Si fa presto a dire “unbundling”—di Elisabetta Bourla e Michele Governatori
I tanti cortocircuiti tra mercato elettrico e gestione regolata delle reti
Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Elisabetta Bourla e Michele Governatori.
Se parli con un ingegnere, ti dice che un sistema elettrico è un insieme integrato: centrali di produzione, cavi di trasmissione, punti di consumo.
Il “dispacciamento” (parola magica e importante nel gergo dell’energia elettrica) è l’esercizio integrato di questo sistema, perlomeno di quello ad alta tensione, ed è affidato al gestore della rete (Terna in Italia). Un esercizio che include ordini alle centrali elettriche, inviati anche attraverso apparati di telecontrollo ed eseguiti automaticamente dalle macchine. Se sei nella plancia di una centrale quando arriva un comando di Terna, puoi sentire una serie di avvisi elettronici che mettono in guardia lo staff dall’imminente cambio di assetto dei generatori.
Ma in termini di regolamentazione e di scambi economici, un sistema elettrico liberalizzato non è altrettanto integrato. Anzi è forzosamente diviso tra le attività affidate al mercato (come la produzione di energia) e quelle regolate e in monopolio legale (come la trasmissione in alta tensione e la distribuzione locale).
I perimetri sono però in qualche caso porosi, e l’evoluzione del contesto di mercato e tecnologico può renderli incerti come confini tracciati sulla sabbia.
Un esempio: la generazione elettrica diffusa. Alle grandi centrali si affiancano, in parte spiazzandole, centrali più piccole, tipicamente da fonti rinnovabili, talvolta gestite dagli stessi consumatori di energia e collegate a reti a bassa tensione in qualche caso autogestite. Questo modifica i punti di confine tra produzione, rete e consumo.
O anche: i gestori di reti stanno installando batterie in grado di fronteggiare l’intermittenza e imprevedibilità delle fonti rinnovabili. In prospettiva perfino i clienti finali potrebbero essere responsabilizzati in modo da ridurre o interrompere i propri prelievi sulla base delle disponibilità elettriche del momento, magari dotandosi anche loro di accumulatori o di sistemi di limitazione automatica del consumo.
In questo contesto è sempre più difficile capire dove finisce la rete (attività regolata e in monopolio, pagata in tariffa sulla base degli investimenti necessari) e dove inizia la produzione elettrica. Un’area grigia emblematica sono proprio le batterie, delle quali in Italia sviluppo e gestione sono affidate a operatori della trasmissione e distribuzione, mentre a livello mondiale le esperienze del loro utilizzo derivano perlopiù da investimenti degli operatori di mercato. E la scelta italiana comporta problemi, visto che le batterie somigliano per molti versi a piccole centrali flessibili con capacità di accumulo: possono prelevare e restituire energia e possono contribuire a stabilizzare la rete in modo simile a centrali elettriche modulanti. Queste ultime vendono i servizi in concorrenza in un mercato dove il gestore di rete è arbitro e unico acquirente e, se dispone di batterie, diventa anche fornitore in grado di modificare il prezzo di offerta, con un cortocircuito competitivo evidentemente grave.
Cosa sono allora le batterie? Rete o generazione elettrica? È giusto che siano gestite come attività regolata in monopolio pagata in tariffa? Su questo perfino l’associazione degli operatori europei della trasmissione elettrica (ENTSO-E) ha dei dubbi, mentre sono fermamente contrari – non stupisce – i generatori elettrici (Eurelectric). La stessa Autorità italiana per l’energia ha segnalato al Governo e al Parlamento problemi di incompatibilità con il modello di separazione societaria e di controllo (chiamato in gergo unbundling) previsto dalle norme europee. E un recente documento del dipartimento dell’energia del Governo americano consiglia l’inserimento di batterie nel sistema elettrico senza sussidi rispetto alle attività di mercato.
Altra conseguenza dell’evoluzione dello scenario, come ha sintetizzato Alberto Biancardi del collegio dell’Autorità per l’Energia, è la crescente rilevanza della capacità elettrica rispetto ai flussi di energia. Sono cioè sempre più importanti le transazioni riguardo alla potenza disponibile, transazioni che c’è l’opportunità di ricondurre ad appositi mercati della capacità.
I quali però sollevano preoccupazioni della Commissione UE che teme forme mascherate di aiuti di Stato e ulteriore segmentazione dei mercati nazionali, visto che ogni Paese si sta organizzando a modo suo.
E in effetti il problema è che difficilmente i mercati, anche dell’energia, esprimono in modo spontaneo una domanda di una risorsa di lungo termine com’è necessariamente la capacità. E quindi, anche quando li si chiama mercati, i meccanismi per approvvigionare queste risorse presuppongono che qualcuno faccia la parte della “domanda lungimirante”, decida cioè al posto dei consumatori quanta risorsa di lungo periodo serve. Il che nei mercati dell’energia si traduce in un intervento, di nuovo, dei gestori di rete, che sono chiamati a ingerirsi su decisioni d’investimento in produzione elettrica. Ed ecco un altro cortocircuito: il gestore di rete potrebbe avere interesse a chiedere più o meno capacità di generazione? Non facile dirlo, ma di sicuro la scelta non è indifferente al suo business: se c’è tanta capacità di generazione di riserva, la rete è più sicura. D’altra parte, se ce n’è poca, potrebbero servire più investimenti (remunerati) in rete per mantenerne la sicurezza.
Del resto anche rispetto ai mercati dei servizi di dispacciamento, dove il gestore di rete compra disponibilità delle centrali elettriche a modificare in brevissimo tempo la produzione, ci sono situazioni in cui il gestore può attivare cortocircuiti di mercato. Per esempio può staccare temporaneamente degli impianti dalla rete, remunerandoli o meno. Oppure può ottenere che alcuni impianti (i cosiddetti “impianti essenziali”) siano tenuti a offrire prestazioni con una logica non di mercato a fronte di rimborsi pattuiti anche sulla base di accordi bilaterali non pubblici (così nel caso italiano). Un fenomeno che di fatto è assimilabile a un capacity payment, perdipiù in forma più opaca di quella che preoccupa l’UE.
Insomma sempre più, nel mercato elettrico, dove tocchi rischi di fare cortocircuito tra reti e produzione. E in questi casi l’unbundling, la separazione tra i due, salta, attraversato da un arco voltaico di commistione.
Con il rischio che a folgorarsi sia l’efficacia del modello liberalizzato nel fornire segnali di mercato trasparenti.