Salario minimo? Siamo tutti svizzeri
Gli svizzeri hanno bocciato a larghissima maggioranza il referendum sull’introduzione del salario minimo più alto del mondo. Grazie a questo voto, la Confederazione resterà un paese libero e prospero.
Il 76,5% dei cittadini ha detto no alla proposta di un salario minimo pari a 22 franchi l’ora (circa 18 euro), corrispondenti a una remunerazione mensile per un lavoratore a tempo pieno (42 ore settimanali) di circa 4.000 franchi (3.300 euro). Sebbene possa apparire uno stipendio consistente, bisogna considerare che il reddito medio nel paese è pari a circa 6.118 franchi mensili, e che soltanto il 10% della popolazione si trova al di sotto della soglia dei 4.000 franchi (anche se questa staistica è parzialmente ingannevole perché nasconde una realtà a macchia di leopardo tra le diverse aree geografiche). A prima vista, dunque, la portata della nuova norma sarebbe stata significativa ma non drammatica: non avrebbe avuto alcun impatto per 9 lavoratori su 10. Perché, allora, gli svizzeri hanno votato contro sia a livello federale, sia in ogni singolo cantone e semicantone? E perché questa notizia dovrebbe essere accolta con favore non solo da chi vive e lavora in Svizzera, ma anche da tutti gli altri?
La risposta migliore alla prima domanda viene da Johann Schneider-Ammann, ministro elvetico dell’Economia: la vittoria del ‘sì’ avrebbe comportato perdite di posti di lavoro, soprattutto quelli meno qualificati e nelle zone periferiche, dove “il lavoro è il miglior antidoto alla povertà”. Per capirne le ragioni, bisogna tenere in considerazione un aspetto fondamentale: il reddito di un lavoratore non è né una “variabile indipendente“, né un’elargizione più o meno generosa da parte del datore di lavoro. Il salario di un lavoratore è una misura della sua produttività: i salari sono tanto più alti – in un mercato concorrenziale – quanto più elevata è la produttività.
Ci sono due motivi teorici – e ampia evidenza empirica a supporto – per pensare che un salario minimo avrebbe conseguenze socialmente dannose. La prima è che, sebbene in principio nulla cambierebbe per i lavoratori a salario più elevato, tutti i lavoratori che oggi hanno un salario (cioè una produttività) inferiore finirebbero per essere sovraremunerati. Nel medio termine, questo porterebbe a un aggiustamento dal lato dell’offerta, con la riduzione o l’eliminazione di certe attività e la conseguente perdita del posto per gli addetti. In breve, un salario minimo è la via più diretta verso l’aumento della disoccupazione, in particolare tra i lavoratori poco qualificati. La seconda conseguenza del salario minimo (e, di fatto, anche della contrattazione nazionale, laddove il livello dei salari dipenda prevalentemente da questa anziché dalla negoziazione decentrata) è quella di schiacciare i redditi dei lavoratori a produttività più elevata verso il salario minimo: se per svolgere una certa occupazione mi servono mediamente 5 addetti, e 3 di essi hanno bassa produttività mentre altri 2 sono più dinamici, non potendo tarare il salario su ciascuno e dovendo in particolare pagare i 3 poco produttivi al di sopra della loro produttività marginale, finirò per fare una sorta di “pooling” dell’efficienza e compenserò il salario “eccessivo” di questi ultimi sotto-pagando (rispetto al loro “valore”) i due più produttivi. Di conseguenza, i salari minimi – specialmente quando sono molto elevati rispetto a quelli “di mercato” – finiscono per danneggiare soprattutto i lavoratori meno qualificati e, tra questi, quelli relativamente più produttivi.
Naturalmente, dal punto di vista empirico l’effetto del salario minimo può essere più o meno pronunciato, in funzione – tra l’altro – del livello a cui viene fissata l’asticella, delle dinamiche del mercato del lavoro, della rigidità della domanda dei beni e servizi in qualche modo coinvolti, e di altri fattori analoghi. In generale, però, è robusta l’evidenza secondo cui il salario minimo (o i suoi incrementi) o non hanno effetto sui tassi di povertà, oppure ce l’hanno è nel senso opposto a quello desiderato. Addirittura i livelli di disoccupazione di lungo termine in Europa sono stati più volte collegati alla rigidità del mercato del lavoro, di cui i salari minimi (o la contrattazione collettiva, che da molti punti di vista ha conseguenze analoghe) sono parte.
Tutto questo porta alla seconda domanda: perché la vittoria del ‘no’ al referendum svizzero è una buona notizia? Per la Svizzera, ovviamente, perché implica che la disoccupazione non crescerà. Per tutti gli altri perché, in un momento di forti ondate populistiche, rappresenta finalmente un argine “democratico”. Non è vero che la demagogia deve sempre e per forza avere l’ultima parola. Questa volta, possiamo davvero dire che siamo tutti svizzeri.
No, non possiamo dirlo: prezzi minimi imposti più o meno per legge nelle professioni liberali, nella contrattazione salariale, addirittura nelle polizze vita (già,
cos’ altro è il tasso tecnico massimo imposto ?)…, attengono all’ italico atteggiamento di sentirsi tutti produttori; basterebbe invece considerarsi tutti consumatori, cosa non difficile visto che cominciamo a consumare servizi medici quando siamo ancora delle morule e finiamo coi servizi funerari, nel frattempo consumando anche mentre dormiamo o siamo in ferie, e lavorando (= offrendo) una fetta (ogni giorno più) ridotta del tempo che ci tocca. Ma un popolo di miserabili quale noi siamo ragionerà sempre da (mancato) signore, mai da cittadino.
Proporre un paragone tra Italia e Svizzera rischia di essere comico. Siamo nel Paese dove gli invalidi prendono 280 euro al mese ed i falsi invalidi sono messi alla berlina in Tv proprio da chi succhia lo Stato senza ritegno come una sanguisuga, mentre negli altri Stati si ha diritto ad una indennità doppia con requisiti di invalidità molto più bassi.Quindi non sarebbero falsi invalidi, ma invalidi a tutti gli effetti. Non è proprio il caso di farne una questione di principio. Siamo morti di fame, non ce lo possiamo permettere, punto e basta.
Scusate, ma non ho capito questo passaggio (perdonatemi, non siamo tutti economisti): “Nel medio termine, questo porterebbe a un aggiustamento dal lato dell’offerta, con la riduzione o l’eliminazione di certe attività e la conseguente perdita del posto per gli addetti.”
Inoltre vorrei chiedere: se questo è vero (anche se non ne ho capito la ragione), questo accadrebbe anche se si introducesse il cosiddetto reddito di cittadinanza, cioè se sostanzialmente si dessero soldi anche a chi non lavora?
La proposta avrebbe avuto effetti significativi nelle zone di frontiera, dove anche il minimo proposto è a malapena sufficiente ad un tenore di vita dignitoso per una famiglia monoreddito che vive in Svizzera, mentre sarebbe abbondante per la stessa famiglia che vive oltrefrontiera. Quindi le imprese continueranno a privilegiare lavoratori con produttività simile ma che vivono qualche km più in là, semplicemente perché spendono in un paese con prezzi più bassi. Quindi le differenze salariali sono in parte dovute a differenti capacità produttive dei lavoratori, ma dipendono spesso anche dell’anzianità (anche se i più giovani seppur più inesperti hanno più voglia di mettersi in gioco), dalla storia professionale del lavoratore… E poi se fosse solo la produttività a determinare i salari, vedo difficile giustificare la differenza tra reddito reale di un autista di autobus di Zurigo con il suo omologo di Mumbai. Concludo facendo notare che l’abstract del paper del NBER inizia dicendo che non c’è consenso sugli effetti del salario minimo, anche se poi lo studio arriva a conclusioni diverse attraverso sofisticate tecniche econometriche. Ma come si sa, se si torturano abbastanza i dati confesseranno qualunque cosa.
Siamo tutti imprenditori!!…quindi ben venga la visione del post!..Hip hip hurrà!
Ma potrebbe anche essere che lo stato svizzero se lo può permettere…a difesa dello sfruttamento magari.quindi giustamente ci sarebbe una tendenza al ribasso dei salari con la disoccupazione, ma anche una diminuizione della sottoccupazione..annullandosi