20
Ago
2009

“Rapallizzare” l’Italia? Alcune buone ragioni

Qualche giorno fa un amico fiammingo mi ha riferito con entusiasmo di una sua recente vacanza in Liguria, ricordando con piacere i giorni passati a Camogli e Rapallo. La cosa mi ha colpito perché, da qualche decennio, nei dizionari della lingua italiano con il verbo “rapallizzare” si indica un processo di cementificazione selvaggia: come quando si prende un paesino costiero e lo si riempie di casermoni e villaggi turistici. In questi giorni ferragostani può essere allora opportuno provare a sviluppare qualche minima riflessione sul rapporto tra natura e turismo, tra bellezze storico-ambientali e sviluppo urbanistico.

L’opinione pubblica “colta”, com’è noto, condanna il cemento in sé e per sé. La costruzione di quartieri e palazzi è vista quale un fatto solo e sempre negativo, dato che toglie spazio al verde e deturpa le coste. In realtà, bisognerebbe adottare un atteggiamento più critico ragionato dinanzi a tali problemi.

In primo luogo, la trasformazione dei luoghi turistici (accompagnata da uno sviluppo urbanistico in qualche caso abnorme) è figlia di un processo di “democratizzazione”: intendo con tale espressione una crescente diffusione della ricchezza. Fino a quando il turismo era una realtà di élite che riguardava solo conti, marchese e magnati dell’industria (come in Morte a Venezia di Thomas Mann o in altri romanzi ambientati nelle località della villeggiatura di primo Novecento), un piccolo centro come Rapallo poteva essere una perla pura e incontaminata: poco più che un villaggio sul mare, fattosi chic in ragione delle sue frequentazioni. Ma quando la promozione dei ceti popolari indotta dal mercato e dall’integrazione economica globale ha permesso a impiegati e artigiani di trascorrere un paio di settimane al mare, fatalmente le cose sono cambiate.

Dal punto di vista economico, bisogna tenere sempre in considerazione che la crescita dell’offerta (più case) risponde ad un aumento della domanda (un maggior bisogno di abitazioni). E questo vale sia per i turisti come per la gente del luogo. L’esigenza di liberalizzare l’economia italiana – oggi avvertita anche da una parte rilevante della sinistra: basti ricordare le lenzuolate di Bersani – risponde proprio al bisogno di far meglio corrispondere l’offerta e la domanda, in modo da adeguare preferenze e produzione.

Una questione resta cruciale: e cioè che quanti costruiscono non possono farlo a scapito dei diritti altrui. Se la realizzazione di nuove abitazioni di fronte alla crescente domanda ha talora prodotto non solo obbrobri ma ha anche peggiorato la qualità della vita di altre persone, in molti casi questo si deve al fatto che con l’urbanistica contemporanea (figlia della pianificazione) i titoli dei singoli non sono ben tutelati. (Su questi temi consiglio la lettura dei lavori di Stefano Moroni, interprete di una visione liberale e nutrita di letture hayekiane).

Bisogna anche rilevare, in controtendenza con la sensibilità generale, che è del tutto sbagliato associare necessariamente costruzioni e devastazioni. Basti ricordare che alcune delle principali mete del turismo mondiale (da New York a Parigi, da Roma a Venezia) sono in sostanza agglomerati di palazzi, strade, monumenti e abitazioni. Soprattutto in Italia, dovrebbe essere chiaro a tutti che se in passato abbiamo avuto “geometri” che si chiamavano Michelangelo, Bernini o Vanvitelli, nulla esclude che qualcosa di simile si possa realizzare in futuro. Ad essere in discussione, allora, non è il costruire in quanto tale, ma la sua qualità.

Qualora si rafforzasse l’ordine giuridico garantendo meglio i titoli di proprietà e quindi favorendo una gestione “capitalistica” del territorio, lo stesso problema della cosiddetta sostenibilità troverebbe più facilmente le soluzioni adeguate. Chi infatti possiede un bene non ha alcun incentivo a depauperarlo e questa gestione di metrcato degli spazi introdurrebbe quindi una forte limitazione ad un’espansione urbanistica eccessiva, incontrollata.

D’altra parte, non bisogna imputare al cemento in sé, al progresso  economico e al diffondersi della ricchezza taluni esiti infelici dell’espansione edilizia dei luoghi di villeggiatura. Quando visitiamo la costa amalfitana o la Provenza non incontriamo soltanto la natura, ma una certa (felice) integrazione tra la realtà fisica ed elaborazione umana.

Se ci sono problemi (e ce ne sono indubbiamente) questi discendono da una carenza di diritto e di mercato, ossia: da un’inadeguata protezione dei diritti e da una latitanza di logiche imprenditoriali. Ma proprio per queste ragioni, affrontare al meglio tali problemi non comporta una rinuncia a immaginare nuove città e un sempre miglior modo di abitare. Anche in riva al mare.

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1 Response

  1. windbag

    non è forse il luogo per dirlo, ma questo è un caso in cui una liberalizzazione ha causato più danni che benefici.
    mi riferisco alla abolizione delle commissioni di ornato nel secondo
    dopoguerra, quelle commissioni che fino ad allora avevano vigilato sulla applicazione delle regole del linguaggio architettonico che si erano sviluppate armoniosamente e organicamente nel corso dei secoli, permettendo la felice coesistenza di ambiente naturale ed ambiente costruito di cui si fa riferimento nell’articolo.
    tutto questo fu spazzato via in un colpo, si optò per la “tabula rasa”,
    per le magnifiche sorti e progressive, per la liberazione dei progettisti dai “lacci e lacciuoli” delle regole di composizione architettonica.
    i risultati di questi 60 anni di “libertà” sono sotto gli occhi di tutti, e sono quelli che hanno portato ad identificare, nell’immaginario collettivo, le nuove costruzioni col cemento e quindi con qualcosa di negativo.
    è vero che bisognerebbe distinguere tra cemento “buono” e cemento “cattivo”, tra le opere dei maestri dell’architettura contemporanea e le speculazioni dei palazzinari.
    ma francamente, nessuno che non abbia una preparazione specifica in architettura è in grado di farlo.
    l’unica cosa che ci potrebbe difendere sarebbero dei regolamenti edilizi
    minuziosamente descrittivi e stringenti, che prescrivessero fino alla vite
    più minuscola ciò che si può fare e ciò che non si può.
    ma mi rendo conto che questa è una soluzione pesantemente in antitesi con la filosofia del blog. 🙂

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