Se sul clima l’Europa ignora i costi marginali—di Angelo Spena
Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Angelo Spena.
Ma lo sanno anche i bambini che più marmellata rubi più diventa probabile che mamma se ne accorga. Nel mondo i fenomeni lineari sono pochi. Nelle nostre Università – finché funzioneranno con libera lucidità – la teoria dei costi marginali applicata ai processi energetici insegna[1] (con tanto di dimostrazioni matematiche, che qui vi risparmio) che migliorando efficienze già elevate si ottengono vantaggi via via più piccoli: che cioè con la stessa spesa intervenire su un sistema più efficiente fa conseguire benefici in quantità minore di quelli ottenibili su un sistema in partenza meno efficiente. Questo vale sia per i consumi che per l’inquinamento, poiché essi crescono o diminuiscono – anche se, appunto, non linearmente – generalmente nello stesso verso.
Se le emissioni di CO2 sono un problema, non è quindi nel continente che andrebbero prioritariamente ancor più contrastate, ha rammentato il presidente di Confindustria Giorgio Squinzi nel suo accorato appello[2] al premier Enrico Letta. Esiste davvero il rischio che l’Europa non capisca? La questione è complessa, e c’è forse un deficit di attenzione e di intelligence dei nostri governanti nei confronti delle dinamiche industriali europee, soprattutto di lungo periodo. D’altra parte in Italia la mancanza di una riflessione di sistema in cui si individuino – e in sede comunitaria si promuovano – gli interessi della nostra economia, le occasioni da cogliere, i pericoli da evitare, ci porta ad accodarci, fino a sottoscrivere sistematicamente da decenni con superficiale ideologismo, impegni per noi insostenibili promossi da Paesi che ne fanno strumento delle loro (sì, le proprie) politiche industriali. Perché dovrebbe essere ormai chiaro quanto spesso in Europa la motivazione ambientale emerga a sostegno di indirizzi e scelte economiche con essa teoricamente convergenti, ma di fatto strumentali a un coacervo di interessi, i maggiori dei quali sostenuti da strategie nazionali.
Certo, promuovere un cambio di paradigma può essere una scommessa epocale, che si può vincere. Ma che si può anche perdere, perché nella moderna – e soprattutto futura – complessità, la concatenazione delle tecnologie per migliorare l’efficienza dei processi mostra sempre più spesso che oltre un certo limite il gioco – se i conti sono fatti con onestà e sono onnicomprensivi – può non valere la candela. E in ogni caso le nuove tecnologie messe a punto in Europa dovrebbero anzitutto essere esportabili nei paesi emergenti, dove invece è già difficile trasferire le tecnologie mature. Ma in quali dei paesi europei investire? In Italia, al posto delle idee sul futuro industriale, sembra esserci il vuoto.
Eppure – pur preso atto che l’industria nucleare e quella delle fonti rinnovabili sono in Europa già ampiamente opzionate da Francia e Germania rispettivamente – i possibili obiettivi di una competitiva industria italiana, dall’impiantistica all’efficienza energetica, dalla cattura della CO2 agli storage, dall’agroalimentare al risanamento territoriale, non mancano;[3] mancano però i prerequisiti per il suo decollo e per il suo sostegno nel tempo e nel mondo: manca una visione per l’accompagnamento normativo, il concerto finanziario pubblico-privato, la spinta a vere liberalizzazioni per la crescita di quei settori, l’attitudine a far rete per l’esportazione di tecnologie con il marchio Italia.
Il punto allora è: l’accanimento dell’Europa nel perseguire miglioramenti marginali nelle emissioni di CO2 partendo da una situazione già anni luce avanti a quella dei paesi Bric o dei Mint, per taluni lungimirante, per altri autolesionistica, nasce davvero solo da velleitarismo? Oppure ci sfugge qualche solida componente strategica, che promuova ad esempio l’industria elettrica (Siemens, basta la parola), chimica (gli isolamenti termici!) e delle rinnovabili in Germania, conditio sine qua non per concedersi un uso egemone del carbone? Oppure che prefiguri il riposizionamento dei grandi player energetici europei in vista delle incombenti guerre mediatico-economica europea sullo shale-gas, e geopolitica planetaria sui prezzi mondiali del carbone e delle terre rare? Oppure ancora, un gigantesco piano Marshall continentale per finanziare l’indifferibile rinnovo (operazione titanica!) del più che vetusto (e pericoloso) parco nucleare francese, la cui esposizione a guasti spaventa la limitrofa e popolosa Germania (quanto e più della Francia), cointeressata a disinnescare quella bomba al suo confine? Si profila del resto già all’orizzonte l’onda lunga di una revanche dell’industria nucleare che, esattamente come anni dopo Chernobil, passata ‘a nuttata, oggi anni dopo Fukushima si propone di riprendere il suo cammino. Il suo asso nella manica? E’ carbon free! Le rinnovabili foglia di fico del nucleare e del carbone, all’ombra della decarbonizzazione: non sarebbe poi una novità.
Ma l’interesse del sistema Italia, qual è? Se scendiamo dal generale al particolare, constatiamo quanto le contrade d’Europa siano diverse. Francia e UK sono orientate ai servizi, Germania e Italia alla manifattura. La Germania è il paese che emette più gas serra. L’Italia è solo terza, dopo il Regno Unito. Francia e Germania promuovono nel mondo le loro imprese nucleari e della gestione dell’energia e, rispettivamente, elettriche e verdi. L’UK punta e scommette sullo shale gas. Le emissioni e l’efficienza energetica dell’edilizia nei paesi del nord riguardano essenzialmente il riscaldamento invernale; in Italia, Spagna e nei paesi del sud (via via che innalzeranno il loro tenore di vita) invece sempre più la produzione di freddo estivo.
E noi? Siamo già un paese con ottimi (forse i migliori, anche se le statistiche vanno prese con cautela) indicatori di intensità energetica e di impronta ecologica. Dovremmo cioè essere tra gli ultimi destinatari di richieste di ulteriori (e, per la teoria dei costi marginali, appunto, costosissimi) sforzi ambientali. Abbiamo già superato (non raggiunto: superato!) il target per le rinnovabili al 2020 sette anni prima (purtroppo, approvvigionandoci con tutti i fondi di magazzino del mondo e senza creare occupazione in casa). Invece continuiamo ad accodarci acriticamente. Stentiamo a voltare pagina. Contempliamo sconsolati, senza prendere decisioni, le devastazioni inferte al sistema energetico italiano dallo scempio fotovoltaico (la Spagna ha già chiesto indietro[4] le eccedenze dei sussidi e ha fissato al 7,5% la massima rendita riconoscibile agli speculatori). Vogliamo davvero, senza accertare prima, e poi tenacemente perseguire, i possibili benefici sull’economia nazionale, caricarci di ulteriori extracosti che ricadranno su già insostenibili bollette? Facciamo molta attenzione prima di scatenare un’altra guerra fratricida per la sopravvivenza in Italia, anzitutto tra famiglie, industria e terziario, e poi in seno al tessuto produttivo – che il mondo ancora ci invidia – tra PMI in sofferenza e industrie energivore, essenziali per il Paese, che rischiano di chiudere. E resistano gli industriali, tutti, alla tentazione di fare lobby per sé. Corroborino l’azione intrapresa da Squinzi facendosi incisivi promotori di una strategia discussa e condivisa in Italia e vantaggiosamente negoziata in Europa dai nostri ministri prima di firmare. Perché un governo degno deve avere una visione. “Incentivi alla decrescita”, ha commentato i prospettati obiettivi comunitari con amaro realismo Corrado Clini.[5] Perché altrimenti, se gli investitori esteri non arrivano, o arrivano, acquistano i nostri brand a prezzi di liquidazione, e poi delocalizzano le manifatture, non stracciamoci le vesti.
- A. Spena, “Fondamenti di energetica”, Cedam, Padova, 1996, pag. 368
- G. Squinzi, “L’approccio unilaterale danneggia la UE”, Il Sole 24 Ore, 17 gennaio 2014
- A. Spena, “Riflessioni per una policy industriale” Editoriale, La Termotecnica, luglio 2013, www.latermotecnica.net
- S. Daley, “Spain makes abrupt U-turn on solar payments”, International New York Times, January 7, 2014
- J. Giliberto, “CO2, l’Europa vuole tagliare le emissioni del 40% entro il 2030”, Il Sole 24 Ore, 17 gennaio 2014