Se l’acqua non merita neanche una stella
La battaglia contro il servizio idrico prosegue, come si evince da questa risoluzione presentata in commissione Ambiente dal Movimento 5 stelle. Può apparire un’iniziativa isolata ma ci sono le avvisaglie di un consenso molto più ampio, e forse addirittura di un voto unanime. E’ bene che tutti sappiano cosa si nasconde dietro le parole.
Quella in corso, è bene precisarlo, è una battaglia contro il servizio idrico perché sostanzialmente le proposte vanno nella direzione di mantenere lo status quo, se non di fare passi da gambero, in un settore che, come gli autori stessi sottolineano nella premessa, ha più bisogno che mai di investimenti.
Cominciamo anche noi con una breve premessa: ricordiamo, brevemente, che nel giugno del 2011 fu indetto un referendum, poi vinto, finalizzato ad abrogare l’articolo 23 bis del decreto Ronchi, che introduceva alcuni elementi di concorrenza nei servizi pubblici locali (inclusa l’acqua). Un secondo quesito riguardava le modalità di determinazione della tariffa, precedentemente regolate da un decreto ministeriale del 1996. In seguito a tale voto la gestione dei servizi idrici non deve più essere messa obbligatoriamente a gara, ed è venuto meno l’obbligo di includere la remunerazione del capitale investito nella tariffa (anche se il punto è più controverso e meno ovvio di quanto appaia).
Su interpretazioni, esiti ed effetti di tale voto, si possono trovare alcune considerazioni qui, qui e qui.
Ma veniamo a noi e alle incongruenze, se non vere e proprie contraddizioni, della proposta, che sarà analizzata di seguito punto per punto. Secondo il Movimento 5 stelle, il governo dovrebbe impegnarsi:
– “a promuovere l’approvazione di una normativa tesa a considerare l’acqua un diritto inviolabile alla stregua di quanto stabilito dall’articolo 2 della Costituzione, riconoscendole la peculiarità di «bene comune» e di diritto umano universale non assoggettabile a meccanismi di mercato”: la premessa della risoluzione dedica una decina di righe e cita almeno tre fonti (Carta europea dell’acqua, Parlamento europeo – ben due volte – e ONU) disquisendo di come l’acqua già oggi sia considerata un diritto universale e un bene comune (ahimè: la teoria economica insegna che, in mancanza di un proprietario, i beni comuni tendono tragicamente a esaurirsi). In realtà, non vi è particolare ragione di considerare l’acqua un commons (almeno nella prospettiva da cui stiamo parlando), né vi è alcun legame automatico tra “bene comune” e “diritto”.
– “ad affermare la proprietà e la gestione pubblica del servizio idrico, il cui esercizio dovrà essere ispirato a criteri di equità, solidarietà e rispetto degli equilibri ecologici”: la proprietà dell’acqua è già oggi, da sempre, pubblica, e mai nessuna legge è intervenuta in proposito. Anche la gestione del servizio pubblico è in forte maggioranza in mano ad aziende pubbliche. Si noti che in premessa si sottolinea che molti dei problemi del servizio idrico oggi sono riconducibili a criticità di carattere gestionale.
– “ad attuare l’esito referendario, seguendo le indicazioni della proposta di legge di iniziativa popolare «Principi per la tutela, il governo e la gestione pubblica delle acque e disposizione per la ripubblicizzazione del servizio idrico integrato», depositata dal Forum italiano dei movimenti dell’acqua nel 2007 relativamente alla ripubblicizzazione del servizio idrico integrato come unica soluzione possibile per dare piena attuazione ai referendum del 2011””: che in seguito al referendum ci sarebbe stato un vuoto o, in alternativa, confusione legislativa, era prevedibile. La stessa Corte costituzionale, al momento di giudicare l’ammissibilità del quesito referendario, aveva dichiarato che dall’abrogazione dell’art. 23 bis conseguiva comunque «l’applicazione immediata nell’ordinamento italiano della normativa comunitaria […] relativa alle regole concorrenziali minime in tema di gara ad evidenza pubblica per l’affidamento della gestione di servizi pubblici di rilevanza economica», tra cui rientrano anche i servizi pubblici locali, di cui fa parte quello idrico. Tuttavia anche la normativa comunitaria in materia è piuttosto carente.
– “ad assumere iniziative normative per riportare, nell’ambito delle competenze del Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, la fissazione dei criteri e del metodo tariffario relativo al servizio idrico, togliendole quindi all’autorità per l’energia elettrica e il gas”; questa proposta è il male. Se, negli ultimi anni, un passo in avanti era stato fatto in merito a tali servizi, era proprio l’affidamento della regolazione all’Autorità per l’Energia elettrica e il gas (AEEG). Infatti, soprattutto nel caso in cui le gestioni sono pubbliche, la presenza di un’autorità di regolazione il più possibile indipendente riduce i conflitti di interessi tra regolatore e impresa regolata e, quindi, il rischio di cattura del regolatore. In secondo luogo, le competenze in materia sono ormai già state affidate all’AEEG, che ha già speso risorse per assumere personale, raccogliere dati e regolare il servizio. Infine, la scelta di affidare la regolazione del servizio a tale autorità è una delle poche decisioni effettivamente prese e attuate negli ultimi anni in tale settore, quindi una marcia indietro andrebbe a minare la credibilità del governo in materia, in un momento di massima confusione.
– “ad assumere le iniziative di competenza per costruire un nuovo metodo tariffario che recepisca integralmente l’esito del referendum popolare del 12-13 giugno 2011, con particolare riferimento all’eliminazione dalla tariffa di qualsiasi voce di costo riconducibile alla remunerazione del capitale investito e al rimborso ai cittadini delle quote indebitamente percepite”: già oggi l’AEEG è attiva per determinare le nuove tariffe. Val la pena ricordare che eliminare dalla tariffa qualsiasi voce di costo riconducibile alla remunerazione del capitale investito equivale – né più, né meno – a non coprire il costo degli investimenti che sono necessari, tra le altre infinite cose, a ridurre quei “2,61 miliardi di metri cubi di acqua perduta significano circa 226 milioni di euro sprecati ogni anno” e tutte quelle criticità (impianti vetusti, servizio di depurazione inadeguato ecc.) che sono elencati nelle premesse. Queste considerazioni valgono anche per i successivi punti, concentrati sulla necessità di investimenti. Non caricare il costo degli investimenti sul consumatore sarebbe peraltro in netto contrasto col principio cardine di tutta la normativa ambientale europea, “chi inquina paga”.
– “a promuovere tutti gli interventi necessari per l’immediata e duratura soluzione della grave contaminazione delle acque potabili di molti comuni italiani, in particolare a causa della concentrazione di arsenico, floruri e vanadio”: si veda sopra, sempre che si prenda per dato uno dei principi base dell’efficienza gestionale, che richiede il rispetto del pareggio di bilancio, ossia che i costi vadano coperti con i ricavi.
– “a programmare investimenti pubblici volti a favorire i processi di ripubblicizzazione del servizio idrico integrato, investimenti pubblici che dovranno essere posti come alternativa escludente della remunerazione del capitale dalle tariffe come richiesto dal secondo quesito referendario, in modo da impedire che con i fondi pubblici vengano realizzati gli investimenti fondamentali e che la remunerazione finisca nelle casse dei gestori privati”: si veda, ancora, sopra, e si chiarisca in che modo una componente che va a coprire un costo possa finire nelle casse dei gestori privati. Emerge qui tutta la confusione tra remunerazione del capitale e profitto. Attendiamo fiduciosi che almeno un parlamentare del M5S accenda un mutuo, in modo che la differenza gli possa essere finalmente chiara.
– “ad assumere iniziative per riformulare la normativa di settore, al fine di: ripubblicizzare la gestione del servizio idrico e garantire la partecipazione dei cittadini e dei lavoratori; premiare l’efficienza dei gestori del servizio idrico e a colpire l’inefficienza; prevedere, con legge quadro, la fissazione di nuovi e più adeguati canoni di derivazione per il prelevamento dell’acqua pubblica; garantire la riduzione, fino al completo azzeramento in tempi congrui, degli sprechi nel trasporto dell’acqua potabile; adeguare agli standard europei i sistemi di depurazione e gli impianti di potabilizzazione”: quale valore aggiunto darebbe all’efficienza “la partecipazione dei cittadini e dei lavoratori”? Si noti, comunque, che l’Aeeg rende disponibili sul sito le consultazioni pubbliche. Come si fa a premiare l’efficienza e colpire l’inefficienza senza un meccanismo concorrenziale, o almeno para-concorrenziale (come le gare)? A oggi, le gestioni pubbliche sopravvivono, pur se in perdita. Quelle private no, quelle private falliscono, se non sono in grado di ottenere ricavi almeno uguali ai costi; i canoni, come le tariffe, possono essere fissati dall’AEEG; per adeguare i sistemi di depurazione e gli impianti di potabilizzazione servono risorse da investire. Si veda il punto sopra in materia tariffaria.
– “ad assumere iniziative per garantire maggiore libertà di scelta agli enti locali ai fini della realizzazione degli obiettivi citati in premessa e nella fissazione di politiche di entrate e di spesa anche intervenendo sul patto di stabilità ed escludendo le aziende speciali e le spa a totale capitale pubblico”: tradotto: facciamo in modo che gli enti locali siano liberi di continuare a indebitarsi a loro piacimento e sperperare i soldi dei contribuenti.
– “ad individuare strumenti e risorse con l’obiettivo di finanziare, in modo agevolato, gli investimenti nei servizi pubblici essenziali”: non era già stato detto?
Conclusioni:
- Cosa cambia rispetto all’assetto attuale?
- Quale valore aggiunto danno queste proposte iper-generiche?
Il tempo passa, dall’epoca del referendum sono trascorsi più di due anni: di proposte puntuali ed economicamente valide e motivate ancora non se ne sono viste.