Se il re è nudo nel campo dei miracoli
Riceviamo dal Professor Angelo Spena e volentieri pubblichiamo
Il Decreto sulle Fonti Rinnovabili
La caduta percentuale dei consumi di energia (8%) superiore a quella del PIL (6,8%) dall’inizio della crisi economica conferma la maggiore criticità in Italia del comparto manifatturiero e dei beni strumentali rispetto a quelli delle attività dematerializzate. La gran parte dei posti di lavoro sono stati persi lì. E l’industria della produzione energetica, da quella delle rinnovabili a quella nucleare, del carbone o degli idrocarburi, non è ad alta intensità di lavoro, ma di capitale: come hanno calcolato Lavecchia e Stagnaro, per ogni posto di lavoro “verde” potrebbero esserne creati mediamente più di 4 nell’economia in generale, o di 6 nell’industria.
L’energia è un affare serio, ne va della nostra vita, sopravvivenza, sicurezza. Transnazionale com’è, non possiamo non farne un mercato e non tener conto del contesto europeo; ma non sottovalutiamo il fatto che è un bene-servizio molto speciale. Non è un prodotto che può essere rimpiazzato, o che può sparire se non ha successo, o che può passare di moda: non è la macchina da scrivere, il dirigibile o l’hula-hop.
In Italia il costo dell’energia è elevato. Tuttavia dagli anni ’50 la mancanza di materie prime, che è un dato di fatto e che non può non determinare una parte – perciò ineliminabile – di maggior costo, è da sempre un alibi per irrazionalità e speculazioni che moltiplicano quel differenziale e a cui non si pone mai mano. Il punto è che i Governi hanno una visione miope – anche quando hanno i numeri per durare – incompatibile con i tempi lunghi del sistema energetico.
Occorreranno d’altra parte alcuni anni perché i consumi di energia ritornino ai livelli ante crisi: si stima non prima del 2020. Perché non utilizzare allora la finestra di tempo che la situazione ci impone, per un confronto che coinvolga tutte le componenti politiche, sociali e istituzionali, senza le urgenze che hanno prodotto finora scelte dall’alto, talune delle quali all’atto pratico irrealizzabili senza consenso? Gli investitori hanno bisogno di certezze: solo affrontando senza reticenze tutti i problemi sul tappeto, prima e non dopo le decisioni, li si può mettere al riparo dai rischi di insensate e paralizzanti contrapposizioni e di pregiudizi ideologici, e far così passare finalmente dalle parole ai fatti gli imprenditori che saranno veramente affidabili.
Anche perché, come Bassanini e altri scrivevano già nel luglio 2009, per uscire dalla crisi i nostri Governi e i nostri legislatori potranno trovare un aiuto importante “nell’attività dei veri investitori di lungo termine, se sapranno creare per loro un quadro regolamentare favorevole, senza obbligarli a giocare con le stesse regole dei protagonisti del breve termine”. In Italia invece troppi promotori (spesso un po’ speciali, ammettiamolo, quando trattasi di venture capital o di private equity in un comparto che opera su scenari di lungo e di lunghissimo periodo) trattano l’energia come fosse il campo dei miracoli del Pinocchio di Collodi. Non affidiamo i nostri zecchini d’oro al gatto e alla volpe. Il vero aiuto da dare alla difficile penetrazione delle nuove tecnologie nel mercato dell’energia è rendere virtuoso il circolo innescato dagli incentivi alle installazioni, agevolando solo le filiere ormai prossime a farcela con le proprie gambe. Alle rinnovabili ancora solo dimostrative diamo sì incentivi, ma alla ricerca. Una cosa è incentivare R&S, altro è investire per vent’anni in dispositivi poco produttivi.
Purtroppo, ciò che sembra mancare ad una prima lettura del Decreto governativo sulle fonti rinnovabili, è proprio la individuazione delle modalità contabilmente corrette e adeguate per trasferire via via gli investimenti, dalla incentivazione delle tecnologie meno produttive (che in una visione di sistema può vanificare lo sforzo per raggiungere il target del 20-20-20), a R&S di rinnovabili di nuova generazione. (E non per decenni, ma per pochi anni: dopo quarant’anni, è legittimo pretendere di sapere se una prospettiva scientifica c’è, o non c’è). Questo non è uno dei problemi, è il problema, da affrontare urgentemente nelle prossime settimane.
C’è di più. L’articolo di Durante e Stagnaro sul Sole24Ore di ieri sul Decreto spinge verso un chiarimento ormai maturo e improcrastinabile. A uscire dalla favola, stropicciarsi gli occhi e mettere i piedi per terra.
Durante e Stagnaro giustamente invocano certezze di strategie e di quadro regolatorio per un comparto che è ad alta/altissima intensità di capitale e – ripeto io – di lungo/lunghissimo periodo (e il nesso, ovviamente, c’è). Quanto al quadro regolatorio, il problema è che in un sistema economico globale in cui la durata dei beni è sempre più breve (e tale è condannata ad essere, anche quando ciò è contraddittorio in termini o innaturale, basti pensare ad automobili indistruttibili da rottamare dopo pochi anni), non si scorge ormai altro tipo di bene/servizio (escludendo le flotte degli armatori) altrettanto longevo di una centrale o di una rete energetica, di qualunque tipo, che deve vivere almeno trent’anni. Una delle concause della schizofrenia nell’affrontare il problema è di fatto la perniciosa progressiva scomparsa di metodi e di categorie di investitori specializzati per quei lunghi tempi: affrontare le strategie industriali dell’energia affidandosi a private equity e capital venture è come pensare di sostituire una dieta dimagrante con una sauna o con il salto di un solo pasto, una tantum. Ci lasci in pace, la finanza creativa: scherza coi fanti e lascia stare i santi, recita un vecchio adagio.
Quanto alla mancanza di una strategia è invero uno dei sistematici difetti di approccio dei nostri Governi. Non diversamente andò quando impegni insostenibili furono sottoscritti ad occhi chiusi accettando non per sé ma per i posteri target europei di riduzione delle emissioni punitivi e autolesionistici per l’Italia.
Forse al di là delle loro stesse intenzioni, diverse come sono le loro opinioni sul merito, Durante e Stagnaro hanno tuttavia posto una questione che o viene platealmente elusa, o si affronta in termini risolutivi. Dobbiamo andare allo show down. Trovare il coraggio di saltare lo steccato del politically correct, e vedere se il re è nudo. Far tacere l’arrembante martellamento delle lobby e far parlare i numeri e i fatti. Andare a vedere, dopo ormai quasi un decennio di incentivi da favola – le rinnovabili non sono più bambine, anche questo va detto – se i costi della potenza sono diminuiti e se sì, se continueranno a farlo; e se le producibilità di energia sono aumentate, e se sì, se continueranno a farlo. (Attenzione, e preciso: costi della potenza installata, e produzione di energia nel tempo. Senza equivoci tra le due grandezze, che hanno precise e diverse valenze). Ma con i numeri e con i fatti, elaborati con correttezza e onestà. Non si può dire che i costi del fotovoltaico sono scesi, se lo hanno fatto solo negli ultimi due-tre anni perché sul mercato hanno fatto irruzione i Cinesi, che – guarda caso in quei due-tre anni – hanno scalzato tedeschi e giapponesi dalla leadership delle vendite nel mondo. Come non si può tacere delle scoraggianti producibilità eoliche italiane, soltanto parlando di potenza e mai di energia. Ma i mulini a vento dov’erano in Europa? E sul mediterraneo non abbiamo navigato a remi fino al 1600? Eppure acqua e grano servivano anche a noi.
Depuriamo i dati da effetti speciali e illusionismi e sapremo le cose come stanno.
Solo così possiamo stanare il Governo, se ha il retropensiero di introdurre surrettiziamente nel Decreto di ieri plafond inconfessabili, come sospettano Durante e Stagnaro. E staniamo le lobby indecise se minacciarci, indotto o no, con ventimila o con duecentomila (beh, signori, balla un ordine di grandezza!) disoccupati, dissipando il sospetto, ingenerato da taluni accenti della loro comunicazione, che se non saranno incentivi per sempre sarà cassa integrazione, o viceversa. Perché in tal caso si delineerebbe, oltre che una mortificazione e una dissipazione del grande potenziale dato dall’entusiasmo dei più giovani, il rischio di un blocco sociale di pressione in cui distinguere il grano dal loglio sarebbe sempre più arduo.
E’ tempo di una svolta. Per quanto ciò possa apparire paradossale, abbiamo bisogno di sapere se questa via alla sostenibilità è sostenibile, oppure no, e prenderne atto. Al di là dei dettagli, sul quale si dovrà discutere dopo una attenta lettura del Decreto, l’incentivazione non deve infatti perdere il naturale e circoscritto obiettivo di innescare un circolo virtuoso. Sotto questo profilo meravigliano talune accoglienze ostili al Decreto, che intrinsecamente non può non avere il carattere di una sunset law. E’ altresì tempo di sottrarre ai politici ammiccanti un nascente strumento di pressione sociale (che poi possa saldarsi alla malavita è scenario da brivido, ma che ha altre sedi in cui essere affrontato), e di passare la parola ai tecnici perché raccontino senza reticenze come stanno le cose. Senza monopoli culturali, anzi stringendo il patto di non raccontare più quelle che J. Stuart Mill definiva “amabili bugie che gli uomini continuano a ripetersi, l’uno appresso all’altro, fino a quando diventano dei luoghi comuni, contrari però a tutta la nostra esperienza”. E di fatto l’esperienza scientifica dimostra che la competitività di una fonte rinnovabile è inscindibilmente fondata, una volta accertata l’esistenza del prerequisito estensivo riguardante le disponibilità di materie prime, di semilavorati, di superfici lorde e territori disponibili, sulla simultanea bontà (in termini di valori superiori a rispettive soglie) di una terna di parametri: costo unitario (del kWh, non del kW), durata (fino a 25-30 anni, poi è ininfluente), rendimento (oltretutto, più è basso, più crescono sia la quantità di materia necessaria che gli aspetti estensivi dell’impatto territoriale). Se uno solo non va, salta tutto.
Per sapere se i nostri soldi potrebbero essere spesi meglio, oppure no, o molto meglio, bastano in conclusione le tre semplici cose che ho anticipato: 1) uscire dalla favola: una road map di rientro nell’ordinario (ce lo raccomanda dal 2008 l’Agenzia Internazionale dell’Energia dal 2008, “che gli incentivi siano transitori e decrescenti nel tempo”); 2) stropicciarsi gli occhi: un’Autorità autorevole che governi i criteri, i monitoraggi e i controlli per selezionare le filiere virtuose (davvero dobbiamo continuare a incentivare indiscriminatamente tutto a pioggia?); 3) mettere i piedi per terra: aiutare in modo mirato (e condizionato al risultato, così non si farà più finta di credere al moto perpetuo) R&S per il salto di qualità delle filiere che hanno ancora residui margini di progresso. Perché una cosa purtroppo è chiara: con le tecnologie oggi commerciali, nel clima caldo e poco ventoso italiano, siamo ancora alle eliminatorie, non certo alle finali.
Diversamente, investiamo altrove. Sarebbe come una comica del cinema muto: un viaggio in automobile trascinati non dal motore ma dal motorino d’avviamento.
“Per ogni posto di lavoro “verde” potrebbero esserne creati mediamente più di 4 nell’economia in generale, o di 6 nell’industria”.
Tutto qui e solo questa la contabilità del dare e dell’avere? Suvvia, non rechiamo offesa alla nostra e soprattutto alla sua intelligenza. Lei sa bene che NON è solo questo il conto. Lei sa perfettamente che i vantaggi sono altri.
In Italia non c’è volontà politica ad affrontare seriamente, molto seriamente, questo problema. Fondi incentivanti per auto alimentate a GPL, finiscono di solito nella prima metà dell’anno. Pochissime amministrazioni comunali hanno autobus per trasporto urbano alimentati a metano. Non ci sono veicoli elettrici in circolazione, per cui anche i nuovi parcheggi multipiano in costruzione sono privi di colonnine di ricarica, perché non richieste. Geotermia, fotovoltaico, energia solare per riscaldamento trovano sparute e modeste applicazioni nel settore privato, ma NON negli edifici pubblici, che sarebbero più interessati al risparmio sulla loro bolletta energetica, che poi paghiamo noi tutti con le tasse. Guardiamo con invidia Nazioni estere che sono più lungimiranti dell’Italia e degli Italiani!
L’analisi è interessante, perché propone una diversa visione di quel che i media sfornano ciclicamente. Va al sodo su come valutare investimenti e ritorni, razionalizzare la R&S puntando sulle vere eccellenze. Per esempio il costo complessivo del CNR quanto rende in termini di brevetti di mercato? Il CNR era qualche anno fa era paragonabile per costi ad un MIT, con la differenza che quest’ultimo vendeva brevetti che ripagavano i costi, mentre gli introiti del primo erano per lo più i trasferimenti statali.
Poi però basta nel piangerci addosso all’italiana. Le soluzioni delle rinnovabili vengono impiegate sempre più anche nel privato, il recupero energetico ne richiede sempre più l’impiego nelle nuove costruzioni o nelle ristrutturazioni. Gli automezzi elettrici, vedi bus, fanno sempre più la loro comparsa nelle nostre città.
Certo, ci manca una politica industriale, che significa definire gli obiettivi dei prossimi 15-20 e…tenere la barra dritta!
@Mario. D’accordo che non sono solo in ballo posti di lavoro, ma una riflessione seria e disillusa sulla valenza della politica di incentivi pubblici per il fotovoltaico è indubbiamente da fare. Un investimento che non possa prescindere dagli aiuti di Stato (ossia dal prelievo imposto al resto della cittadinanza) è un investimento fallito in partenza. Non penso si possano ritenere lungimiranti e difensori dell’ambiente coloro che investono nel fotovoltaico sostenuto da incentivi, sapendo che tale sostegno ricade sulle bollette di tutto il resto della cittadinanza. Suvvia, ormai sappiamo qual’è il rischio nascosto dietro gli incentivi di Stato, la creazione di bolle di cattivi investimenti, l’offuscamento dei segnali che il mercato altrimentici fornirebbe, sapendo bene che presto o tardi i nodi vengono al pettine facendo crollare il castello artificilalmente creato dagli incentivi (la FIAT non ci è bastata per capire che questo gioco è pericoloso?). Dal punto di vista ambientale mi chiedo se stiamo davvero aiutando l’ambiente con questa politica. Ci vorrebbero i studi e le ricerche che il prof. Spena giustamente suggeriva, per capire se i risultati comportano effetti benefici sull’ambiente. Per ora non posso che osservare abbastanza scettico come molti campi con chiara vocazione agricola vengano invasi da impianti fotovoltaici, con conseguenze che ho difficoltà a considerare positive per l’ambiente. Non so, forse sto tralasciando qualcosa nella mia valutazione, ma son abbastanza convinto che in buona fede non si possa essere certi che la strada degli incentivi e del fotovoltaico forzato sia la panacea dei problemi ambientali, e che non possa invece celare errori e scelte dettate da interessi lobbistici. Per questo ringrazio il prof. Spena per il doveroso invito ad una riflessione su tale materia.
E di grazia, quale sarebbe il conto?
Forse il fatto che interrompendo questo insalubre e forzoso trasferimento di ricchezza al sistema finanziario, verrebbe forse a mancare qualche ricaduta positiva al sistema Paese?
Illudere il cittadino comune con la bufala delle migliaia di posti di lavoro generati dall’incentivazione al solare FV, è certamente poco etico se non contemperato da riscontri produttivi nel contesto specifico, vale a dire ritorno per il sistema Paese di tutti questi soldi.
Quale sarebbe questo ritorno per il sistema produttivo nazionale, notoriamente costituito da industrie di trasformazione, energivore, che sono costrette a pagare (anche ed in discreta misura a causa del costo sul sistema di questi generosi incentivi) il fattore produttivo di base: l’elettricità, molto più cara delle omologhe industrie concorrenti, europee e mondiali?
L’Italia ha scalato negli ultimi anni le graduatorie nel contesto sia eolico (pur senza l’elemento di base: cioè il vento) che solare FV (l’anno scorso siamo risultati 2° al mondo!) e quanto produce per il sistema elettrico Paese tale exploit? Mi vergogno a dirlo!
Ma nel contempo, quanto hanno contribuito questi “successi” a far diminuire il costo dell’elettricità per tutti i consumatori e le attività produttive di trasformazione?
C’è davvero da domandarsi come si riesca ancora a competere e ad avere un tasso di disoccupazione inferiore alla media Ue. O no?
@Giovanni Bravin
E quali sarebbero queste Nazioni a cui dovremmo guardare con invidia ed ammirazione?
La Germania, forse? Ebbene, guardiamoci davvero e con occhi aperti e ben spalancati: qual’è il “Mix” di generazione elettrico tedesco e da quali fonti generano 3/4 dell’elettricità che producono e consumano a casa loro (peraltro, il doppio di quanto consumiamo noi italiani ed i deteschi sono solo numericamente il 30% in più di noi)!
La Danimarca? che produce circa il 21% di elettricità dall’eolico (è il Paese più ventoso d’Europa), ma che poi cede questa elettricità non programmabile a costi di “realizzo” alla vicina Svezia, per poi importare la stessa E.E. quando serve ai danesi a costi molto maggiori (perchè considerata necessità di picco, quando serve ai danesi e non ne dispongono a sufficienza), prodotta dal Nucleare svedese!
Il Giappone? Oppure gli USA? Oppure la G.Bretagna? ecc. ecc.
Magari riuscissimo davvero a fare un’analisi ed un confronto razionale ed oggettivo, lasciando una volta da parte l’emotività e l’ideologia che ci ha ubriacati negli ultimi 20 anni. Ne scopriremmo delle belle, ma belle davvero perchè utili a comprendere la lezione!
“impegni insostenibili furono sottoscritti ad occhi chiusi accettando non per sé ma per i posteri target europei di riduzione delle emissioni punitivi e autolesionistici per l’Italia.”
Forse così insostenibili non sarebbero se all’epoca, invece di sottoscrivere l’impegno e star poi fermi (confidando nel fallimento dell’iniziativa, poi vanificato dalla firma della Russia) avessimo iniziato a muoverci…
Ritengo poi che i costi di implementazione si siano dimostrati ‘insostenibili’ (ma chi ha deciso che lo sono?) a causa di una applicazione complessa e poco efficiente – ma forse voluta – che porta spesso le imprese italiane a sostenere costi più elevati a parità di kW installato.
@Rinaldo Sorgenti: senza dimenticare il costo delle linee di trasmissione che la Danimarca ha dovuto costruire per scambiare energia con i vicini.
Anch’io non ho mai visto mulini a vento in Italia, e con questo un bel de profundis sull’eolico e un po’ di soldi risparmiati.
Il resto mi sembra giusto conservarlo (cogenerazione, solare, e mini turbine idrauliche per i corsi d’acqua di bassa portata – vedere Francia, forse anche qualche miniturbina eolica in zone a regimi di brezza costanti).
Il punto diventa il solare per cui potremmo tararci sugli incentivi europei tenuto conto di un coefficiente di illuminazione eccezionale per le installazioni mediterranee.
Mi sembra che se ne dibatta da anni, ed in realta’ sia un balbettio. Non so se il re e’ nudo (provocatoriamente) ma certamente lui e i suoi consiglieri sono altamente incompetenti>
@marco
dicono che Enel si sia riempita di pannelli solari da rivendere.. dicono che abbia i magazzini stracolmi di invenduto.. e queste polemiche sugli incentivi faran fare una brutta fine a quel magazzino… che gli ripianeremo noi sulla bolletta….
Grazie della possibilità che ci date di esprimere liberamente il nostro parere, che non e’ poca cosa. Sono un imprenditore agricolo donna e ho colto l’opportunità di rifare i tetti della mia azienda smaltendo tutto l’eternit amianto mettendo a reddito la superficie di tetti esposta a sud di cui dispongo. Ho trovato una banca disposta a finanziare l’operazione parecchio costosa e sono in attesa di essere collegata in rete. Ho rifiutato in questi mesi offerte da parte di multinazionali, immobiliaristi ed altri “sopeculatori” che cercavano la terra per realizzare grossi impianti fotovoltaici a terra o peggio ancora impianti di Biogas (produzione di energia con impiego principalemnte di mais, frumento, ecc). Da persona di buon senso credo che il grosso errore sia come sempre non mettere dei limiti, dei paletti e governare le cose. E’ normale che in presenza di incentivi rilevanti le persone vogliano cogliere le opportunità economiche di profitto. Non dimentichiamo che parliamo di investimenti elevati e che gli imprenditori rischiano personalmente. Tutta la materia andava regolamentata meglio sin dall’inizio analizzando tutti gli scenari e l’impatto che tale sistema avrebbe avuto. l’opinione pubblica da sempre favorevole alle fonti rinnovabili oggi non deve essere manipolata dicendo che l’operazione costerà ai cittadini!!! Questo si sapeva da tempo, ma la UE e il protocollo di Chioto chiede all’Italia di raggiungere determinati obiettivi di produzione di “energia pulita” pena penalità salate. Aiutiamo i politici a ragionare !!!!!!!
@Piero per esperienza diretta Enel non ha i magazzini pieni, gli stessi tecnici Enelsi affiliati ad Enel hanno dovuto comperare direttamente i pannelli perche’ la richiesta era tale che non riuscivano a soddisfarla. Questa voce è riferita alla Spagna dove gli incentivi sono stati tagliati dal Governo, ma dove a differenza dell’Italia il business è stato gestito a livello di settore industriale
Da questa interessante e lunga analisi emerge una cosa chiara: l’incapacità/impossibilità della finanza (creativa o meno) di sostenere piani di sviluppo infrastrutturale di lungo periodo. Questo mi sembra un limite grosso alla progettualità. Se i grandi organismi banche o istituzioni pubbliche non sono in grado di canalizzare risorse in investimenti di sviluppo energetico mi chiedo chi possa farlo, forse i privati cittadini, magari quelli disoccupati? Forse in questa fase di decrescita forzata bisognerebbe ripartire da una riconsiderazione sui consumi di energia. Eppoi questa capacità del settore industirale di generare posti di lavoro è riferita all’Italia o riguarda l’economia globale vista la tendenza alla delocalizzazione produttiva?
A me da solo fastidio pagare un 11% in piu di bolletta sui miei consumi per tinanziare ecomafie e/o speculatori quando nel resto d’Europa dove le ore solari disponibili sono inferiori gli altri cittadini sulla loro bolletta spendono l’1%.
tra le molte ragioni che ci spingono ad emigrare dobbiamo aggiungere anche questa?
Poi smettiamola di parlare di potenza installata, parliamo di quella prodotta.
tenere un impianto fermo quando e costato poco e’ naturale, quando invece gli incentivi diminuiscono aumenta la necessita di essere efficienti