Riforma della Costituzione: non basta dipingere a strisce un mulo per farlo diventare una zebra
In un bel film del 1951 – L’asso nella manica di Billy Wilder – un giornalista privo di scrupoli si imbatte, in una località sperduta del New Mexico, nel crollo di una vecchia miniera dismessa, dove è rimasto sepolto un poveraccio che andava alla ricerca di antichi cocci degli indiani nativi. Fiutando lo scoop, il giornalista si assicura l’esclusiva e convince la moglie, lo sceriffo e gli appaltatori a perforare la montagna dalla cima, anziché entrare nella galleria e puntellarla a dovere. Così un’operazione di soccorso che poteva essere risolta in poche ore si trasforma in un lavoro di giorni alla presenza della comunità dei mass media, oltreché dal contorno vociante e festoso di una miriade di curiosi che confluiscono lì con le roulotte da ogni parte del Paese, portandosi appresso venditori di hot dog, saltimbanchi ed intrattenitori di ogni tipo. Persino un Luna Park attrezzato. Alla fine, il poveraccio, costretto a rimanere sepolto per alcuni giorni, ci lascia le penne.
Mi torna alla mente questo film – che mi impressionò da bambino e che ho rivisto da ragazzo nei cineforum – ogni volta che la politica riapre il dossier delle riforme costituzionali. Da studente di giurisprudenza mi insegnarono che i Padri Costituenti vollero varare una Legge fondamentale rigida non solo per evitarne lo stravolgimento come era successo con lo Statuto Albertino. In quella scelta vi era, soprattutto, l’invito a non essere troppo disinvolti nel modificare delle regole basilari per le istituzioni democratiche. Soprattutto, non è mai consigliabile modificare la Carta al solo scopo di assecondare un particolare stato d’animo dell’opinione pubblica, per sua natura mutevole.
La riforma del Titolo V, che tutti hanno criticato e cercato di modificare (in prima fila le forze politiche che l’attuarono), fu dettata dalla sbornia regionalista con cui la Lega di Umberto Bossi indusse gli altri partiti a credere di risolvere così la “questione settentrionale”, una sorta di fiume carsico che riemerge periodicamente magari con l’attuale definizione di autonomia differenziata. Toccò, poi, al bicameralismo perfetto, nella XVII legislatura, di essere descritto come il più grave dei malanni delle nostre istituzioni, dando luogo alla riforma Renzi/Boschi che andò in frantumi nel referendum confermativo.
Ecco, allora, dove calza la metafora de L’asso nella manica: non si smantella una Costituzione quando sarebbe bastata una radicale revisione dei regolamenti per ridurre i tempi del processo legislativo anche in un contesto bicamerale perfetto. Sono stati i regolamenti parlamentari, durante la Prima Repubblica, a dare un’impronta assembleare alle Camere allo scopo di consentire al Pci di “governare dall’opposizione”. Poi, le norme evolvono.
Oggi, soprattutto in materia economica, si legifera per decreto legge, che viene convertito normalmente entro 60 giorni, perché non sono più ammesse le infinite reiterazioni di un tempo. E non si è dovuto cambiare l’articolo 77 . E che dire dei poteri del Capo dello Stato? Giorgio Napolitano, prima, Sergio Mattarella, poi, li hanno sicuramente esercitati in maniera diversa dai loro predecessori (anzi, ogni presidente della Repubblica ci ha messo del suo) senza che la loro azione fosse ritenuta non conforme a quanto le norme consentivano.
Oggi la suggestione di una “democrazia governante” si è spostata dal potere legislativo a quello esecutivo. Giorgia Meloni ha aperto un confronto con i partiti di opposizione con la consapevolezza di avere un vantaggio: tutte le forze politiche, magari in modi differenti e in epoche diverse, si sono “compromesse” con la retorica delle riforme, tanto da rendere politicamente insostenibile il rifiuto a discuterne.
Personalmente, al di là del merito, ritengo che sarebbe una forzatura avvalersi delle procedure di cui all’articolo 138 Cost. per introdurre modifiche radicali come, nell’ordine, il presidenzialismo (o il semipresidenzialismo) oppure il c.d. premierato (con le relative elezioni dirette di chi è chiamato a ricoprire queste funzioni). Come diceva Margaret Thatcher, non basta dipingere a strisce un mulo per farlo diventare una zebra.
Non ci sono minacce alla democrazia né rischi di autoritarismo nelle proposte di revisione presenti nel dibattito. Il fatto è che il cambiare la natura parlamentare di una Repubblica e riscriverne la legge fondamentale con modifiche strutturali sarebbe compito di un’assemblea costituente, eletta con criteri proporzionali. Diverso sarebbe il caso dell’elezione diretta del Capo dello Stato, a mio parere assolutamente compatibile con la natura parlamentare della Repubblica. Infatti, in Europa (una circostanza che nessuno ricorda mai) i presidenti sono eletti dal popolo in quasi tutti i Paesi dove non regna una monarchia dinastica. Peraltro, l’elezione diretta del Capo dello Stato potrebbe essere presentata come un problema reale, se si considerano le esperienze – un po’ patetiche e disarmanti – che hanno contraddistinto la rielezione dei due ultimi presidenti della Repubblica.
Si direbbe quasi che l’Italia sia scivolata inconsapevolmente in una monarchia elettiva. Ricoprire la suprema magistratura dello Stato per 14 anni è, infatti, un tempo congruo per un sovrano; le sue eventuali dimissioni finiscono per somigliare ad un’abdicazione. Ma c’è di più. L’elezione diretta del presidente della Repubblica era una proposta condivisa nella relazione conclusiva della Bicamerale presieduta da Massimo D’Alema nel 1997 e nel disegno di legge costituzionale che ne era scaturito. E’ ancor più singolare un altro fatto: il relatore su quel punto fu Cesare Salvi (ex Pci d’antan).
Per quanto riguardava il Capo dello Stato l’articolo 64 stabiliva: “Il Presidente della Repubblica è eletto a suffragio universale e diretto. Sono elettori tutti i cittadini che abbiano raggiunto la maggiore età”. La durata del mandato era pari a sei anni ed era prevista l’eventuale elezione solo per un altro mandato. Era altresì indicata la procedura per le elezioni al successivo articolo 67. Le candidature venivano presentate da un gruppo parlamentare delle Camere, ovvero da cinquecentomila elettori, o da parlamentari, rappresentanti italiani nel Parlamento europeo, consiglieri regionali, presidenti di Province e sindaci, che vi provvedevano nel numero e secondo le modalità stabilite dalla legge. Era eletto il candidato chi avesse ottenuto la maggioranza assoluta dei voti validamente espressi. Qualora nessun candidato avesse ottenuto tale maggioranza, si procedeva il quattordicesimo giorno successivo al ballottaggio tra i due candidati che avevano conseguito il maggior numero dei voti. Era addirittura contemplato il caso della morte e dell’impedimento permanente del Presidente e le relative procedure per la vacanza della carica e per la sostituzione.
Una modifica siffatta sarebbe meno invasiva dell’ordinamento vigente, non comporterebbe una revisione dei poteri ora previsti, rispettivamente, per il Capo dello Stato, il governo e il Parlamento, il quale conserverebbe la sua centralità. Certo, ci sarebbero degli effetti politici significativi. Ma non si venga a dire che si mancherebbe di rispetto all’attuale presidente: se una norma è utile – e in questo caso lo sarebbe – basterebbe prevedere una procedura di transizione. Il Parlamento nella scorsa legislatura non venne considerato decaduto dopo che la riforma, confermata da un referendum, l’aveva mutilato.
Per inciso è il caso di ricordare anche l’articolo 57: “Con leggi costituzionali possono essere disciplinate forme e condizioni particolari di autonomia anche per le altre Regioni” (diverse della classiche a statuto speciale). A prova che tutti, prima o poi, hanno trescato col federalismo e affini.
In conclusione, la coerenza non esiste in politica e, se occorre, è doveroso cambiare opinione. Attenzione, però. Non può essere che la sinistra voglia cambiare la Carta per migliorarla, mentre la destra coltivi spinte autoritarie, quando, sia pure in circostanza diverse, le proposte sono le stesse.