Senza proprietà non c’è diritto all’acqua. Il caso del Botswana
A pochi mesi dal referendum sull’acqua pare opportuno sgombrare nuovamente il campo dagli equivoci. Le questioni tecniche sono già state chiarite a sufficienza da Carlo Stagnaro e Luigi Ceffalo.
Ciò che, tuttavia, sembra ancora non essere chiaro ai più è che l’idea di acqua come “bene comune” non è per nulla in conflitto con la proprietà privata e con il mercato. Certo, se si dà ascolto ad un abile sofista qual è il professor Mattei, ne verrà fuori che il tentativo del governo del Botswana di espropriare le terre dei boscimani per destinarle allo sfruttamento dei diamanti rientra precisamente nel disegno turbocapitalista che affama i deboli e nutre i potenti. Nei suoi numerosi articoli su Il Manifesto, il professore, per veicolare l’idea dello Stato come braccio armato del liberismo, ha più volte fatto l’esempio delle enclosures inglesi e degli espropri generalizzati che la Corona inglese attuò per efficientare la destinazione agricola delle terre. Anche qui, siamo del tutto fuori strada. La difesa dell’homesteading è tra i principali punti di riferimento di un liberalismo genuino, come abbiamo già scritto qui.
Prendiamo il caso del Botswana, che si presta facilmente a strumentalizzazioni terzomondiste. Alla stregua di pigmei e ottentotti, i boscimani o san sono una popolazione indigena che, a seguito delle migrazioni delle genti bantu, vennero pian piano confinati nel Sud dell’Africa, in particolar modo nel deserto del Kalahari. Alla fine degli anni ’90 le autorità di Gaborone decisero di trasferire in massa la popolazione per consentire lo sfruttamento dei giacimenti diamantiferi, una delle principali risorse del paese. Tale trasferimento fu considerato illegale dalla Corte Suprema nel 2006. Il Botswana, infatti, fin dai tempi della sua indipendenza è stato uno dei paesi maggiormente rispettosi delle istituzioni consuetudinarie locali, le quali, diversamente da quanto fece la maggioranza degli Stati africani, furono adeguatamente preservate. Da quel momento vige un dualismo giuridico e giudiziale tale per cui il sistema della common law inglese ha vigore insieme con il sistema di giustizia tradizionale, basato sulle consuetudini degli tswana. Il 70% delle terre sono classificate come tribali e amministrate localmente secondo il diritto tradizionale. Ai fini di sfruttamento del suolo, come ricorda Marco Guadagni nel volume Il diritto africano, nel 1968 fu emanato il Tribal Land Act che rimosse parzialmente il sistema di assegnazione delle terre secondo la gerarchia sociale del diritto tribale, sostituendolo con commissioni fondiarie composte da membri delle comunità e del governo. Resta il fatto che l’ordinamento del Botswana ha sempre privilegiato il consenso e l’inclusione, quale premessa per una decisione. Come spiega questo paper della George Mason University, ciò non ha impedito che il paese garantisse un buon grado di libertà economica, attestandosi su elevati livelli di crescita, fino ad uscire dalla classifica dei paesi sottosviluppati nel 1994.
Tornando ai boscimani, essi hanno un forte rispetto della proprietà fondiaria (maggiore di quella italiana!!), tanto che il cacciatore rinuncia ad inseguire la preda colpita a morte, se questa si sposta in un’area aliena. Essi sanno distinguere la proprietà dello specchio d’acqua appartenente ad un gruppo, rispetto al diritto d’accesso alla fonte appartenente ad un altro gruppo.
Il governo, con atteggiamento autoritario, ha più volte negato alle popolazioni nomadi di far ritorno sulla loro terra, in particolare vietando la caccia (simili ripercussioni dovute alla messa al bando della caccia furono provocate anche in Costa d’Avorio), concedendo invece ad altre strutture di insediarsi nella riserva del Kalahari. In particolare, l’accesso all’acqua presso la sorgente di Mothelo è stato più volte impedito dall’esecutivo, ma garantito dalla Corte Suprema il 27 gennaio scorso, la quale ha ripristinato il diritto di proprietà dei boscimani su quelle terre, compreso il diritto di scavare nuovi pozzi per l’approvvigionamento idrico.
Ancora una volta è stato ribadito un principio di buon senso: non c’è diritto all’acqua senza tutela dei diritti di proprietà.
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P.S.: La storia ricorda in tutto e per tutto quella raccontata in questo splendido paper da Pascal Salin.
Questo articolo dove vuole arrivare? State per caso cercando una giustificazione alla privatizzazione dell’acqua? Mi sembra veramente arrogante il vostro presupposto di definire un diritto di proprietà l’unica possibilità per accedere ad un bene che non è nato da alcun diritto ma bensì è arrivato a noi per natura.
Molto interessante questo blog, chicago boys.
@Alessio
Caro Alessio, il significato sta tutto nel titolo e nel finale. Senza diritti di proprietà non si va da nessuna parte. E non importa che essa sia di gruppo o individuale. L’ordine spontaneo crea e disfa senza un preciso disegno razionale.Per il resto, mi piacerebbe sentire una qualche critica. Lo slogan “l’acqua ci viene dalla natura” è un’aporia. Anche il sole ci viene “dalla natura”, ma (giustamente) lo sfruttiamo per produrre energia. Si sforzi, magari potrebbe uscirle una critica più costruttiva.
Tutto arriva a noi per natura, in un modo o nell’altro. Cosa vuol dire? Che tutto dovrebbe essere pubblico?
La pioggia arriva a noi per natura. L’acqua di rubinetto deve venire captata, filtrata, analizzata, disinfettata, purificata, trasportata e distribuita. Tutte queste cose non sono azioni della natura, ma di uomini il cui lavoro prestato ed i mezzi tecnici impiegati vanno remunerati. Si puó discutere se deve remunerarli il settore pubblico o quello privato, ma certamente non li remunererà la natura.
Il dotto commento sul diritto africano non c’entra nulla con la questione
della gestione dell’acqua. Tornando alla quale, bisogna soppesare vari
aspetti.
Le municipalzizzate sono (possono essere – al nord un po’ meno) rifugio di
clientele, di politici di seconda mano e di loro amici. Gli appalti ai privati dei monopoli non hanno dato esiti molto diversi (dove non c’è concorrenza le regole del mercato vengono imposte con gare predefinite a favore di “capitani coraggiosi”, con protocolli furbeschi e controlli vattelapesca). Le gestioni pubbliche hanno fatto poco per gli impianti e gli acquedotti. Farebbero meglio i privati, privandosi di guadagni a vantaggio di costosi lavori strutturali? Con questo, è evidente che di gestione in concessione si tratta e non di cessione di proprietà. Ma non saprei cosa è meglio. Aggiungiamo che ci sono anche questioni politiche locali delicate: l’acqua che viene dai monti viene fatta pagare meno a certi comuni montani (giusto, non giusto?), oppure, nell’ottica del servizio universale, pagano uguale (cioè il deficit è ripartito) scomode e isolate
borgate e grossi e facili clienti, un po’ come la privatizzazione delle ferrovie che fa gola per la Milano-Napoli e un po’ meno per la Parma-Suzzara. Come la risolviamo?
Caro Andrea, come scritto nel disclaimer che puoi leggere nelle prime due righe, pongo una questione di filosofia del diritto, non una questione tecnica. Mi limito a ribadire che le petizioni di principio come “l’acqua è un bene pubblico”, “l’acqua è il futuro, non svendiamola” e altri simili baggianate non tengono a mente che l’acqua, come qualsiasi altra risorsa scarsa, necessita di una qualche forma proprietaria che la amministri e la sfrutti. In gruppo o individualmente. Per il resto, giro le sue domande, di natura tecnica a Ceffalo e Stagnaro, che sono molto più competenti di me. Mi limito a due considerazioni: nessuno sostiene che il sistema introdotto dal Decreto Ronchi sia la panacea di tutti i mali, ma, come ha riconosciuto anche lei, non di privatizzazione trattasi, ma di affidamento in concessione (come avviene già per le spiagge, ad esempio). Per il resto, credo sia assai meglio avere una gara che non averla. E questo per quanto le gare nel nostro paese siano quelle che siano. Una società privata che deve confrontarsi con gravi perdite d’acqua avrà un incentivo in più all’investimento rispetto ad una classe politica che bada molto di più agli slogan populisti sulla mera pubblicità dell’acqua o all’occupazione dei CdA.
Caro giovanni io credo che tu stia strumentalizzando un po’ troppo questa discussione. Non sono assolutamente convinto della questione “proprietà=diritto” nei confronti di un bene come l’acqua.
Ricordo perfettamente la situazione che si venne a creare in Bolivia all’inizio del III millennio quando la popolazione si vide privatizzare il proprio sistema idrico a favore di una corporate americana a causa dei debiti contratti dal governo boliviano.
Ci furono grandi manifestazioni di tutte le forze politiche, anche opposte, che portano all’uccisione indiscriminata di un ragazzo innocente da parte delle forze esterne di “controllo”.
Dopo giornate di crisi il popolo riuscì a riconquistare il diritto, questa volta si, ad avere acqua potabile senza dover pagare 3/4 del proprio già misero stipendio per utilizzarne questa fonte primaria di sopravvivenza.
La mia paura, e qui torno al discorso principale da te proposto, è che, privatizzando l’acqua pubblica, si arrivi a quel fenomeno conosciuto forse da pochi con il nome di “captive demand”. D’altronde il mercato dei servizi indispensabili è diventato il più importante da qualche anno a questa parte e lo dimostra che l’uomo più ricco del pianeta non è più Bill Gates ma bensì un tal Carlos Slim, magnate delle telecomunicazioni nel centro e sud America con una fetta di mercato del 70%. Alla faccia della libera iniziativa e della competitività del mercato.