronici. Siamo fatti per osare, rischiare e sbagliare; non per trattenerci, securizzarci e essere infallibili. Ciò significa che il punto a cui eravamo giunti prima della COVID-19: il benessere diffuso tra i cittadini, la prosperità per i nostri Paesi e un equilibrio di vita civile per tutti; sono stati possibili solo perché potevamo liberamente perseguire i nostri singoli desideri, anche in nostri piccoli o grandi egoismi, potevamo prendere la rincorsa e buttarci in avventure e progetti con entusiasmo e perfino leccarci le ferite se fallivamo con la nostra esuberanza. Certo, le disuguaglianze non sono mancate, le ingiustizie nemmeno, il dolore pure.
Ma è umana e razionale l’illusione di perseguire un sistema talmente perfetto che tolga tutto ciò, senza poi alla fine annientare ciò che l’uomo è? Una ripartenza piatta, con una comunità organizzata in una terapeutocrazia, cioè governata da scienziati infallibili e da burocrati esemplari che agiscono per il mio bene, non mi attira. Anzi mi terrorizza. Ben vengano le colonne lunghissime di auto clacsonanti fuori dai McDonald’s quando il virus se ne sarà andato!