30
Lug
2014

Riflessioni sull’Indice di miseria—di Steve Hanke

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Atlas Network.

Recentemente ho calcolato l’Indice di miseria per 89 paesi (si veda Globe Asia, maggio 2014). L’Indice di miseria non è altro che la somma del tasso di disoccupazione, di quello di inflazione e dei tassi dei prestiti bancari, meno la variazione percentuale del PIL pro capite reale. Un elevato punteggio nell’Indice di miseria rappresenta livelli più alti di disagio.

I calcoli che ho effettuato rappresentano una istantanea delle condizioni di “miseria” paese per paese per il 2013. In questa sede illustrerò la variazione dei punteggi al trascorrere del tempo per diverse zone del mondo e alcuni paesi dell’Asia. Ciò ci permetterà di fare una riflessione su questi punteggio in termini di pattern topologici.

Figura 1. Un decennio di miseria
Indice di miseria medio per regione

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Fonte: Banca Mondiale, Fondo Monetario Internazionale, The Economist Intelligence Unit e calcoli di Steve H. Hanke, John Hopkins University.

Il primo grafico mostra l’andamento dell’indice di miseria nelle principali regioni nel corso dell’ultimo decennio. Si possono osservare diverse cose. Anche utilizzando dati aggregati, il grafico è contraddistinto da due poli di attrazione: uno concentrato su un punteggio pari a 20 e l’altro intorno al valore di 10. In generale, i paesi che gravitano verso il primo necessitano di una robusta dose di riforme strutturali (vale a dire, orientate verso la libertà dei mercati). Viceversa, i paesi che si addensano intorno al polo più basso sono contraddistinti da una libertà economica considerevolmente maggiore.

In seguito alla crisi finanziaria del 2008-2009 il livello dell’Indice di miseria dei paesi del Sud-Est asiatico si è ridotto da circa 20 a 11,7, il che indica che in questa parte del mondo  vi sono state riforme strutturali positive. È anche il caso di aggiungere che le politiche di “quantitative easing” adottate dalla Federal Reserve americana hanno generato significativi flussi di “soldi bollenti”, che hanno avuto effetti positivi sulle economie del Sud-Est asiatico. Nel grafico sono evidenti anche gli endemici problemi strutturali dell’Europa occidentale. Dagli anni della crisi, il punteggio della “miseria” per questa zona del mondo è rimasto elevato, a causa dei gravi problemi connessi al mercato del lavoro. Per portare il punteggio dall’attuale livello di 15,4 a 10, l’Europa occidentale avrà bisogno di realizzare alcune significative liberalizzazioni in campo economico.

Passiamo adesso dall’esame di raggruppamenti regionali a quello di singoli paesi. L’Indonesia offre un quadro interessante: grazie ai disastrosi consigli del Fondo Monopolio Internazionale, il 14 agosto 1997 l’Indonesia adottò un tasso di cambio flessibile per la propria valuta. Contrariamente alle aspettative del FMI, la rupia non navigò in acque tranquille: il suo valore precipitò dalle 2.700 rupie per dollaro ad un abisso di quasi 16.000 rupie per dollaro nel 1998. Di conseguenza l’inflazione e l’Indice di miseria dell’Indonesia crebbero enormemente e il presidente Suharto venne abbattuto dopo una permanenza di 31 anni al potere. In seguito l’Indice di miseria si è nettamente ridotto e, da quando il governo Wahid è entrato in carica, ha continuato ad andare alla deriva. Le variazioni dell’Indice di miseria dell’Indonesia e delle sue componenti sono evidenziate nella figura seguente.

Figura 2. Indice di miseria dell’Indonesia

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Fonti: Banca Mondiale, Fondo Monetario Internazionale, The Economist Intelligence Unit e calcoli di Steve H. Hanke, John Hopkins University.

Attualmente l’Indice di miseria indonesiano si trova esattamente sul polo dei 20. Il nuovo presidente, recentemente eletto, dovrà introdurre serie riforme strutturali se vorrà vedere l’Indice diminuire e portarsi sull’altro polo.

Figura 3. Indice di miseria dell’Indonesia sotto diversi Presidenti

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Fonti: Banca Mondiale, Fondo Monetario Internazionale, The Economist Intelligence Unit e calcoli di Steve H. Hanke, John Hopkins University.

Narendra Modi, il neo-eletto primo Ministro dell’india, deve vedersela con un Indice di miseria di 24,5. In considerazione della natura del sistema politico e della burocrazia dell’India, ha certamente una bella gatta da pelare. Modi dovrà fare qualcosa di più che non semplicemente proclamare ambiziosi piani di riforma e dovrà assicurarsi che i suoi progetti vengano effettivamente attuati, in modo da realizzare una singificativa riduzione dell’Indice di miseria del suo paese.

Figura 4. Indice di miseria dell’India

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Fonti: Banca Mondiale, Fondo Monetario Internazionale, The Economist Intelligence Unit e calcoli di Steve H. Hanke, John Hopkins University.

Già che ci troviamo in Asia, proviamo a dare un’occhiata a due paesi che registrano performance eccezionali, Cina e Singapore, che esibiscono entrambi punteggi inferiori a 10. La Cina è degna di nota, in quanto il suo Indice di miseria era decisamente inferiore a 5 nel periodo 1997-2005, vale a dire nel periodo in cui il valore dello yuan era rigidamente legato a quello del dollaro. L’Indice di miseria cinese ha iniziato a salire solo dopo che la Cina, in seguito alle pressioni di Washington, ha lasciato che lo yuan si rivalutasse rispetto al dollaro.

Figura 5. Indice di miseria della Cina

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Fonti: Banca Mondiale, Fondo Monetario Internazionale, The Economist Intelligence Unit e calcoli di Steve H. Hanke, John Hopkins University.

in base alla maggior parte delle misure di competitività, Singapore occupa uno die primi posti. Non è sorprendente, quindi, riscontrare che i punteggi dell’Indice di miseria di Singapore siano bassi e che nel 2010 abbiano perfino registrato un valore negativo.

Figura 6. Indice di miseria di Singapore

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Fonti: Banca Mondiale, Fondo Monetario Internazionale, The Economist Intelligence Unit e calcoli di Steve H. Hanke, John Hopkins University.

Questa passeggiata topologica nel viale dell’Indice di miseria ha rivelato due centri di gravità: 20 e 10. I paesi che esibiscono valori intorno a 10 stanno semplicemente mietendo i dividendi di mercati più liberi. Quelli che hanno punteggi intorno ai 20 sono chiari candidati per l’adozione di profonde riforme di liberalizzazione del mercati. Senza riforme in questa direzione, questi paesi sono destinati ad un’esistenza, letteralmente, miserevole.

Steve Hanke è Professore di Economia Applicata alla Johns Hopkins University di Baltimora e Senior Fellow e Direttore del Troubled Currencies project presso il Cato Institute. Ringraziamo Atlas Network per la gentile concessione alla pubblicazione di questo articolo, originariamente apparso su Globe Asia.

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3 Responses

  1. Sc

    Cos è il Fondo Monopolio Internazionale? comunque che c ‘entra questa analisi con il lbero mercato? Le sparate sulle liberalizzazioni non sono dimostrate in nessun punto dell ‘ articolo. Se l ‘ autore vuole parlare di indice di miseria parli di quello. Se vuole fare correlazioni scriva un altro articolo. Altrimenti sono sempre le solite affermazioni ideologiche ( qui molto di moda ) che irritano e basta.

  2. Francesco_P

    Esiste un legame stretto fra lo sviluppo economico di una nazione e la presenza di condizioni favorevoli allo sviluppo delle imprese. Si verifica empiricamente che lo sviluppo economico porta all’innalzamento del tenore di vita e delle prospettive della gente, mentre gli ostacoli alla libera iniziativa conducono esattamente all’opposto.
    Sono andato a recupere questo articolo che avevo letto qualche tempo fa : http://scenarieconomici.it/italia-boom-misery-index-negli-anni-post-introduzione-delleuro/ .
    L’Italia sta affondando verso livelli da terzo mondo grazie alla follia della spesa pubblica ed all’invadenza della macchina pubblica in ogni settore dell’economia che blocca qualsiasi iniziativa privata. Interessante leggere il post del 30 luglio da http://revisionedellaspesa.gov.it/blog.html .

  3. arthemis

    “L’Indice di miseria cinese ha iniziato a salire solo dopo che la Cina, in seguito alle pressioni di Washington, ha lasciato che lo yuan si rivalutasse rispetto al dollaro”

    Pensavo che i cinesi avessero risentito della minore domanda europea, a quanto pare mi sbagliavo.
    Chi ce lo fa fare di impegnarci al lavoro se tutto dipende, secondo l’autore, dal cambio monetario e altri simili parametri?

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