Salario minimo: quel che si vede e quel che non si vede—di Federico Morganti
Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Federico Morganti.
Politiche dalle buone intenzioni hanno spesso conseguenze inintenzionali negative. Pochi interventi esemplificano questa realtà altrettanto bene quanto l’innalzamento del salario minimo. La critica economica al salario minimo si basa sull’idea che obbligare i datori di lavoro a pagare un dipendente più di quanto sia disposta a fare sulla base della produttività attesa, indurrà le imprese a recuperare quel costo in altre forme: effettuando tagli al personale, limitando le assunzioni, riducendo il salario di altri lavoratori, effettuando tagli su forme di benefit o altri costi, ricorrendo al lavoro in nero. Normalmente un innalzamento del salario minimo avrà effetti negativi sull’occupazione, come recentemente avvenuto a Porto Rico e Seattle.
I sostenitori del salario minimo tendono a contestare la connessione tra salario minimo e disoccupazione. Ne sia esempio un recente articolo su “The Atlantic”, che riassume in modo egregio gli argomenti (perlopiù di ispirazione keynesiana) a favore del minimum wage: paghe più alte aumentano la produttività dei lavoratori; le aziende possono compensare i costi aggiuntivi innalzando i prezzi dei beni offerti; salari più alti aumentano il potere d’acquisto dei lavoratori (sorvoliamo sul fatto che se i prezzi aumentano il potere d’acquisto diminuisce).
Se le scienze sociali insegnano qualcosa è che il comportamento degli attori sociali è estremamente difficile da prevedere. È questa, del resto, una delle ragioni per cui i liberali invocano lo stato minimo e la dispersione del potere decisionale. La verità è che nessuno può essere certo che un innalzamento del salario minimo abbia in tutti i casi l’effetto di ridurre i posti di lavoro. Secondo uno studio della Cornell University – riportato ancora da “The Atlantic” – negli Stati Uniti innalzamenti modesti del salario minimo non hanno avuto un impatto negativo sul settore della ristorazione, in termini di numero di ristoranti aperti o di posti di lavoro. Tuttavia, se lo studio non ha trovato effetti negativi, forse è perché si è concentrato unicamente sulle predizioni classiche (ad esempio la riduzione dei posti di lavoro). Srikant Devaraj della Ball State University ha studiato gli effetti del minimum wage nei ristoranti dello stato di Washington, trovando che a un innalzamento di 0.10$ nel salario minimo reale ha fatto seguito un aumento delle violazioni negli standard d’igiene compreso tra il 3.35 e l’8.99%. Insomma, salari più alti, ristoranti più sporchi, maggiori rischi per la salute. Un ristorante potrà anche mantenere invariato il numero dei posti di lavoro, ma per fronteggiare l’aumento di spesa potrebbe tagliare le ore lasciando inalterato il carico di lavoro: dipendenti che lavorano meno, o sono costretti a lavorare peggio, saranno meno efficienti nel tenere pulito un locale.
Il legislatore non ha il potere di sollevare le condizioni dei lavoratori per semplice decreto, né le capacità di anticipare in che modo gli attori sociali, in questo caso i ristoratori, reagiranno ai nuovi obblighi. Una cosa che può invece prevedere è che posto di fronte alla prospettiva di una perdita nel fatturato, il datore di lavoro cercherà in qualche modo di compensare. In termini più generali, affinché un’impresa prosperi deve poter organizzare la propria attività con pochi vincoli esterni. Se messa nelle condizioni di essere produttiva e soddisfare i propri clienti – ad esempio offrendo un locale pulito – sarà anche in grado di pagare di più i propri dipendenti. Il rischio, in caso contrario, è penalizzare questi ultimi sotto forma di condizioni di lavoro peggiori. Ora che in seno all’Unione Europea tornano a manifestarsi spinte per una revisione dei minimi salariali nazionali, sarà bene tenere a mente questi rischi.