Il reddito di cittadinanza di de Magistris: il rischio che levi ai poveri per dare ai più poveri (evasori compresi..)
Nella provincia di Trento c’è stato un “reddito di garanzia”, la Puglia di Michele Emiliano ha varato per l’anno prossimo un “reddito di dignità”, la Basilicata dal 2015 ha un “reddito minimo d’inserimento”, a Livorno la giunta pentastellata del sindaco Nogarin ha varato quest’anno un (micro) “reddito di cittadinanza” (riguarda 100 persone in tutto, per 300mila euro). E ora anche Napoli avrà nel 2017 il suo “reddito di cittadinanza”, visto che la scelta, lanciata la scorsa primavera dalla giunta prima della campagna elettorale, è confermata nel bilancio preventivo 2016-18 approvato nella maratona notturna del pre week-end.
I particolari del reddito di cittadinanza napoletano sono ancora da chiarire. Quel che si sa da maggio è che dovrebbe essere destinato ai nuclei familiari con reddito ISEE non superiore ai 3600 euro, residenti a Napoli da almeno 2 anni. Non è nemmeno ancora davvero definito se l’importo in bilancio sarà per 20 milioni oppure per 5, come era sembrato di fronte alla ristrettezze obbligate della condizione pluriennale di predissesto, in cui versano le finanze di palazzo san Giacomo.
Il sindaco de Magistris sin dalla scorsa primavera parla di una misura finanziata dai proventi della lotta all’evasione, ma gli ultimi dati aggiornati dicono che entro agosto il Comune di Napoli aveva riscosso 14 milioni in più da inizio 2016 sul pregresso non incassato tra multe, ratei d’imposta e crediti esigibili: difficile immaginare che entro fine anno si raggiungano i 65 milioni che erano stati indicati come obiettivo. Se invece davvero alla fine la misura dovesse essere finanziata attraverso i 5 milioni in più che si prevede d’incassare attraverso il brutale abbattimento della soglia di reddito per l’esenzione d’imposta dall’addizionale IRPEF comunale, abbattimento previsto nel bilancio preventivo da 15mila a 10 mila euro, sarebbe una soluzione del tutto iniqua. Il fortissimo rischio è levare a chi ha poco ma ha redditi certificati, per dare a chi dichiara pochissimo e magari però ha redditi in nero.
Anche per chi ha in mente il più redistributivo possibile dei modelli fiscali, dovrebbe risultare del tutto indigeribile far pagare 60mila napoletani in più ma comunque a basso reddito. rispetto ai quasi 230mila oggi esentati sotto i 15mila euro annuali (che sono la metà dei contribuenti napoletani) , per alimentare l’illusione di un “reddito di cittadinanza”. L’alternativa è di finanziare l’intervento con Fondi Europei: ma in quel caso, come per la Basilicata che a questo attinge per una quota parte del suo reddito minimo d’inserimento, la formula non può essere quella del reddito di cittadinanza. ma va riferita solo a chi non è coperto dai sussidi previsti dalle leggi sul lavoro né a chi già beneficia dell’assistenza sociale comunale su affitti e sussistenza.
Perché diciamo “illusione”? E’ presto spiegato. La politica italiana da qualche anno a questa parte alimenta una gigantesca confusione tra strumenti del tutto diversi. Chi vuole un reddito di cittadinanza sapendo davvero di cosa sta parlando le proposte di legge “storiche” sono di Sel, poi del M5S, se né aggiunta una di alcuni parlamentari Pd) propone uno strumento universale di lotta alla povertà che è indipendente dall’accertamento delle condizioni economico-patrimoniale dei beneficiari. Anche se tutti dicono che 26 paesi europei su 28 prevedono un simile strumento, è una gigantesca frottola. C’è in Alaska, grazie alla rendita petrolifera. Nella stragrande maggioranza dei paesi europei (vedi qui una spiegazione dettagliata) vi sono invece strumenti che rientrano nel reddito minimo garantito, che è tutt’altra cosa. Esso serve a dare copertura a chi resta escluso da sussidi di disoccupazione e mobilità, è ancorato a livelli di reddito (per chi sotto la povertà assoluta e per chi relativa a seconda dei paesi), prevede una forte condizionalità di assoggettamento coatto a offerte di lavoro pubbliche e private. In altre parole: il reddito minimo garantito, che in alcuni paesi convive con il salario minimo per legge (che in Italia sono i sindacati a non volere) e in altri no, serve a impedire la compresenza di plurimi strumenti di sostegni sociali nazionali, regionali e comunali, magari a favore di soggetti per i quali l’evasione fiscale , il lavoro nero o grigio rappresentano la via per accumularne il vantaggio, rispetto magari a famiglie numerose con un solo stipendio basso da lavoro dipendente, cioè totalmente “in chiaro” per il fisco.
Se guardiamo alle varie soluzioni introdotte in Italia, praticamente sempre di reddito minimo si tratta, non di cittadinanza. Anche se a Livorno i pentastellati l’hanno chiamato di cittadinanza, in omaggio alla loro proposta nazionale che costerebbe un punto di PIl, in realtà è un reddito minimo: 500 euro per 6 mesi a 100 soggetti scelti da un’apposita commissione tra gli aventi diritto, attribuiti a un solo componenti del nucleo familiare con reddito inferiore ai 6530 euro, in cambio però della disponibilità a lavorare per 8 ore almeno settimanali, accogliendo proposte avanzate dal centro per l’impiego oppure in lavori sociali a favore del Comune. Di prestazioni di lavoro e formazione obbligatoria come controprestazione parla anche il “reddito di dignità” varato da Emiliano in Puglia, per 20mila individui sotto i 3mila euro ISEE e residenti in Puglia da almeno 12 mesi. Mentre lo strumento della Basilicata – 7,5 milioni di euro per circa 6mila soggetti – è chiaramente concepito solo per coloro che escono dalla copertura della disoccupazione e della mobilità, ed è finanziato in gran parte dalle royalties petrolifere incassate dalla regione sui combustibili fossili estratti dal suo sottosuolo (oltre che dai Fondi Europei come ricordato prima).
La distinzione netta tra “reddito di cittadinanza” e “reddito minimo sotto la povertà, ma soggetto a controlli” dovrebbe oggettivamente valere ancor più per una citta come Napoli, il cui disastro di finanza pubblica de Magistris ha – è vero – ereditato alla prima sindacatura – ma che resta ben lungi dall’essere avviato a un percorso di sostenibile rientro dei suoi squilibri. Se il disavanzo annuale è sceso dai mostruosi 850 milioni a 81 milioni del 2015 grazie al taglio dei crediti ormai inesigibili dovuto all’incapacità di incassarli, il “debito tecnico” dovuto al programma di rientro trentennale del predisesto vale 1,6 miliardi, e quello reale a fine 2015 – sommando poste finanziarie debito commerciale, crediti non riscossi – a fine 2015 ammontava a 2,7 miliardi. E tutto ciò mentre i trasferimenti da Roma, come per tutti i Comuni, scendono di centinaia di milioni l’anno. Mentre resta l’incognita negli anni a venire del prezzo di esercizio degli swap sui derivati accesi dalle amministrazioni precedenti. E mentre le entrate straordinarie previste per l’abbattimento del debito – per esempio 700 milioni da cessioni di immobili e terreni – sono così ingenti da far strabuzzare gli occhi, in un’Italia in cui ciò che è pubblico non si riesce mai a cedere davvero al privato.
Vedremo dunque cosa sarà davvero questo reddito di cittadinanza partenopeo. Il sindaco ci tiene molto. A maggior ragione è meglio farne uno strumento mirato e rigoroso, coerente alla troppo frastagliata panoplia di strumenti già esistenti, coperto in maniera che non sia un furto a chi ha comunque poco, e soprattutto applicato a soggetti iper controllati nel loro rapporto col fisco: che deve essere di assoluta trasparenza.