Ritorno alla realtà
Venerdì scorso la Federal Insurance Deposit Corporation (FDIC) ha preso il controllo dell’ennesima banca in condizioni di dissesto. Una liturgia, dai tratti anche spettacolari, che nel solo 2009 si è ripetuta 77 volte. La differenza è che questa volta il profilo della banca commissariata è peculiare, per dimensione degli attivi e diffusione territoriale. Si tratta infatti di Colonial BancGroup, istituto basato a Montgomery, Alabama, con 25 miliardi di dollari di attivi e 346 sportelli, disseminati tra Florida, Alabama, Georgia, Nevada, e Texas. Una banca le cui dimensioni sono di circa 10 volte superiori a quelle medie dei precedenti interventi. Si aggravano quindi le condizioni dell'”altro” sistema bancario statunitense, quello che non assume la forma di holding bancaria ma di realtà creditizia statale o interstatale dedita in prevalenza alle tradizionali attività di banca commerciale, la raccolta di depositi dalla clientela e l’impiego prevalente attraverso erogazione di prestiti.
E’ la testimonianza di quanto la crisi economica stia mordendo, con dissesti legati al crollo del valore delle proprietà immobiliari ed all’aumento di disoccupazione, che genera insolvenze sul credito al consumo. E si inasprisce l’onere diretto ed indiretto sulle casse federali, attraverso l’azione della FDIC. Lo scorso anno, durante quello che era erroneamente considerato il picco dei fallimenti bancari, l’agenzia federale aveva accantonato 25 miliardi di dollari per coprire le perdite potenziali future. Ora, a distanza di 12 mesi, il numero di banche “problematiche”, inserite nella lista di osservazione dell’agenzia guidata da Sheila Bair è salito da 90 a oltre 300, per un valore combinato di attivi pari a 220 miliardi di dollari.
La misura della gravità della crisi (e degli errori compiuti dai banchieri nel fare il proprio mestiere) si coglie anche da un altro dato, segnalato dal Wall Street Journal di venerdì. Per le 102 banche cadute in dissesto negli ultimi due anni, il costo medio stimato per la FDIC, e quindi per il contribuente americano, è pari a ben il 34 per cento degli attivi, a fronte di una media del 24 per cento del periodo tra il 1989 ed il 1995, quando 747 istituzioni finanziarie vennero chiuse dal regolatore. E non basta: per tre delle cinque banche fallite venerdì scorso, tra le quali vi è Colonial, il tasso di perdita è stimato a circa il 50 per cento degli attivi. Paradigmatico il caso della Community Bank of Nevada, che costerà ai contribuenti ben 781,5 milioni di dollari su un totale di attivi pari a 1,52 miliardi. A tal punto è giunto il grado di ammaloramento dei bilanci bancari come confermato anche da una stima, elaborata da Bloomberg, che vede oltre 150 istituti statunitensi quotati gravati da crediti inesigibili netti che eccedono il 5 per cento degli attivi. Un livello tale da spazzare via il patrimonio netto e minacciarne la sopravvivenza, numero raddoppiato nell’anno concluso a giugno, a causa della crisi dei prestiti commerciali e personali.
Come si intuiva già al momento dell’effettuazione degli stress test all’acqua di rose di Timothy Geithner, mesi addietro, il cuore del problema stava nelle banche “minori”, quelle con assets inferiori a 100 miliardi di dollari, e soprattutto nei loans, iscritti a bilancio al valore di origination e poco o nulla soggetti ad un impairment test che li avrebbe riavvicinati al loro valore intrinseco. Ci si è preoccupati delle istituzioni troppo interconnesse per fallire, delle holding bancarie con robusto proprietary trading desk e ci si è “scordati” della spina dorsale delle banche commerciali di comunità, sperando che l’alta marea del rally di borsa avrebbe consentito di raccogliere nuovi mezzi freschi per controbilanciare le perdite emergenti. L’obiettivo era quello di acquistare tempo, e abbellire i bilanci riducendo l’accantonamento alle poste per perdite su crediti, come segnalato anche dalle vituperate agenzie di rating, segno evidente dell’artigianalità della mossa dei banchieri.
Le cose stanno andando assai diversamente. E mentre il Financial Accounting Standards Board, in un soprassalto di etica professionale, sta meditando di reintrodurre il mark-to-market proprio per i tradizionali prestiti, mossa che lo riscatterebbe dall’autorizzazione al mark-to-fantasy per le cartolarizzazioni concessa nei mesi scorsi, i mercati azionari decidono di prendere profitto dal gigantesco e surreale rally in corso da quasi sei mesi, guidato dai fantomatici germogli che in realtà erano solo il combinato disposto dello scioglimento di un imponente iceberg di liquidità e di risultati trimestrali non peggiorativi di un’asticella che era stata preventivamente ed opportunamente abbassata a portata di pigmeo. Ma gli utili veri sono altra cosa, così come una ripresa che non sia solo il tentativo di stabilizzazione dell’attività economica su livelli depressi.
Update: la parte sana degli attivi di Colonial sarà rilevata da BB&T, ed è prevista una condivisione delle perdite tra la FDIC e l’acquirente. Quest’ultima ha precisato che non acquisirà attivi che siano palesemente frutto di attività fraudolenta. Sembra surreale, ma questi sono i termini dell’accordo, nell’America che sta lentamente risvegliandosi dall’ubriacatura di credito.
Nel frattempo la FED posticipa la fine del programma TALF al Giugno 2010.
Evidentemente le cose non vanno tanto bene come vogliono farci credere….
A questo punto la FDIC non dovrebbe disporre più di fondi… o quasi (anche perchè non è chiaro l’impatto effettivo dei conto della Colonial). Però non è che le banche maggiori se la passino tanto meglio. La vera differenza è che queste non possono fallire a differenza di quelle più piccole. Varrebbe la pena di verificare quale sia il valore dei derivati a leva detenuti da Citi, Bofa e le altre. Per questi derivati le regole FASB permettono una valorizzazione… di fantasia. Ma fino a quando?
Vista la situazione mi sembra che le promesse da marinaio sul mutamento delle regole della finanza profferite lo scorso autunno sull’onda del default globale siano ampiamente state accantonate.
Mi chiedo poi, viste le cifre in gioco, se le casse pubbliche statunitensi anche a volerlo abbiano soldi a sufficienza per mettere argine a questi continui dissesti e ad eventuali altri che al momento hanno magari nascosto sotto al tappeto.
Detto questo siamo sicuri che il turbo liberismo finanziario di stampo anglo-americano sia ancora il fulgido esempio da imitare come è stato d’obbligo da una quindicina d’anni a questa parte? Siamo sicuri che l’effetto finale non sarà un botto stile economia post sovietica con qualche decina di milionate di disperati alla stessa maniera?