3
Apr
2014

Quel proiettile d’argento che non c’è

In un articolo recente su la stampa, Luca Ricolfi, spiega in modo chiaro perché tagliare la spesa pubblica lasciando invariato il livello dei servizi, seppure teoricamente possibile, risulta impraticabile nel breve periodo e presenta inoltre criticità rilevanti anche nel medio.

L’impossibilità di un’azione immediata, deriva dalla mancanza di informazioni e studi sufficientemente approfonditi sulle pratiche migliori (quei casi in cui si riesce ad ottenere risultati superiori o analoghi alla media a costi inferiori) e piani di intervento sufficientemente dettagliati per intervenire sulle pratiche peggiori al fine di adeguarle. In sintesi sappiamo che, in aggregato, è possibile risparmiare (e anche molto, nell’articolo si parla di 100 miliardi) senza incidere sulla quantità e qualità del servizio, ma occorrono anni per individuare le misure specifiche per l’implementazione concreta.

Nel medio termine, quand’anche si riuscisse finalmente a superare questi ostacoli, occorre poi che

ci sia qualcuno che abbia sia la competenza sia il potere per riorganizzare il servizio, e non solo per imporre tagli di spesa. Oggi non esiste praticamente alcun servizio erogato dalla Pubblica amministrazione in cui un dirigente informato e motivato abbia un effettivo potere di riorganizzazione. E questo per la semplice ragione che chiunque provi a mettere le mani davvero su mansioni, orari di lavoro, trasferimenti, ruoli e gerarchie, invariabilmente incontra la più o meno sorda resistenza di tutti, dai sindacati che preferiscono tutelare i propri iscritti piuttosto che difendere gli utenti, ai singoli lavoratori che non esitano a ricorrere alla magistratura pur di evitare qualsiasi decisione che non gradiscono

La scomoda verità illustrata da Ricolfi, dunque, consiste nel fatto che, posto che dei tagli urgenti alla spesa saranno pressoché obbligati dai vincoli di bilancio esistente (pressione fiscale già a livelli record e crescita economica anemica nella più rosea delle ipotesi) essi si tradurranno in un peggioramento della qualità e in una riduzione nella qualità dei servizi ricevuti dai cittadini.

Questo vuol dire che non solo dovremo pagare il conto del malgoverno del passato, più preoccupato del consenso immediato, che non della sostenibilità nel tempo delle proprie politiche, ma che questo conto sarà anche più salato del dovuto, perché chi si appresta a governare (o si candida per farlo in alternativa) non si è preoccupato di elaborare piani di azione sufficientemente dettagliati.

A ben guardare, tuttavia, il discorso fatto per la troppa spesa cattiva e sulle difficoltà nel ridurla senza intaccare quella buona, è solo un caso particolare di carattere più generale del declino del nostro paese: non solo non esiste un proiettile d’argento che possa risolvere in breve tempo i nostri problemi, ma anche i sacrifici che saremo costretti a fare nei prossimi anni, se non indirizzati nella direzione giusta, non riusciranno a migliorare le sorti del nostro paese.

Prendiamo ad esempio la disoccupazione elevata, soprattutto tra i giovani (anche se è opportuno fare attenzione alle cifre e alle esternazioni), il dibattito politico, ovviamente polarizzato ideologicamente si è incentrato su questioni di natura contrattuale (art. 18, contratto unico etc) come se bastasse rendere più facili i licenziamenti per risolvere i problemi e come se questo non fosse largamente inaccettabile senza radicali interventi sulla rete di protezione per chi rimane senza lavoro. Insomma, a seguire il dibattito su questi temi, sembra che un contratto nuovo o una sforbiciata allo statuto dei lavoratori possa garantirci le “magnifiche sorti e progressive” di leopardiana memoria. Eppure bastano poche semplici considerazioni per rendersi conto che la soluzione non solo non è così semplice, ma non può essere neanche rapida.

L’assunzione di un nuovo dipendente è, per il datore di lavoro, un investimento di lungo termine. Per rendere quest’operazione attraente, è sicuramente importante che l’eventuale “disinvestimento” possa avvenire con modalità, costi e rischi, conoscibili in anticipo, ma si tratta solo di una delle molteplici condizioni necessarie e singolarmente, non sufficienti. Perché sia conveniente investire in capitale umano, occorre anche, ad esempio, che gli individui disposti a lavorare possiedano le competenze tecniche (e non solo) richieste per le posizioni aperte: se al momento occorrono ingegneri e matematici, non c’è contratto che possa rendere appetibili gli archeologi o i linguisti alla ricerca di impiego. Questo non vuol dire necessariamente stigmatizzare le cosiddette lauree inutili, quanto piuttosto sottolineare la necessità di aggiornare e sviluppare le proprie competenze per aumentare la propria “impiegabilità”. Per rimanere sugli archeologi e i linguisti, a partirà di formazione di partenza, saranno più impiegabili coloro che riescono ad esempio a girare documentari multimediali, a scrivere nel formato adatto per un blog o a collaborare con team di lavoro in conference call, rispetto a chi aspetta pazientemente l’ennesimo concorso pubblico ritenendo superfluo anche imparare a scrivere un’email in inglese.

Ancora, come per qualsiasi altro investimento, rileva quanta parte del valore aggiuntivo prodotto dal nuovo assunto viene assorbita dai costi della burocrazia e dal fisco e quale impatto su di esso possono avere le condizioni generali del paese, in primis la crescita economica e del costo opportunità delle alternative, ossia di quanto è agevole spostare in una nazione più accogliente la produzione (e la nazione più accogliente non è necessariamente la Cina cattiva, ma in tanti casi può essere l’Austria o altri paesi UE) o acquistare il servizio da qualcun altro. Insomma, per osservare dei risultati significativi in termini di occupazione, è di certo necessario, aggiornare il mercato del lavoro per venire incontro alle esigenze di un’economia moderna, ma non è sufficiente. Occorre anche questa economia non scoraggi gli investimenti con oneri burocratici e fiscali eccessivi, e che sia avviata su un percorso di crescita.

La crescita economica del paese è poi una questione che suscita altrettante discussioni intrise di ideologia, più utili a confondere e travisare che non a comprendere le reali condizioni del paese. Con buona pace dei radical chic, che vagheggiano di una decrescita felice e dei marxisti travestiti da keynesiani (che hanno preso troppo alla lettera la storia del pagare la gente per scavare buche): l’unica cosa che può garantirci il mantenimento, se non il miglioramento, delle attuali condizioni di vita è un livello adeguato di crescita economica.

Anche a questo proposito i problemi del nostro paese hanno radici lontane e non potranno essere risolti da qualche repentino colpo di genio. Per sperare di rivedere livelli accettabili, occorre che il sistema Italia non scoraggi l’innovazione e gli investimenti da parte dei privati, ma anzi li favorisca e per ottenere questo risultato, occorrerebbe ridimensionare significativamente sia gli apparati burocratici che la pressione fiscale, ma così torniamo allo spunto di Ricolfi e il cerchio si chiude: occorre ridurre sensibilmente l’entità della spesa pubblica e il ruolo dello stato nell’economia e non è pensabile conseguire questi risultati in breve tempo, per non menzionare il dettaglio che ridimensionare la spesa spesa pubblica nel breve possa avere  effetti  recessivi.

La strade delle riforme è dunque un percorso obbligato, se non altro dal fatto che il mantenimento dello status quo appare sempre più insostenibile, anche se ormai in molti hanno una vaga idea del punto di arrivo, il percorso è tutt’altro che tracciato e questo avvalora la previsione che non sarà una via breve: le scorciatoie fantasiose, dalla moneta filosofale alle bungalire al posto dell’euro servono solo a distrarre l’attenzione, a ritardare ulteriormente la soluzione dei problemi e in definitiva aumentare il costo dell’aggiustamento.

@massimofamularo

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1 Response

  1. Mike_M

    Insomma, non resta altro da fare che dichiarare default, azzerare tutto e ricominciare daccapo con un nuovo Stato, questa volta il più “minimo” possibile. Altrimenti l’unica alternativa è la progressiva secessione dei territori dall’Italia, cioè il “si salvi chi può”.

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