19
Mag
2010
Semel in anno, viva Sergio Romano
L’ambasciatore Romano non è quel che si dice un liberista selvaggio. Tutt’altro. Ed è anche immaginabile che il suo marcato antiamericanismo (che sfocia in articoli che sono una mistura, mai prevedibile nelle dosi, di pregiudizi antiUsa e invece solido realismo politico) gli frutti più di un’antipatia fra i lettori di questo blog. Però oggi nella pagina delle lettere del Corriere Romano ha dato prova di grande equilibrio e di saggezza. Una bella lezione sul registro che dovrebbe tenere un quotidiano che voglia veramente essere la voce autorevole della classe dirigente di un Paese.
Rispondendo alla lettera di un lettore che definiva la speculazione “una sorta di giudice saggio delle economie mondiali”, Romano si è distinto dal coro di quelli che giocano con metafore improprio, per seminare panico e nostalgia per lo Stato massimo nei lettori. Ha anzi scritto:
L’«aggressione», di cui l’euro sarebbe vittima, è una di quelle parole tratte dal linguaggio militare di cui la stampa si serve abitualmente quando deve rappresentare una situazione conflittuale dall’esito incerto. Ma non credo che in questo caso sia appropriata. Può darsi che in alcuni mercati finanziari (per esempio a Wall Street) qualcuno abbia visto con piacere la crisi dell’euro e abbia contribuito ad aggravarla diffondendo prognosi infauste. Ma nella sostanza il problema è abbastanza semplice. I mercati finanziari osservano attentamente le aziende e gli Stati, leggono i loro bilanci, cercano di comprendere e valutare le loro strategie per decidere se scommettere sul loro successo o sul loro fallimento. Quando nacque l’euro, alla fine degli anni Novanta, i mercati furono chiamati a giudicare un fenomeno inedito: una moneta usata da una pluralità di Paesi dietro i quali non esisteva tuttavia un governo capace d’imprimere a ciascuno di essi una linea comune di politica economica. Ma hanno letto il Patto di Stabilità con cui i governi dell’eurozona minacciavano fulmini e saette ai Paesi che si fossero distaccati dai sacrosanti principi del Trattato di Maastricht in materia di debito e disavanzo. (…) La situazione è cambiata quando il nuovo governo greco ha rivelato al mondo lo stato disastroso dei suoi conti pubblici e la Germania ha fatto capire che non sarebbe intervenuta a salvare i «fannulloni» del Mediterraneo. È a quel punto che molti hanno deciso di scommettere sul fallimento dell’euro: una scommessa lecita che ha avuto effettivamente il merito, come sostiene Fabrizio Logli, di mettere in evidenza la serietà della crisi e di costringere i membri dell’eurozona a uscire dalla palude delle loro incertezze.
Al netto dei dettagli e del fatto che i governi europei siano effettivamente “usciti dalla palude”, questa risposta di Romano è un esempio di sobrietà. La stessa che, quando si parla di speculazione e mercati, tende tragicamente a mancare dalle pagine dei quotidiani. Incluso quello su cui Sergio Romano scrive.
dite quello che volete voi, ma mi sa tanto di scontro ideologico, dall’una e dall’altra parte.
Da un punto di vista metodologico lo è sicuro, perchè non vedo nessuno di entrambi gli “schieramenti” portare numeri inconfutabili a sostegno della propria tesi.
l’osservazione di marianusc, nella sua semplicità, è estremamente acuta. ne approfitto per uno sfogo un po’ insulso. in realtà, si fronteggiano scuole di pensiero che hanno come pilastri teorie che generalizzano in modo fin troppo astratto. peraltro, aggiungerei che non è vero che la maggior parte dei quotidiani se la sta prendendo con la speculazione: è vero esattamente l’opposto. tutti i media principali ci stanno dicendo che la speculazione ha ragione, che in fondo fa il suo mestiere, e la colpa è degli stati ipertrofici. in italia scrivono il contrario il manifesto e liberazione, qualcuno su il fatto (i postmodernisti non economisti, di solito… tipo Fini, massimo, non gianfranco). i liberisti hanno dalla loro la concretezza delle ricette: bisogna tagliare la spesa pubblica e ridurre le tasse a cominciare dalle aliquote più alte. i keynesiani residui vogliono tagliare gli sprechi e dare la caccia agli evasori. qualcuno di loro azzarda la riduzione delle tasse, ma solo sul lavoro e alle piccole imprese. per i liberisti la speculazione è utile perché mette alla luce del sole i bilanci pubblici. i keynesiani residui odiano la speculazione perché li mette di fronte alla realtà dei conti e li costringe ad un bagno di retorica verbosa e indigeribile. quello che unisce liberisti e keynesiani è il lamento comune: i keynesiani dicono che la crisi conferma che il liberismo è morto, i liberisti dicono che la crisi sta portando i politici ad uccidere lo scarso liberismo ancora esistente. liberisti e keynesiani sono convinti che il capitalismo (quello libero e selvaggio delle praterie) sta morendo, solo che i liberisti lo vorrebbero salvare e i keynesiani vorrebbero terminare il lavoro. ma il mercato non è mai stato tanto vivo. forse il sano conservatorismo sociale a la S. Romano aiuta ad evitare le retoriche contrapposte. forse. ma ormai non sono più sicuro di niente da parecchio tempo. e non invidio chi è più sicuro di me.
Non pensavo che qualcuno di CB riuscisse ancora a leggere il corriere. Incredibile amisci!
@w.v.longhi
Non lo ritengo uno sfogo, ma un’inappuntabile rappresentazione della realtà. Complimenti!