1
Apr
2022

Schwa: la livella digitale dell’identità personale

Riceviamo e volentieri pubblichiamo da Francesco Provinciali

Ci sono cose che non andrebbero prese sul serio, mi viene in mente il “terrapiattismo” che propugna l’idea che il nostro pianeta sia piatto: non la Terra tonda ereditata dall’astronomia ellenistica del III secolo A.C., da Pitagora, Parmenide, Archimede, Eratostene e via via fino al sistema eliocentrico Copernicano, a Newton, Galilei e poi all’astrofisica dei giorni nostri, alle descrizioni fascinose di Margherita Hack, ma una tabula arrivata al confine della quale si deve tornare indietro per non cadere nello spazio che la delimita. Eppure ogni tanto si riuniscono a convegno i fautori di questa incredibile fantasia e discettano giorni e giorni per stabilire l’abc della scienza nuova. Vorrei trovarmi con uno di costoro nel punto in cui la Terra piatta finisce per farmi spiegare che cosa sta sotto, dalla parte opposta a quella in cui ci troviamo seduti o in piedi.

Eppure democrazia vuole che tutti debbano essere ascoltati, che ciascuno possa esprimere se stesso, che la digressione dalle abitudini o il separarci dalla cultura consolidata per provare e trovare nuovi modi di essere e di porsi sia l’espressione più lata della nostra libertà, l’uno vale uno nasce da qui ma poi si pretende che possa valere un po’ di più, perché pare che il dogma dell’inclusione sociale ci porti inevitabilmente ad accettare nuove dimensioni relazionali e comunicative che ci permettano di convivere con codici linguistici e semantici inventati in nome di una multiculturalità che vorrebbe aprire, facilitare, includere, decifrare la complessità. Resilienza e inclusione sono i paradigmi di nuovi stili di vita che postulano continui adattamenti e mutevoli cangianze: essi conservano una valenza di positività fino a quando non contraddicono le evidenze.

Non ho mai creduto al teorema dell’anno zero, la storia è evoluzione di corsi e ricorsi come ci ha insegnato Giambattista Vico, ma a volte ho l’impressione che siamo arrivati ad un punto in cui si vuole cancellare il passato per costruire un mondo nuovo: non quello di Aldous Huxley, non le immaginifiche rappresentazioni delle narrazioni distopiche, non il nuovo ordine mondiale massmediologico di George Orwell di 1984 e del Grande Fratello che avevano un che di esoterico e magico ma qualcosa di più, una via di mezzo, un limbo indefinito tra nichilismo e negazionismo, una specie di ‘livella’ che rimuove il passato, come se tutto ciò che faticosamente abbiamo costruito con la scienza, l’arte e la cultura fosse un peso ormai diventato insopportabile, dove scorgiamo solo limiti, divieti, proibizioni, regole. Le regole, appunto: sono un riassunto di ciò che abbiamo adottato per contestualizzare la nostra vita, relazionarci tra noi, possibilmente comprenderci per comunicare, apprendere, informare, tramandare, arricchendo lo zoccolo duro di ciò che è stato validato con nuove opportunità, conquiste, conoscenze, scoperte, invenzioni.

Leggendo il libro del Premio Nobel per la fisica Giorgio Parisi, In un volo di storni, si coglie l’essenza di questo “progress” che avviene per accumulo e selezione, per scelta e adattamento, attraverso lo studio, la riflessione e l’uso metodico del “pensiero critico pensante”, ciò che a Rita Levi Montalcini piaceva definire “imagination”, che altro non è che la creatività applicata all’intelligenza.

Ritorno al mio incipit: siamo talmente soverchiati dagli effetti residuali di una globalizzazione dei luoghi comuni, del pensiero pensato e delle opinioni in libera circolazione che finiamo per confinarci in una Torre di Babele che sta al centro di un labirinto inestricabile: se stiamo dentro soffochiamo per il sovraffollamento affabulatorio, se scendiamo e ci incamminiamo finiamo per perderci nella selva oscura delle congetture senza ritorno. Confondendo l’ambiente – che è la dimensione antropocentrica del vivere – con la natura che è il villaggio di Macondo di Garcia Marquez ancora da scoprire e da cui tutti siamo partiti, finiamo per essere vittime delle nostre divagazioni e dei nostri astrusi costrutti mentali.

Eppure le regole fondamentali, quelle che definiscono il perimetro del lecito e del possibile, evocano il concetto di sostenibilità: siamo sostenibili con il contesto naturale, l’essenza stessa del nostro essere e tra noi umani se accettiamo il principio della condivisione per accomodamento, se non soverchiamo le libertà altrui e rispettiamo le regole della natura.

Scienza e demografia – ad esempio – ci danno la spiegazione più plausibile dell’eziopatogenesi pandemica, oltre le cospirazioni del grande reset, le teorie complottiste e i negazionismi più ottusi.
Trovatemi uno che – postulando una vita normale (dove la normalità non sia una diminutio del progresso) – non sia additato a torbida figura di retrogrado e demagogo, un nemico giurato dell’uguaglianza, un tenace avversario della diversità – che tutti ormai consideriamo invece essere un valore fino a quando non finisce per ribaltare ciò che la civiltà ha costruito nella linea di continuità della storia, secondo categorie spazio- temporali che sono l’asse di sviluppo della singola esistenza e della lunga storia dell’umanità.

Abbiamo bisogno di codici comunicativi che ci permettano di relazionarci in modo reciprocamente comprensibile, nel solco di una continuità di lunga deriva dove si sono consolidati e validati gli alfabeti che altro non sono che segni e simboli della cultura tramandata.

Quando però l’inclusione e il genere neutro diventano ossessioni, generano stili comunicativi ai limiti dell’assurdo: è il caso della “schwa”, la famosa “e” rovesciata (la posso solo immaginare perché la tastiera del mio vecchio pc ne è sprovvista) che dovrebbe – secondo il nuovo corso del comunicare per iscritto, sostituire le desinenze dei nomi, degli aggettivi e di tutto l’armamentario grammaticale che finora ci ha consentito di scrivere e di leggere, capendoci reciprocamente. Questo per evitare di “offendere” l’interlocutore usando il genere della persona o delle persone a cui ci si rivolge (perché – se ho ben inteso – la regola varrebbe anche per il plurale dove la e capovolta è sostituita da un 3 allungato).

In pratica si tratterebbe di sostituire l’alfabeto in uso e il genere delle parole: una pensata originale ma francamente incomprensibile, che ricorda coloro che vogliono abolire il bacio del Principe ne La bella addormentata, perché sessista, non richiesto, insomma un vero abuso maschilista. Il mondo della cultura, specie quello Universitario, la stessa Accademia della Crusca si sta ribellando a questa ipotesi di stravolgere l’alfabeto in uso perché ciò comporterebbe l’azzeramento di secoli di cultura: in letteratura, poesia, negli epistolari, nei codici, negli atti di ogni tipo, tutto dovrebbe essere rivisto secondo la nuova metodica inclusiva per evitare distinzioni e discriminazioni di tipo sessista.

Un teorema revisionista che viene definito “folle” dagli studiosi della lingua, e non solo: il quotidiano La Verità ha già tirato in ballo lo stesso Ministero dell’Università dove pare che alcuni atti relativi alle selezione del personale siano stati già adeguati alla nuova tendenza, mentre personalità come il linguista Massimo Arcangeli, il filosofo Massimo Cacciari dissentono apertamente e il Direttore di Micromega Paolo Flores D’Arcais intervistato la Linkiesta la definisce “una ennesima idiozia spacciata per progressista”.

Si può immaginare il caos comunicativo che una novità del genere riverserebbe a cascata nel mondo della scuola, della P.A., degli uffici, delle banche, degli studi notarili qualora – come spesso accade per tutto ciò che ci viene imposto a nostra insaputa , per consuetudine subentrata o contro la nostra volontà – le aziende produttrici di PC, tablet e smartphone decidessero di adottare lo “schwa” sulle future tastiere.

“Lo schwa fa un’unica cosa: sostituisce il maschile sovraesteso quando ci si rivolge a una moltitudine mista e indefinita”: questa la risposta della sociolinguista Vera Gheno in difesa della decisione del Comune di Castelfranco Emilia di usare d’ora in avanti lo “schwa”, ad una intervista di MicroMega del 26/4/2021.

Riferendo alla giornalista Cinzia Sciuto che “…questa proposta non è nata nella mente solitaria di qualche linguista annoiata chiusa nella sua Torre d’Avorio per “imporre dall’alto” le sue fisime. Al contrario: la prima volta che mi è venuta in mente l’idea dello schwa (che poi ho scoperto essere una proposta che già circolava, per cui in verità non ho inventato proprio nulla) è stato in risposta a una persona che mi ha espresso il suo disagio nell’uso del maschile e del femminile a cui l’italiano la costringeva. Questa persona non si sentiva a suo agio perché non pensava a se stessa né come maschio né come femmina”.

Raccogliendo l’invito della Professoressa Gheno (“In questo momento penso che sia interessante osservare il fenomeno, guardare tutte le proposte, sperimentare fino ai limiti della fantalinguistica. Quello che auspicherei è che tutto questo dibattito si svolgesse con serenità e pacatezza, senza anatemi reciproci”) mettiamo da parte nostra sulla bilancia il peso di secoli di cultura sedimentata utilizzando l’alfabeto corrente, le difficoltà che molte persone – probabilmente la stragrande maggioranza – avrebbero nell’utilizzare una “e” rovesciata al posto delle desinenze attuali che indicano il genere del sostantivo o dell’aggettivo usato. Dobbiamo essere rispettosi di tutte le sensibilità ma non possiamo scoperchiare l’utilizzo dell’alfabeto finora usato senza che nessuno ne abbia subito turbamenti esistenziali, per l’indecisione di chi non sa distinguere il proprio o altrui genere di appartenenza.

Un mondo asessuato è razionalmente inconcepibile, ci basta e avanza la banale definizione di “genitore uno” e “genitore due”. Per questo, chiosando la ribellione neanche tanto velata del mondo accademico, mi piace concludere utilizzando una frase trovata nella stessa pagina di MicroMega: “Lo schwa? Una toppa peggiore del buco. È pericoloso sperimentare sul sistema della lingua senza prevederne i contraccolpi e le conseguenze sul piano della comunicazione”. Con “serenità e pacatezza” ma anche con pragmatismo e senza pregiudiziali ideologiche o politiche la novità che inizia a circolare deve essere vagliata “cum grano salis” per evitare che in un mondo in cui è già difficile comunicare e capirsi, non succeda di trovarci nel bel mezzo di una incomprensibile babele linguistica.

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