25
Mag
2013

Se il legislatore non impone, ma sembra suggerire.

Con il decreto legislativo luogotenenziale n. 74 del 10 marzo 1946 venne attribuito alle donne il diritto di elettorato passivo, ma evidentemente il legislatore ritiene che un’effettiva parità di genere nell’ambito considerato non sia ancora stata raggiunta. Oppure il problema è terminologico, sì che è necessario preliminarmente precisare come tale parità debba essere intesa. Se si reputa che essa identifichi analoghe possibilità, per esponenti di entrambi i generi, di essere eletti in rappresentanza di coloro che esprimano un voto in loro favore e così, parimenti, fruire dell’opportunità di accedere alle cariche previste, non si comprende di quali ulteriori tutele le donne avessero bisogno.

Ma forse il legislatore ha un diverso concetto di parità tra sessi, considerato che con la legge n. 215 del 23 novembre 2012, entrata in vigore il 26 dicembre 2012, ha dettato disposizioni per promuovere il riequilibrio delle rappresentanze di genere nei consigli e nelle giunte degli enti locali e nei consigli regionali (nonché norme in materia di pari opportunità nella composizione delle commissioni di concorso nelle pubbliche amministrazioni).

In particolare, per quanto riguarda i consigli comunali, la legge 215/2012 ha introdotto la cosiddetta quota di lista, in base alla quale nelle liste dei candidati nessuno dei due sessi può essere rappresentato in misura superiore a due terzi[1]. Ha altresì previsto la cosiddetta doppia preferenza di genere che, nei comuni superiori ai 5000 abitanti[2], consente di esprimere due preferenze (anziché una, come indicato nella normativa precedente) nell’ambito della stessa lista, purché riferite a candidati di genere diverso, pena l’annullamento della seconda.

Nel perseguimento dell’obiettivo di favorire l’aumento della presenza femminile presso gli organi degli enti locali, la stessa legge ha inoltre disposto che il sindaco e il presidente della provincia nominino componenti della giunta nel rispetto del principio delle pari opportunità, garantendo la presenza di entrambi i sessi; che comuni e province implementino i propri statuti con norme che assicurino condizioni di pari opportunità e garantiscano la presenza di entrambi i sessi nelle giunte e negli organi collegiali non elettivi propri nonché degli enti, aziende ed istituzioni da essi dipendenti[3]; e che le regioni, con propria legge, promuovano la parità tra uomini e donne nell’accesso alle cariche elettive “attraverso la predisposizione di misure che permettano di incentivare l’accesso del genere sottorappresentato”.

A commento delle disposizioni di che trattasi[4] – in particolare, quelle in materia di quote di lista e di doppia preferenza – è stata rilevata, con svariate connotazioni, l’introduzione delle cosiddette quote rosa nelle schede elettorali e negli enti locali, ma in maniera non precisa. Infatti, mentre la normativa di cui alla legge Golfo-Mosca assicura il risultato della presenza di una determinata percentuale di donne negli organi di amministrazione e controllo delle società ivi previste[5], la legge n. 215 garantisce una percentuale minima predefinita di donne esclusivamente nelle liste di candidati. La possibilità, poi, di inserire due preferenze, purché di genere diverso, nell’ambito della scheda elettorale, ferma restando la facoltà di esprimerne una sola e per un esponente maschile, non sembra certo potersi definire in termini di “quota” al femminile.

La confusione terminologica con la quale sono stati così individuati concetti sostanzialmente diversi è probabilmente il segnale di una sempre più avvertita istanza sociale al raggiungimento di posizioni di effettiva parità di genere nei consessi decisionali, in funzione della quale forse si tendono ad utilizzare espressioni non tecniche, talora compiacenti, se non addirittura fuorvianti. Ma detta confusione sembra costituire altresì indice di una non chiara comprensione delle finalità che legge persegue: perché, forse, delle disposizioni che – a partire dalla tornata del maggio 2013 – andranno a disciplinare l’espressione del voto nelle elezioni amministrative non c’era sostanzialmente bisogno.

La base normativa è quella di una presunta discriminazione della quale le donne sarebbero vittime in ambiti in cui, più che il merito, il valore e la capacità di farsi valere, verrebbe tenuta in considerazione l’appartenenza al genere. In quest’ottica, le liste elettorali costituirebbero espressione di un potere declinato al maschile, volto a mantenere posizioni di privilegio consolidatesi nel tempo, rendendo quindi necessarie regole idonee a creare delle “riserve protette”, al fine di tutelare le donne dalla suddetta discriminazione.

Una tale impostazione, mentre pretende di evidenziare l’importanza delle donne, rilevando le mancanze che nella formazione delle liste vi sarebbero state prima dell’emanazione di una legge preordinata a sanarle, di fatto si risolve nello svilimento dell’operato di chi le ha finora compilate, quasi a stigmatizzare la circostanza che le scelte effettuate siano state improntate non sul valore dei componenti, ma solo sull’appartenenza a una categoria: quella maschile. E’ evidente come una tale conclusione sarebbe tale da minare la stessa espressione di governo democratico fino a questo momento realizzato dagli enti locali.

Peraltro, l’imposizione di una quota obbligata di donne all’interno delle liste elettorali, determinando la prevalenza del criterio del genere rispetto a quello della competenza, potrebbe risolversi, da un lato, nell’inserimento nelle liste stesse di donne non meritevoli, pur di raggiungere il numero minimo previsto e non incorrere nelle conseguenze disposte dalla legge in caso di mancato rispetto del relativo obbligo; dall’altro, in una discriminazione nei riguardi di candidati uomini forse maggiormente validi delle colleghe donne, ma colpevoli di appartenere al genere sbagliato, vale a dire quello più rappresentato.

Soffermandosi, poi, ad esaminare la previsione della doppia preferenza nella scheda, non è chiaro quale facoltà aggiuntiva, finalizzata a risolversi in un beneficio verso il genere femminile, la legge attribuisca all’elettore. La possibilità di scegliere una candidata donna, ritenuta più meritevole rispetto a un candidato uomo, vi era già in precedenza. Pertanto, esprimere una doppia preferenza non apporta alcun valore ulteriore nella riduzione del “gender gap”: consente soltanto, rispetto al regime previgente, di votare due candidati di generi  diversi, ma ugualmente apprezzabili, laddove l’elettore si trovi nell’incertezza della scelta. La stessa incertezza, tuttavia, potrebbe ben manifestarsi anche nei riguardi di due candidati dello stesso sesso reputati egualmente validi: in quest’ipotesi, a risultare discriminato potrebbe essere un eventuale secondo candidato, ugualmente competente ma dello stesso genere rispetto al primo, nei riguardi del quale l’elettore volesse esprimere una preferenza aggiuntiva, essendogli ciò consentito solo in caso di scelta per un genere diverso.

Eppure la disposizione che ha introdotto la doppia preferenza è stata indicata come volta a favorire la parità di accesso alle cariche politiche locali. Se non si vuole assecondare la tentazione di ritenere che, con la duplice opzione, il legislatore intendesse richiamare l’attenzione di elettori distratti – vale a dire tendenti in automatico ad esprimere la propria preferenza nei riguardi di un uomo, colpevolmente dimenticando o non adeguatamente considerando la possibilità di eleggere una donna – il dubbio è che con tale modalità si sia voluta canalizzare l’espressione del voto stesso.

Non sono state cioè utilizzate, allo scopo della “gender parity”, quelle rigidità che caratterizzano la normativa in materia di quote di genere nelle società per le quali è d’obbligo, ove la scelta dei componenti degli organi sociali deve tenere conto di criteri numerici predeterminati e declinati al femminile, anziché avvenire esclusivamente in funzione di merito e competenza. Ma, rimarcando con la previsione della duplice opzione la possibilità di indicare un candidato donna, si è perseguito il medesimo fine, nel presupposto che, in mancanza, una sorta di inconsapevolezza dei cittadini nell’esercizio del diritto di voto avrebbe lasciato sfumare la facoltà di eleggere una rappresentante del genere femminile. In questo modo, conferendo paternalisticamente enfasi, mediante la doppia preferenza, alla possibilità di votare una donna, si è come surrettiziamente inteso orientare in tal senso la scelta dell’elettorato: del resto, in Campania, dove la doppia preferenza vige dal 2009, la rappresentanza femminile nel consiglio regionale è aumentata del 20%. Non può affermarsi con certezza che tale aumento sia direttamente correlato alla doppia opzione ma, anche qualora lo fosse, esso non potrebbe venire considerato quale il riconoscimento di merito femminile, quanto piuttosto il risultato di un meccanismo etero-imposto: in sostanza, un premio di consolazione.

La legge n. 215/2012 viene definita come un progresso per la società, nel senso di una conquista per il genere “sottorappresentato”. Chi reputa, invece, che soggetti maturi e validi non necessitino di imposizioni esterne, coattive o manipolative che siano, giudica detta legge come l’ennesimo riconoscimento di un fallimento. Quello delle donne, considerate forse inidonee a far valere le proprie risorse personali; ma anche quello di un popolo, evidentemente ritenuto incapace di scelte fondate.

In conclusione, la legge in esame non si risolve nell’attribuzione di una maggiore libertà di espressione alle donne, bensì nell’impoverimento della libertà di tutti. Prevedendo quote numeriche di candidati di sessi diversi nelle liste elettorali e prescindendo così dall’unico vero criterio idoneo a consentire il perseguimento della parità tra i generi, vale a dire la competenza, essa si traduce nell’ennesimo svilimento del merito di chi – uomo o donna che sia – lo possiede: quindi, l’esatto opposto di una scelta di libertà. Alla circostanza che ciò non venga ritenuto manifestazione di una cultura da scardinare, ma al contrario vi si plauda come a un’opportunità per il genere femminile, non sembra potersi dare una spiegazione razionale. O, forse, è solo meglio non approfondire.

Le opinioni sono espresse a titolo personale e non coinvolgono in alcun modo l’ente di appartenenza (Consob)


[1] In caso di mancato rispetto delle quote previste, la commissione elettorale interviene cancellando i nomi dei candidati appartenenti al genere più rappresentato, procedendo dall’ultimo della lista. Detta cancellazione potrebbe far venir meno il numero minimo di candidati richiesto dalla legge per la presentazione della lista. In questo caso, per i comuni con popolazione compresa tra i 5000 ed i 15000 abitanti, la riduzione effettuata dalla commissione elettorale non può, in ogni caso, determinare un numero di candidati inferiore al minimo prescritto per l’ammissione della lista elettorale alla competizione. Per i comuni con popolazione superiore a 15000 abitanti, invece, si prevede la decadenza della lista.

[2] La direzione centrale dei Servizi elettorali del ministero ha chiarito nella circolare n. 30/2013 che, per i Comuni con meno di 5.000 abitanti, vige il generico principio secondo cui “nelle liste dei candidati è assicurata la rappresentanza di entrambi i sessi’ (art. 2, c. 1, lett. c), punto 1, della legge 215/2012), essendo così rimessa all’ente l’adozione di misure idonee all’attuazione dei fini indicati dalla legge. Non è prevista poi la possibilità di esprimere la doppia preferenza.

[3] Gli statuti ed i regolamenti degli enti locali dovranno essere modificati entro sei mesi dall’entrata in vigore della legge, vale a dire entro la fine di giugno 2013.

[5] Al riguardo, per approfondimenti http://www.brunoleoni.it/nextpage.aspx?codice=12130

1 Response

  1. firmato winston diaz

    Io direi che siamo di fronte all’ennesimo segno di mutamento (mi astengo dal definirla una degenerazione) della cultura del diritto delle nostre societa’ occidentali, dovuta forse al tentativo di far coesistere nello stesso spazio giuridico realta’ sociogiurisprudenziali estranee una all’altra: ad una concezione del diritto universale e sovrastante alle singole individualita’, siano persone fisiche o giuridiche, in virtu’ della quale ogni singolo uomo o istituzione deve rispondere solo alla legge e non ad un altro uomo, si sovrappone sempre di piu’ una concezione da “voto di scambio”, in cui il legislatore insegue il consenso di singole categorie umane o giuridiche in cambio di favori legislativi particolari. Cio’ e’ generalizzato ed esteso anche alla legislazione inerente agli scambi economici, sempre piu’ infarcita di casi particolari con incentivazioni e disincentivazioni ad hoc, casi particolari che ormai tendono a soverchiare la legislazione generale, in una rincorsa ricorsiva ed infinita al perseguimento del mondo ideale e perfetto, platealmente destinata al fallimento dato che ogni intervento finisce per modificare le condizioni preesesistenti di tutto il contorno, richiedendo altri interventi, in un circolo vizioso che non ha fine.
    Comunque questa forse e’ solo una parafrasi della condizione umana.

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