Si stava meglio quando si stava peggio?
Così come non esistono più le mezze stagioni, allo stesso modo si stava meglio quando si stava peggio. A forza di ripeterlo, credo si cominci davvero a rimpiangere i “bei” tempi andati. D’altronde, parlare di decrescita vuol dire “tornare indietro”: ritrovarsi a livelli di Pil ormai superati da tempo, quando non ci si scambiava email con il telefonino e i ragazzini non stavano incollati per ore sul divano a giocare con la playstation. In tempi di “crisi”, poi, viene quasi spontaneo rifugiarsi in un “altrove”.
D’altro canto, non si può nemmeno essere dei semplici positivisti, fiduciosi nelle magnifiche sorti e progressive dell’umanità. La storia non conduce verso un fine ben preciso e il “progresso” non per forza deve essere giudicato entusiasticamente. Ma come misurare la felicità? Molti economisti sono alle prese con nuovi indici, a loro dire, maggiormente rappresentativi del livello di benessere presente nella società. Il Pil sarebbe destinato ad andare in soffitta. Pur essendo una misura incompleta, il Pil rappresenta ugualmente uno strumento migliore dei suoi possibili sostituti. Se la modernità non piace, occorre trovare un indice che dia sostegno alle proprie tesi. Sembra proprio che le cose stiano prendendo questa piega.
Proporrei un’altra via. Invece che assoldare premi Nobel per produrre nuove misurazioni, basterebbe guardare qualche minuto di questo documentario: Las Hurdes, Tierra Sin Pan. Si tratta di una delle prime opere di Luis Buñuel, regista iconoclasta che in questo documentario ha fotografato le difficili condizioni di vita di una comarca dell’Estramadura. Correva l’anno 1932, la Spagna aveva da poco varato la propria costituzione repubblicana e di lì a qualche anno sarebbe caduta in una guerra civile che avrebbe prodotto il lungo “regno” di Francisco Franco.
Il documentario, in generale e per definizione, ha la peculiarità di presentare momenti storici ben precisi. Naturalmente, anche la realtà può essere manipolata, ma non è questo il caso. Senza perdersi in disquisizioni sulla qualità dell’opera, il documentario descrive “una delle regioni più povere e arretrate della Spagna, abitata da gente che la miseria, le malattie (malaria, cretinismo), gli incesti hanno ridotto a larve subumane. […] Proibito dal governo repubblicano perché disonorava la Spagna e denigrava gli spagnoli, ebbe una colonna sonora soltanto nel 1937 quando, acquistato da Pierre Braumberger, fu distribuito in Francia” (Fonte: “Il Morandini”).
Premesso che non si può partire da una situazione così particolare come questa per farne un caso generale, qualche considerazione però ce la possiamo concedere. Che la Spagna ora non se la passi benissimo e che certe aree, al proprio interno, stiano peggio di altre è un fatto. Dal 1932 a oggi, però, tante cose sono cambiate. La qualità della vita, senza dubbio, è migliorata. Nonostante una storia politica assai travagliata, tra un regime autoritario e una complessa transizione alla democrazia, il paese non ha conosciuto progetti totalitari in ambito politico, sociale ed economico. Pur avendo subito una dittatura, una pianificazione di stampo sovietico o nazionalsocialista non ha toccato la Spagna. Con la caduta del Caudillo, il paese ha visto una forte crescita economica, all’insegna di una libertà di mercato di stampo occidentale.
Più che il Pil o altri indici di misurazione, un documentario può aprire gli occhi sulle condizioni di vita di ieri e di oggi. Stiamo all’aria aperta, in mezzo alla natura, mangiamo cibi sani… allora perchè non viviamo per più di trent’anni? Era più o meno questo il contenuto di una striscia del fumetto B.C. (Before Christ). La serie si basava sulla vita di alcuni cavernicoli. Certo, trattasi di paradosso, ma il mito del buon selvaggio forse non è stato ancora superato. Un po’ come l’idealizzazione del mondo contadino e di un auspicato “ritorno alla terra”. La contrapposizione fra una vita “naturale” e una “artificiale” è da sempre il conflitto fra la campagna e la città. Strapaese e stracittà.
L’Olmi dell’Albero degli zoccoli è stato il cantore di questo mondo contadino, idealizzato e rimpianto. Non è un caso che uno dei suoi ultimi documentari si intitoli Terra madre. E’ questo altrove che affascina il nostro tempo. Il vagheggiamento di una vita naturale e felice, lontana dagli eccessi delle società capitaliste. D’altronde, nessuno vieta che le persone compiano le proprie scelte di vita. Un ritorno spontaneo ad altre attività può tranquillamente essere proposto, ci mancherebbe. Se oggi viviamo in questo mondo non è tanto per qualche piano preordinato, ma perchè questo è il prodotto della storia (cioè il prodotto delle scelte degli individui). Non sarà il migliore dei mondi possibili. Meglio sicuramente di tanti progetti che ci voglio imporre dall’alto. E’ come se dopo il 1989, i critici del capitalismo avessero constatato che le alternative proposte erano peggiori del male che volevano combattere. Alcuni si sono accontentati delle socialdemocrazie nelle quali viviamo, altri si sono dovuti reinventare un pensiero, un apparato di idee che apparisse nuovo rispetto a tutto quanto prodotto nel passato, e che avesse la parvenza di un pensiero post-ideologico. Non deve meravigliare che tale fenomeno sia trasversale (gli anti-moderni sono sempre esistiti, sia a destra che a sinistra) e sia formalmente slegato da riferimenti diretti a ideologie risultate sconfitte. La sua legittimità viene trova nella “insostenibilità” del presente sistema economico. La decrescita non è altro che una nuova forma di pianificazione, adattata ai nostri tempi. Che poi ce la vogliano presentare anche come “felice” fa parte dell’armamentario retorico che caratterizza il conflito fra idee divergenti. Da una parte la “decrescita felice”, dall’altra gli “eccessi del mercato”. Saremo un po’ libertini, ma noi preferiamo questi “eccessi”.
Essendo nato “nell’altro mondo”, quello prima del ’40, sento molto questi contrasti e tutte le banalità tipo “la decrescita felice” che, come lei dice,sentiamo ripetere nei blog, giornali ed ogni dove.
Ricordo i nonni che raccontavano che per lavarsi gli occhi al mattino dovevano dare un colpetto nel catino per rompere…..la sottile lastra di ghiaccio che si era formata nella notte, oppure gli oltre quattro Km, per andare e tornare dalla scuola elementare, scarpinando, senza “scuolabus”, ne mensa scolastica, che mi sono fatto per cinque anni, con la pioggia o sotto il sole…..ed anche sotto un paio di mitragliamenti aerei !
La mia risposta negli anni è diventata “responsablità individuale” che quasi nessuno insegna, coltiva o vuole applicare, indulgendo nei “problemi a monte” a “valle”, sempre comunque “altrove” , in famiglia, scuola ed istituzioni.
Curiosamente proprio ieri in un blog ricordavo che la Spagna, seppure immersa in un mare di problemi, proprio grazie al tanto esacrato Franco, si ritrova almeno unita intorno ad un re/capo di stato , stimato e riconosciuto da tutti, mentre noi con tutto il progressismo ci troviamo dagli anni ’70 impantanati in contrasti che sembrano insanabili.
Paradossi della storia.
Pier
“gli anti-moderni sono sempre esistiti, sia a destra che a sinistra”
Virgilio nelle sue Bucoliche faceva più o meno la stessa operazione mediatica-poetica di Olmi, dipingendo un passato più bello, più semplice della caotica e gigantesca Urbe romana. Danze e musica, giochi d’amore e contemplazione della natura tutto il dì.
C’è quindi un richiamo poetico che l’idea di “età dell’Oro”, di “Arcadia”, o anche più banalmente del paesello contadino italiano idealizzato, esercita sulle persone di tutti i tempi. Ed è, a mio parere, un richiamo positivo che riconduce all’essenza dell’uomo, che è pur sempre un essere duale fatto di carne (animale appartenente ad un sistema naturale più grande), e spirito che si alimenta di emozioni e sogni.
Certo per passare dalla rappresentazione poetica, alla pretesa applicazione di politiche economiche di decrescita dal dubbio effetto benefico, ci vuole una notevole dose di irrazionale autodistruttività. Virgilio non racconta delle malattie e delle carestie, non dice come la grecità ateniese vivesse del lavoro di schiavi, omette che l’arte rimaneva incastrata tra piccole elites.
Io preferisco una via di mezzo: rilassarmi felicemente tra i campi assolati, con in grembo il mio notebook interconnesso al mondo (=infrastrutture, ricerca tecnologica) ed un buon libro tascabile del mio autore inglese preferito (=economie di scala, globalizzazione) da leggere in tranquillità. D’altronde se non ti piace correre, rallenta il passo, non pretendere che sia il mondo attorno a te a fermarsi!
A che servono beni e servizi se non siamo in grado di apprezzarli?
Che la depressione e il suicidio siano malattie caratteristiche delle società sviluppate occidentali e siano in aumento è dovuto ad una allucinazione collettiva?
E se questa incapacità di apprezzare questa obbiettiva crescita di beni e servizi sia strettamente legata al modello di sviluppo socio-economico che produce i beni e sevizi stessi?
Vale la pena almeno porsi queste domande? Se si fosse almeno d’accordo su questo, senza opposte ideologie ma con un pò di buon senso, già sarebbe un gran passo in avanti
Se fosse veramente così, allora non si spiegherebbe perchè negli Stati scandinavi (dove vige un sistema di welfare molto diffuso) il tasso di suicidi sia fra i più elevati. Se poi, un giorno, dovessimo scoprire che in alcune società primitive il tasso di suicidi si attestava intorno allo zero, cosa dovremmo dedurne? Dovremmo rimpiangere le tribù di cacciatori-raccoglitori?
allora dovremmo accettare il benessere a fronte del malessere psicologico? (ci metterei psicofisico)
E’ compito di classi dirigenti serie porsi il problema di superare questo apparente antagonismo