Rifugiati e asilo, quote immigrazione, cittadinanza: a occhi liberali il nodo non è slogan reato-sì-reato-no
Purtroppo, continua il flusso di disperati verso le coste italiane, in fuga dagli “Stati falliti” africani e mediorientali – al Corno d’Africa e all’Africa subsahariana dal mail al Sudan si aggiungono siriani e afghani. La pessima novità è che il fenomeno, classicamente estivo, non si ferma neanche davanti ai marosi autunnali. E le vittime aumentano. La questione dell’immigrazione riesplode a ogni dramma, figuriamoci davanti a tragedie come quelle attuali, con centinaia di vittime in un giorno solo.
Ogni volta bisogna porsi un limite che dovrebbe essere ferreo: evitare la demagogia, gli scontri di bandiera, le parole d’ordine contrapposte. I temi epocali del nostro tempo su queste materie – i migranti, il diritto di asilo, quello di cittadinanza, la sicurezza di un’idea sempre più labile come quella delle frontiere, il respingimento e l’espulsione, l’integrazione nei diritti civili e amministrativi, le necessità dell’economia e la sua capacità in tempi di crisi – non si risolvono a colpi di slogan. Per tantissimi versi, è uno slogan anche quello molto politicamente corretto oggi, l’abrogazione del reato di clandestinità introdotto dalla Bossi-Fini. Anche se, a dirlo, si corre il rischio inevitabile di essere incapsulati nella camicia di Nesso di ogni confronto pubblico italiano, quello tra destra e sinistra che viene prima di ogni merito delle cose.
Qualche riflessione di merito, appunto, per dare sostanza a un paio di conclusioni diverse da quelle più ricorrenti. Se ci fermassimo al solo nodo del reato, è evidente che la sua prassi applicativa, risolta in archiviazioni di massa da parte dei magistrati e in sanzioni pecuniarie quasi mai pagate, dovrebbe portare alla rapida conclusione che non è il vero problema da affrontare. Ha avuto in questi anni più che altro l’effetto – comunque utile – di ispessire l’anagrafe documentale della recidività e dei comportamenti legati alla sottrazione dolosa dall’obbligo di espulsione e reimpatrio. Cose amare a fronte della tragedia umanitaria di migliaia e migliaia di esseri umani in fuga da violenza e miseria, ma comunque necessarie allo Stato.
Quelli che appaiono come veri nodi non hanno a che vedere con il giro di vite – reato e procedure di espulsione amministrativa – introdotte dalla Bossi Fini rispetto alla Turco-Napolitano. Non si risolvono neppure con le pur auspicabili misure in via di potenziamento europeo dopo l’ultima strage di Lampedusa, cioè il potenziamento di risorse del sistema comunitario Frontex, uomini e mezzi per la sorveglianza del Mediterraneo fin dalle coste dei paesi da cui partono le navi-madre degli scafisti e i barconi della morte. Misure necessarie – ripetiamolo – per contenere il fenomeno all’origine e per disporre di mezzi che limitino le vittime con più tempestivi salvataggi. Ma poi il problema resta, di migliaia di salvati dalle acque ai quali dare risposta all’approdo in Italia. Distinguiamo, allora, tre questioni diverse.
La prima riguarda il diritto di asilo. Nel solo ultimo ventennio, abbiamo avuto in Italia circa 350mila richieste, il doppio d quanto se ne fossero registrate dal 1946 agli anni Novanta. Qui sì che occorre un negoziato serrato con l’Europa. Abbiamo strutture – lo Sprar, servizio per i richiedenti asilo e rifugiati – molto sottodimensionati alla bisogna tra Stato ed Enti Locali. Abbiamo tempi troppo lunghi per esaminare le domande. E, soprattutto, grandi paesi europei hanno nel tempo sistematicamente praticato il respingimento di migranti verso l’Italia, in cui era stata registrata la loro domanda di asilo. E’ una prassi più volte condannata dalla Corte europea come dagli stessi tribunali nazionali, per esempio vi sono sentenze tedesche, ma sul diritto di asilo occorre oggi una convenzione europea – e ONU perché il problema dei rifugiati ricade in pieno nelle competenze sovranazionali del suo Trattato – che valichi le differenti leggi nazionali in materia di immigrazione. Perché è all’Unione europea, non all’Italia da sola, che l’asilante chiede il riconoscimento del suo status.
La seconda e la terza questione riguardano invece la nostra legislazione nazionale. Parliamo cioè delle quote d’immigrazione regolare e della cittadinanza: scinderle è un errore.
I flussi annuali con garanzia di lavoro in Italia, il consolidato dell’evoluzione da Turco-Napolitano a Bossi-Fini, sono il punto più importante da innovare, più della stessa nozione della clandestinità come reato. La rapidità del fenomeno immigrazione dagli anni ’90 in Italia ha fatto sì che da metà degli anni 2000 la percentuale di abitanti – contano quelli, più dei residenti – nati all’estero nel Centro-Nord italiano abbia superato la media nazionale francese, e abbia raggiunto la media nazionale tedesca, sopra il 10%. Ha generato da una parte un buon assorbimento nelle qualifiche di lavoro più basse, “scansate” dagli italiani, ma poi ha iniziato a fare i conti con il milione di disoccupati in più dal 2011 a oggi, per effetto della crisi. E’ venuto il tempo anche in Italia di adottare non solo quote annuali, ma riserve per qualifiche e titoli più elevati: com’è avvenuto prima di noi in Paesi ad alta immigrazione, negli anni 2000 nel Regno Unito e in Germania, con riserve per ingegneri e tecnologi.
La stessa esperienza dei Gasterbeiter tedeschi, i “lavoratori ospiti a tempo” necessari alla ripresa tedesca negli anni ’50 tra cui moltissimi italiani e turchi, a molti fa arricciare il naso ma ha qualcosa da insegnarci. Noi siamo un paese a bassissima curva demografica, con poco più di 1,2 nati per donna rispetto a 2 che sarebbe necessario per evitare il declino. Questo significa che – sperando nella ripresa – avremo bisogno per anni di 120-150 mila immigrati regolarizzati l’anno per l’equilibrio dei conti intergenerazionali (banalmente, servono contributi all’Inps). Ma, al contempo, proprio perché siamo a bassa natalità italiana, non è che si possa trascurare l’effetto che una percentuale di immigrati ormai “europea” rappresenta rispetto a una comunità italiana declinante (170-180 nuovi stranieri per 100 nuovi nati italiani, ormai, nelle grandi città del Nord).
A questo genere di nuove scelte economiche per rendere meglio integrabile l’immigrazione regolare si lega anche la questione della cittadinanza. Essa parte da una disciplina più ampia dei permessi di soggiorno per studenti minori e maggiorenni (oggi il diritto al ricongiungimento familiare è da noi negato per pure questioni economiche, mentre dal punto di vista dell’interesse sia umanitario che economico nazionale è una fesseria privarsi di ragazzi che studino e crescano qui), passa per la modifica della nozione attuale di residenza legale – gli immigrati cambiano spesso località di soggiorno, e questo finisce per inibire la richiesta di cittadinanza – per arrivare poi fino alla vexata quaestio dell’eventuale superamento dello ius sanguinis, visto che i nati – ma io dico anche solo i cresciuti – qui dovrebbero essere agevolati a sentirsi e a divenire formalmente cittadini italiani a pieni diritti.
Mi rendo conto, questioni complesse. Ma senza una visione organica e toni adeguati, inseguire i drammi con urla contrapposte non risolve il problema. E’ la terribile esperienza di tutti questi anni, mettiamola a frutto.
Egregio Sig. Giannino, la Bossi Fini, L. 189 del 2002, non ha introdotto il reato di clandestinità, perchè l’art. 10 bis del D.lgs 286/98 (t.u. sull’immigrazione, modificato anche dalla Bossi Fini), cioè, il reato suddetto, è stato introdotto solo nel 2008, da uno dei tanti pacchetti sicurezza emanati dal legislatore.
Il problema andrebbe risolto prioritariamente attraverso la politica internazionale, ma l’Occidente ha ormai da tempo perso la capacità di gestire le crisi con una visione strategica di lungo periodo. Mi riferisco tanto agli USA quanto all’Europa, che riesce a far molto peggio di Bush jr. e Obama messi assieme con la sua visione di piccoli interessi di bottega. Così che Putin può assurgere a salvatore dell’Occidente quando forza la mano al regime di Assad per smantellare le armi chimiche al solo scopo di salvare l’ultima sua base navale nel Mediterraneo, quella di Tartus.
Con la sostituzione del feroce quanto megalomane Gheddafi con il nulla, si è sortito l’effetto di lasciare la Libia in mano a veri e propri “signori della guerra”. Nell’anarchia violenta che si è instaurata da Bengasi a Tripoli, i trafficanti di schiavi hanno vita facile a mettere in mare migliaia di disperati su ex pescherecci costieri abbandonati da anni, rimessi in mare in modo approssimativo per fare un solo viaggio e sovraffollati.
L’indecisionismo occidentale con la Siria ha finito per lasciare l’opposizione in mano ai jihadisti infiltrati e finanziati dalle monarchie del Golfo. Risultato: una guerra civile al limite del reciproco genocidio (dagli atti di cannibalismo fino ai gas chimici, nessuna parte si salva) e 2.172.559 profughi ad oggi già alloggiati nei campi ONU od in attesa di esservi ammessi ( http://data.unhcr.org/syrianrefugees/regional.php ); in più c’è un’enormità di altri profughi che sfuggono ad ogni censimento. Si spiega in questo modo il crescente numero di siriani che cercano rifugio in Europa e che si riversano sull’Italia dopo l’inasprimento dei controlli alle frontiere greche. Questo nuovo traffico si aggiunge a quello consueto dei profughi provenienti dal Corno d’Africa e dalle altre regioni nordafricane.
Passando dalla politica internazionale a quella europea, vediamo che l’Italia è sostanzialmente lasciata sola di fronte a problemi creati dalla stessa Europa, Francia in testa. Non è un rapporto simmetrico corretto. L’Europa non vuole i migranti, ma l’Italia deve accoglierli e farsi carico delle operazioni di sorveglianza e soccorso con il suo magro bilancio e senza un’adeguata flotta di aerei da pattugliamento marittimo.
Ottima analisi.Purtroppo nel nostro paese prevale il buonismo impotente e l’oltranzismo paralaio
Domanda: ” ma l’Italia, col 40% di disoccupati, ha bisogno di importare manodopera?
Sono in buona parte d’accordo con l’articolo ma su alcuni punti non vedo molta incisività.
In primis, le quote riservate a qualifiche più elevate nell’ambito delle quote annuali mi sembrano poco rilevanti: la realtà è che l’Italia non riesce ad attirare professionalità elevate perché non sa cosa farsene. Tutti dibattono degli ingegneri che non arrivano ma poi ci ritroviamo con immigrate laureate in Medicina che fanno le badanti. Questo mi sembra più un problema del mercato del lavoro italiano che un effetto dell’immigrazione.
A seguire, nessuna politica sulle quote potrà avere successo se non si riforma in modo efficiente la presenza diplomatica italiana (Ambasciate e Consolati) all’estero. Chi scrive ha vissuto per lunghi anni all’estero vergognandosi dell’organizzazione spicciola delle attività amministrative delle nostre sedi oltre confine. Se i modi di un ufficio pubblico italiano sono inaccettabili in Italia, diventano più che scandalosi fuori d’Italia: il risultato è che i disperati vengono per le vie spicce e gli altri evitano le vie regolari (che qualche volta costano anche di più).
Ancora, la scelta di non monitorare e contrastare il traffico di clandestini già presso le basi di partenza è un autogol in termini di efficacia e anche di costi: una delle ragioni della fine degli arrivi dall’Albania è stato dato dalla presenza fissa italiana sull’isola di Saseno che domina la baia di Valona. Prima di darsi la zappa sui piedi facendo la guerra a Gheddafi, l’Italia avrebbe dovuto almeno concordare coi ribelli qualche diritto di presenza nelle acque libiche per il controllo dei flussi. Purtroppo la nostra classe politica e diplomatica a certe raffinatezze non giunge. Il risultato è che la nostra attività si limita all’assistenza in mare e all’accompagnamento in un porto italiano. Più che uno schermo, siamo dei facilitatori e dopo la vicenda accaduta al comandante di nave Sibilla, l’unico a tentare di resistere agli sbarchi, che è stato processato e ha avuto la carriera distrutta, si può ben immaginare che le forze italiane non faranno mai qualcosa per contrastare gli arrivi.
Infine, quale che sia la normativa per la concessione del diritto di asilo o di soggiorno, la procedura dovrebbe essere affidata a una Procura Speciale con poteri discrezionali e senza possibilità di ricorrere restando sul territorio italiano (Kabobo docet!).
L’articolo lascia perplessi, in quanto manca una visione quantitativa del problema: su questa terra siamo un po’ più di sette miliardi; se ipotizziamo che un terzo se la passi male o molto male abbiamo quasi due miliardi e mezzo di persone che averbbero una buone ragione per migrare. È molto evidente che qualsiasi siano i problemi che si vogliono affrontare l’accoglienza sul territorio italiano o europeo NON PUÒ essere la soluzione. Da notare anche che pressochè tutti i paesi europei stanno stringendo i freni, talvolta drasticamente tanto in materia di immigrazione che di cittadinanza e non vedo alcun motivo perchè l’Italia dovrebbe fare l’opposto. Quanto ai conti dell’INPS, si possono equilibrare i conti molto più efficacemente utilizzando i disoccupati e gli inoccupati e qualora fossero insufficienti la manodopera “occupata” in posizioni poco o per nulla produttive. Se gli italiani non vogliono fare certi lavori, cerchiamo di persuaderli, magari anche rendendo tale lavori più gradevoli e/o meglio retribuiti: si tratta di organizzazione del mercato del lavoro più che di demografia. Viceversa cosa fa pensare che gli immigrati, una volta regolarizzati, integrati e divenuti cittadini italiani siano ancora disposti a fare i lavori che gli Italiani autoctoni non vogliono fare? È evidente che neanche loro vorranno farli ed il problema si ripresenterà aggravato: è questa la chiave di lettura delle rivolte in molte perifereie europee come ad esempio in Francia: ai francesi di origine straniera vengono proposti lavori poco appetibili che essi naturalmente rifiutano, rimanendo disoccupati, e arrabbiati. La situazione tende a peggiorare con il tempo.
Egregio Giannino, ha mai visto una domanda d’immigrazione per il Canada?Le spiego, il Canada che ha molte piu’ risorse naturali dell’Italia o di tutta l’Europa messa insieme, in cui si parla l’inglese, lingua parlata in tutto il mondo,il paese che non e’ sovrappopolato in rapporto al territorio,richiede che chiunque voglia fare la richiesta d’immigrazione deve farla in una qualsiasi ambasciata fuori dal territorio Canadese, deve parlare correttamente la lingua del paese e deve possedere titoli e prove di un lavoro precedente.In Canada richiedono titoli di studio elevati in materie ingegneristiche in modo che se si perde un lavoro se ne trova facilmente un altro senza gravare sul cittadino Canadese.il problema dell’invecchiamento della popolazione e’ presente in tutti I paesi anche dove non c’e’ immigrazione,vedi Cina.Un qualsiaisi immigrato va dove lo stipendio e’ piu’ alto, come Dubai.non dove lei vuole che vada.Mi sembra proprio che in Italia a parte le chiacchiere da Bar dello Sport non si analizzi mai un problema.Distinti saluti