Robin tax: vietare il divieto di traslazione
Robin Hood all’italiana non solo ruba a tutti per dare a sé: lo fa anche in modo farraginoso. E’ il caso della cosiddetta Robin Tax, introdotta nel 2008 e più volte rivista al rialzo negli anni successivi.
La legge del 6 agosto 2008 n. 133 (che convertiva in legge il decreto 25 giugno 2008, n. 112) stabiliva l’obbligo di pagare un’addizionale Ires di 5,5 punti percentuali per le aziende operanti (tra gli altri) nel settore energetico che avessero un volume di ricavi superiore a 25 milioni di euro. Nello stesso tempo, però, vietava di traslare questo onere aggiuntivo sui consumatori impedendo agli operatori di aumentare i prezzi. Vigilare sull’osservanza di tale disposizione era ed è ancora oggi compito dell’Autorità per l’energia elettrica e il gas. Attualmente, tuttavia, in seguito alla manovra finanziaria 2011 (art. 7 del decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138) e ad altri provvedimenti precedenti, la Robin Hood Tax del settore energetico è balzata al 10,5 per cento e riguarda tutte le imprese con ricavi superiori ai dieci milioni di euro e con un reddito imponibile maggiore al milione. Si estende l’obbligo anche alle società che gestiscono reti elettriche e del gas, oltre a quelle che utilizzano fonti rinnovabili, quali eolico e fotovoltaico. Nonostante l’incremento del balzello, è fatto salvo il divieto di traslazione. L’aumento dell’imposta ha prodotto contraccolpi negativi sul valore di borsa dei maggiori operatori, specie quelli attivi nei segmenti regolati del mercato (come Terna e Snam).
L’effetto di tale manovra si ripercuote sia sulle perfomance aziendali, sia sui consumatori. Relativamente alla prima, ne è un esempio Snam, che ha chiuso il bilancio 2011 con ricavi e utile in crescita, ma con un risultato netto inferiore del 28,6% rispetto all’anno precedente. Naturalmente la Robin Tax non ne è l’unica responsabile, ma certo ha una parte della “colpa”.
Per quanto riguarda l’effetto sui clienti, il parere dell’Aeeg è chiaro, dal momento che una simile imposta non può che ridurre gli investimenti nel settore, particolarmente necessari per le reti. Infatti, quando la Robin Hood Tax fu introdotta nel 2008 le condizioni di mercato (in particolare, il differenziale tra il prezzo di acquisto e quello di vendita) erano tali da rendere possibile per le imprese “assorbire” la tassa, ma oggi i margini si sono ridotti a causa di un costante calo dei consumi dovuto alla crisi internazionale che rende le aziende particolarmente vulnerabili. Se già prima era opinabile la volontà di tassare i presunti extra-profitti, l’effetto distorsivo della pressione fiscale è quindi oggi ancora più forte a scapito dell’ampliamento del livello competitivo e degli investimenti in innovazione e sviluppo.
L’imposta, dunque, colpisce i consumatori più di quanto li protegga dato che, di fatto, non può che causare una contrazione della quantità e della qualità dell’offerta. Che dire, allora, del divieto di traslazione? Innanzitutto, la stessa Autorità ammette che è difficile controllare e verificare che questo costo aggiuntivo non sia recuperato attraverso un incremento dei prezzi. Per esempio, prendiamo il caso delle bollette elettriche. Queste ultime sono determinate dal prezzo di mercato stabilito dalla borsa elettrica e dalla tariffa regolata: relativamente alla prima parte, per le imprese è possibile influenzarla in modo opportunistico. Se, nel momento di massima domanda, l’impianto marginale interrompe l’erogazione di corrente con il pretesto di un guasto, allora l’eccesso di domanda determinerà un incremento dei prezzi nella borsa elettrica che giustificherebbe l’aumento del prezzo del chilowattora, consentendo alle aziende di coprire la spesa aggiuntiva. Senza contare che i maggiori prezzi potrebbero essere determinati e giustificati da un aumento di altri costi rispetto alla tassa, ma anche questo non è verificabile. Relativamente alla seconda, il meccanismo tariffario nei segmenti regolati è disegnato in modo tale da incentivare un aumento dell’efficienza e, quindi, minori costi per i clienti, migliorare la qualità dell’offerta e incentivare dei miglioramenti delle infrastrutture. Con la nuova aliquota, impattando le percentuali di rendimento, diventa più complesso e costoso fare investimenti, limitando quindi la concorrenza nei segmenti non regolati, oltre a ridurre gli incentivi a contenere i costi e, quindi, le tariffe. In entrambi i casi, ci rimettono i clienti: vuoi con una minore trasparenza nel settore e incentivi da parte delle aziende ad adottare comportamenti opportunistici che interferiscono con la naturale formazione dei prezzi nella borsa, vuoi con un’offerta di minore qualità. Lo stesso vale per altri settori investiti dalla Robin Tax, quali il gas e i carburanti.
Poiché è nei fatti impossibile dimostrare o verificare se l’imposta sia stata traslata o meno, il divieto diventa una pura grida manzoniana. Da un lato, i prezzi non nascono per “somma dei costi” ma dall’equilibrio tra domanda e offerta. Dall’altro, la pretesa di verificare costringe imprese e Aeeg a produrre tonnellate di carta per dimostrare l’indimostrabile: tant’è che, come ha scritto Luca Bragoli, “i pochi provvedimenti sanzionatori comminati dall’AEEG sono stati annullati dal TAR”.
L’effetto del divieto di traslazione è quindi quello di rendere meno trasparente e più complesso il sistema di gestione e controllo del settore: eliminarlo non costerebbe nulla e sarebbe utile a snellire le procedure e rendere il mercato più competitivo.