Rinegoziazione contrattuale e COVID-19: a proposito di una recente ordinanza del Tribunale di Roma
È noto che il diritto contrattuale di ogni ordinamento giuridico vive una tensione tra gli opposti principi di pacta sunt servanda e rebus sic stantibus: cioè, tra l’idea, da una parte, che quanto fissato nel regolamento contrattuale vada necessariamente osservato e l’idea, dall’altra, che le sopravvenienze debbano essere prese in considerazione là dove alterino il significato economico e normativo dell’impegno pattizio. Questa tensione è stata resa ancor più evidente dalle conseguenze della pandemia da COVID-19, un evento imprevedibile e oggettivamente grave che ha sconvolto le aspettative di molti, incluse (e, forse, soprattutto) le parti di contratti di lungo periodo. Si pensi, ad esempio, ai tanti immobili locati dagli studenti o dai lavoratori fuorisede, rimasti inutilizzati a causa del lockdown, prima, e delle restrizioni alla libera circolazione, poi; o, ancora, ai locali commerciali il cui canone è risultato improvvisamente più oneroso del passato, a causa della riduzione del volume d’affari delle attività economiche lì esercitate.
È naturale chiedersi chi, in questo genere di situazioni, debba sopportare il rischio della sopravvenienza: detto altrimenti, è il locatore che deve perdere il canone pattuito, perché il conduttore non può utilizzare il locale, o è quest’ultimo che deve continuare a pagare quanto dovuto, anche se il locale è rimasto inutilizzato? Posta in forma di secca alternativa, la domanda non ammette una risposta a priori corretta: se è vero, infatti, che possa apparire iniquo far pagare per qualcosa che non si può usare (o si usa non nel modo previsto) per causa di forza maggiore, è altrettanto vero che la posizione del locatore è ugualmente meritevole di tutela, dal momento in cui questi può aver sopportato costi più o meno ingenti, o può aver rinunciato ad altre opportunità, per acconsentire a quella locazione, e può fare affidamento sul canone per altre personali spese. È chiaro che la soluzione più auspicabile sarebbe quella di una rinegoziazione spontanea delle parti, le quali – tenuto conto delle mutate condizioni – dovrebbero essere disposte a farsi reciproche concessioni, sì da “condividere”, e distribuire equamente nelle rispettive sfere, il peso della sopravvenienza. Per quanto opportuna, una soluzione del genere è però rimessa alla libera volontà di tutte le parti coinvolte nella relazione giuridica: se la parte che non subisce la sopravvenienza non vuole acconsentire alla rinegoziazione, in via generale non esistono rimedi percorribili. Ci sono, certo, soluzioni settoriali: si pensi, ad esempio, all’art. 1623 c.c., in materia di contratto d’affitto (species del genus “locazione”), o all’art. 1664 c.c., in materia di contratto d’appalto. Fuori dalle ipotesi specifiche, l’unico rimedio è quello dell’art. 1467 c.c., che ha però natura essenzialmente “demolitoria” del contratto, consentendo alla parte che ha subito la sopravvenienza di sciogliersi dal vincolo contrattuale, salva la riduzione ad equità offerta dalla controparte.
La strada per l’individuazione di uno strumento “conservativo”, che permetta dunque la sopravvivenza e l’adattamento del contratto, è stata percorsa con esiti diversi dalla dottrina. La via che gode di maggior fortuna è quella che individua nella buona fede oggettiva (cioè nell’obbligo di comportarsi correttamente, ex art. 1175 e 1375 c.c.) la fonte per introdurre un dovere di rinegoziare le condizioni originariamente pattuite, quando il loro senso economico-normativo sia stato stravolto dalle sopravvenienze. Si tratta di una strada i cui pro e contro non possono essere adeguatamente osservati in questa sede: qui, invece, è possibile rilevare come pacifica sia la convinzione che un dovere del tipo predetto non è, attualmente, esistente nel nostro ordinamento. Prova ne è che il legislatore, impegnato nel progetto di riforma del codice civile, sta valutando l’opportunità di introdurlo in via positiva, secondo l’indicazione contenuta all’art. 1 co. 1 lett. i) del d.d.l. recante delega al governo per la revisione del codice civile, che prevede «il diritto delle parti di contratti divenuti eccessivamente onerosi per cause eccezionali ed imprevedibili, di pretendere la loro rinegoziazione secondo buona fede ovvero, in caso di mancato accordo, di chiedere in giudizio l’adeguamento delle condizioni contrattuali in modo che venga ripristinata la proporzione tra le prestazioni originariamente convenuta dalle parti». Incidentalmente, deve rilevarsi come questa previsione non sia unanimemente approvata in dottrina: vi è chi, infatti, ne evidenzia l’inerente incertezza, con il rischio di scoraggiare gli investimenti, specialmente stranieri (così, in generale, Tuccari, Sopravvenienze e rimedi nei contratti di durata, 2018); e chi osserva che la regola de iure condendo pecchi sia per difetto che per eccesso, perché, da una parte, mantiene il limite dell’eccezionalità e dell’imprevedibilità e, dall’altra, impone il dovere di rinegoziazione anche quando ciò potrebbe produrre dei costi a carico della parte non affetta dalla sopravvenienza tali da metterla a rischio di fallimento (così Nicolussi, The Pandemic and Change of Circumstances in Italy, in Coronavirus and the Law in Europe, 2020).
Se, dunque, è possibile argomentare critiche legittime rispetto a una introduzione per via legislativa dell’obbligo di rinegoziazione, a maggior ragione si dovrebbe essere diffidenti rispetto a una sua introduzione per via giurisprudenziale. Non convincono, allora, gli argomenti esposti dal Tribunale di Roma in una recente ordinanza che ha, ancorché in via cautelare, disposto la riduzione dei canoni dovuti in forza di un contratto di locazione di un locale commerciale del 40% per i mesi di aprile e maggio 2020 (causa lockdown) e del 20% per i mesi da giugno 2020 a marzo 2021 (dal momento in cui, anche dopo la riapertura dell’esercizio commerciale, l’accesso della clientela è contingentato per ragioni di sicurezza sanitaria). Pronunciarsi in tal modo, da parte del giudice, equivale ad avocare a sé un potere che la legge non gli ha attribuito – e a riprova di questa elementare osservazione sta proprio la novella de iure condendo che si è sopra ricordata: perché il legislatore starebbe considerando addirittura di riformare il codice civile, se già oggi il giudice potrebbe adeguare le condizioni contrattuali semplicemente invocando il generale obbligo di comportarsi secondo buona fede gravante sulle parti?
Il tema, invero, è innanzitutto quello dei rapporti tra la legge e una giurisprudenza sempre più “creativa”, se non “creazionista”. Non c’è dubbio che il giudice entri in presa diretta con “nuovi” problemi anche prima del legislatore e senta, come è stato nel caso in esame, l’imperativo di “fare giustizia”. Ma si tratta di un imperativo cui il giudice dovrebbe rispondere sempre nelle forme e nei limiti di quella legge cui egli è soggetto (art. 101 co. 2 Cost.): si tratta, in altre parole, di resistere alla tentazione di sostituire l’urna elettorale con la sentenza e una democrazia di milioni di elettori con una fatta da una sola manciata di essi. E questo perché, quando entrano in conflitto diritti di pari dignità e aspettative tutte meritevoli di tutela (come, nel caso in parola, sono quelle che fanno capo al locatore e al conduttore) è il Parlamento, non il tribunale, il luogo deputato ad amministrare e comporre questi casi di collisione. Certo, l’intervento del legislatore è lento e ci sarà sempre chi lamenterà che è arrivato “in ritardo” o che sia eccessivamente “compromissorio”: ma quel ritardo e quel compromesso sono prova, di solito, del fatto che nella società si è raggiunto un consenso sufficientemente diffuso rispetto al modo di regolare la vicenda di volta in volta in rilievo. In quel ritardo e in quel compromesso, allora, c’è una tendenziale garanzia che tutti i portatori di interessi legittimi siano stati adeguati ascoltati e che la soluzione approvata costituisca un accettabile punto di arrivo (o di partenza) per ciascuno di loro. Locatori e conduttori hanno ovviamente obiettivi divergenti e la pandemia da COVID-19 ha di certo acuito questa distanza: ma nemmeno una circostanza così straordinaria dovrebbe autorizzare a cercare una soluzione a quel conflitto al di fuori della contrattazione privata o della tutela della legge.