9
Giu
2009

Robin Tax. Evidenza dall’Alaska

L’Alaska ha introdotto la sua “Robin Tax” – sotto forma di un’imposta progressiva sulla produzione di idrocarburi – nel 2006, e l’ha inasprita l’anno successivo. In pratica, l’aliquota – prima 20, ora 25 per cento – si applica sia sul petrolio che sul gas convertito in barili equivalenti di greggio. Inoltre, una volta superata una certa soglia (40 dollari nel 2006, 30 dollari al barile dal 2007) essa cresce a un tasso dello 0,4 per cento (inizialmente era 0,2) per ogni dollaro di aumento delle quotazioni del barile. Sugli ultimi due numeri di Oil & Gas Journal (qui e qui, subscription required) Dan Dickinson e David Wood ne valutano i risultati.

La riforma fiscale aveva un duplice obiettivo: far crescere il gettito fiscale e incentivare gli investimenti. Il primo obiettivo è stato raggiunto senza alcun dubbio: al netto dell’aumento del gettito dovuto alla corsa del barile osservata nella prima metà del 2008, la riforma fiscale ha determinato, a parità di altre condizioni, la moltiplicazione del gettito di circa cinque volte. A che prezzo, però? Anzitutto, l’aliquota marginale sul greggio ha raggiunto livelli inauditi. Scrivono Dickinson e Wood:

L’effetto è più pronunciato, per esempio, quando il valore della tassa di produzione è attorno ai 92,5 dollari al barile, nel qual caso circa 93 centesimi di ogni extra-dollaro di profitto vanno allo stato. Perché? Prima di aggiungere l’extra-dollaro, l’imposta di base sulla produzione era del 25 per cento, e l’imposta progressiva era del 24,6 per cento, con un risultato combinato del 49,6 per cento. Aggiungendo 0,4 per cento moltiplicato per i 92,5 dollari si aggiungono solo 37 centesimi di ulteriori tasse, ma questo equivale al 37 per cento dell’extra-dollaro che ha fatto scattare l’aumento fiscale. Aggiungete il 49,6 per cento al 37 per cento e, su una base differente, le royalties al 12,5 per cento, l’imposta sul reddito d’impresa del 9,4 per cento, e l’imposta sulla proprietà del 2 per cento, e avete raggiunto il 93 per cento.

Per ovviare a questo problema, è stata prevista una serie di misure sulla detassazione degli investimenti e degli utili reinvestiti. Questo avendo come obiettivo principe il gas, che per essere adeguatamente sfruttato richiede la realizzazione di adeguate infrastrutture. Sebbene il lasso di tempo che ci separa dall’introduzione della nuova imposta sia relativamente breve, cominciano già a emergere segni di ripensamento da parte della major, che non sono disponibili a scommettere miliardi di dollari per realizzare infrastrutture che poi trasporterebbero prodotti, a condizione che la maggior parte del loro valore fosse catturato dalle casse dello stato.

Inoltre, la riforma fiscale è di una complicazione quasi italiana, che determina la sostanziale imprevedibilità delle aliquote future in funzione dell’ammontare degli investimenti, della loro natura (olio o gas, esplorazione e produzione o infrastrutture di trasporto…?) e degli andamenti futuri dei prezzi del petrolio (a cui tutto è ricondotto, sebbene il gas segua, nel continente nordamericano, una traiettoria autonoma).

Più ancora dell’entità del prelievo e della sua natura confusa, però, i due autori denunciano la dinamica opportunistica che ha portato all’introduzione della nuova imposta. L’instabilità fiscale, insomma, può risultare agli occhi degli investitori un deterrente micidiale, rispetto alle loro decisioni di investimento, nonostante le caratteristiche favorevoli del sistema legale dell’Alaska rispetto a quelli di altri paesi produttori. Si chiedono Dickinson e Wood:

Cosa succederebbe se i gasdotti a lungo attesi fossero costruiti e venisse fuori che, anziché essere il futuro finanziario dello stato, finissero per ridurre il gettito? La storia degli ultimi tre decenni ci porta a concludere che tale esito molto probabilmente determinerebbe delle revisioni del sistema fiscale; i timori di tali revisioni sono stati più volte enunciati dai consessionari. In alternativa, se l’Alaska fosse in grado di fissare il suo disegno fiscale prima degli impegni contrattuali, potrebbe rendere questi impegni più probabili.

L’Alaska non è l’Italia, e viceversa. Le prospettive del nostro paese, quanto a produzione di olio e gas, sono infinitamente più ridotte e meno finanziariamente interessante. Però, da molti punti di vista soffriamo dello stesso problema, e non solo nel comparto energetico (gravemente e ingiustamente colpito dalla Robin Tax che, pur sortendo da ragioni simili all’imposta progressiva dell’Alaska, si accanisce contro compagnie che neppure hanno potuto lucrare sulle quotazioni stellari del barile). L’instabilità delle norme fiscali, e di altro tipo, hanno spesso impedito il concretizzarsi di investimenti importanti. Non lo capiremo mai troppo presto, ma è pur sempre meglio troppo tardi che mai.

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