Quel che ho appreso da Buchanan
Nel marzo scorso, per commemorare la scomparsa di Hayek, pubblicavamo nel Chicago blog alcune considerazioni personali su quanto l’austriaco avesse contribuito alla nostra formazione.
Per mio conto, notavo che, pur avendo dovuto leggere Hayek a margine degli studi ufficiali di giurisprudenza, nelle cui aule il suo pensiero è pressoché sconosciuto, a lui dovevo l’insegnamento di un principio che resta oggi alla base di ogni mia modesta riflessione sul diritto: la legge non sempre è il rimedio giusto per mettere ordine tra le cose e le persone.
Qualche giorno fa, alla notizia della dipartita di James Buchanan, mi chiedevo di nuovo quale lezione avessi tratto dai suoi scritti e potessi, nel mio piccolo, portare avanti e ricordare.
Mi sono accorta allora che i miei principali convincimenti circa il diritto pubblico, il rapporto tra governanti e governati, la forma di governo e la forma di Stato, il ruolo della Costituzione, è stato fortemente influenzato, su fronti diversi ma paralleli, non da due giuristi, né tantomeno giuspubblicisti, ma da due economisti: Hayek vinse il premio Nobel per l’economia nel 1974, Buchanan nel 1986.
Se dal primo avevo imparato a diffidare dell’eteroregolazione come terapia del disordine sociale, dal secondo avevo appreso la nobiltà di un ragionamento realistico e pragmatico sulle ragioni delle scelte collettive.
Abituata, da studentessa di legge, a ripetere acriticamente la lezione di Kelsen sulla dicotomia tra il mondo delle cose come dovrebbero essere (il mondo delle norme) e il mondo delle cose come sono (il mondo dei fatti), l’impegno di Buchanan a spiegare la legge, l’ordine giuridico, le scelte dei governanti, le preferenze dei cittadini come frutto non di una tensione etica al dover essere, ma di un semplice calcolo di costi e benefici mi ha insegnanto a guardare lo Stato e la sua burocrazia non come qualcosa di impersonale e superiore rispetto alla collettività, ma come anzi un insieme di individui che agiscono spinti dagli stessi interessi personalistici dei singoli.
Le sue considerazioni non nacquero certo dal nulla, ma furono debitrici di altri, precedenti o coevi pensatori, anche italiani, che ci hanno ammonito a guardare le istituzioni e le scelte pubbliche con meno misticismo e più concretezza, a descrivere il loro reale funzionamento piuttosto che a immaginarne quello ideale.
Egli seppe però parlare con un linguaggio comprensibile a chi, come la sottoscritta, aveva il terrore di affrontare anche solo l’esame di economia politica, trasponendo il metodo di indagine e osservazione dell’economia nel campo del diritto e rimarcando con incisiva chiarezza l’idea, già classica, che ognuno di noi – elettore, politico, burocrate, etc. – agisce per ottimizzare il proprio bene e minimizzare il male.
Infine, anche la Costituzione, quella Grundnorm che in Kelsen aveva le sembianze di un’idea platonica, diviene con molto più buon senso l’insieme delle regole del gioco, il quale, essendo “funzione dei parametri sociali”, varia e anzi deve variare al mutamento dello schema sociale di base, con importanti effetti sul piano del riconoscimento dei diritti, di cui finalmente si comprende che possono essere realmente riconosciuti solo se si possono coprire i loro costi. Molto semplicemente, è inutile e persino disonesto dire che la salute è un diritto fondamentale, se poi le persone sono costrette a ricorrere all’assicurazione privata per essere assistite nelle cure.
A quanti di noi sono abituati a un’idea teologica della Costituzione, a una visione metafisica dello Stato, alla fede nell’interesse generale come motore di azione delle pubbliche autorità, il pragmatismo descrittivo di Buchanan può essere scambiato per crudo cinismo. Io penso invece che sia il contrario. Credo che sia molto più nobile eticamente e corretto scientificamente guardare le cose per come sono, non per come vorremmo che fossero, e da lì apprendere il modo migliore con cui gli uomini, e non i santi, possono vivere insieme.
se la gente è costretta a ricorrere alle assicurazioni private per la salute (che costano il DOPPIO rispetto al costo procapite della salute pubblica, anche in paesi efficienti come i nordici) è proprio a causa delle vostre idee “liberiste”, cari chicaghian-austriaci!
Sottoscrivo (da vecchio giurista). Kelsen sta al diritto positivo come i fondamentalisti stanno alla religione. Insopportabili.
Eh no caro Anto’! La gente è/sarà costretta a ricorrere alle assicurazioni private per la salute perchè la sanità pubblica ha un’efficienza molto bassa e non per le nostre idee “liberiste” (se fosse stata applicata qualche idea liberista, l’efficienza della sanità pubblica sarebbe ben diversa!), ma perchè dentro la sanità pubblica ci sono enormi sprechi, perchè la sanità pubblica è completamente politicizzata, perchè la sanità pubblica non premia il merito, perchè le scelte sulla sanità pubblica locale sono state fatte spesso per avere il consenso elettorale e non per competenza o per necessità della popolazione, perchè la sanità pubblica non vuole nessun competitore ostacolando addirittura chi vuole mettersi in concorrenza con essa!
L’articolo di Serena Sileoni è stupendo, sottoscrivo totalmente.
Caro anto’ pigliatela con chi diceva che le malattie sono causate dallo sfruttamento capitalista e si curano con la riappropriazione ludica e socializzante del proprio corpo.
l’articolo della Sileoni merita molto rispetto. Forse i loro detrattori dovrebbero essere meno populisti e portare dati, documenti e cifre per affermare onestamente le loro opinioni. Come vedete nei programmi politici (per onestà, tranne Fare per Fermare il Declino) nessuno in Italia osa inserire nei propri scritti elementi verificabili, sia in termini numerici che sostanziali. Non vi è dubbio che questa triste e mediocre capacità politica di mistificare la realtà con valutazioni da giornalisti di basso profilo culturale, prende anche i cittadini, che ormai ritengono l’economia una questione di opinione. Ma non è così.
mi fa piacere che cominci a ragionare con la sua testa e non con quella di persone che appartengono al passato
l’articolo é interessante e per molti versi condivisibile.
tuttavia due osservazioni sono necessarie.
l’autrice nell’affermare che in kelsen la grundnorm coincide con la costituzione e con le sue norme programmatiche dimostra di aver completamente frainteso la dottrina pura.
la grundnorm é una norma presupposta e non posta, non é in nessun modo diritto positivo ma principio logico utile al lavoro del giurista di civil law per pensare l’ordinamento come un complesso unitario.
questo sotto il profilo scientifico.
sotto il profilo politico kelsen ha sempre auspicato che le costituzioni contenessero ilminimo possibile di norme programmatiche o valorative, ritenendo queste ultime una deviazione rispetto ai principi dello stato di diritto.
tale era stata la sua posizione ad esempio a riguardo della redazione della costituzione austriaca.
un’altra osservazione di altro tenore.
se la concezione hegeliana della burocrazia come classe universale é una finzione, anche quella di Buchanan rischia di diventarlo. da un punto di vista empirico, l’affermazione per la quale le scelte pubbliche siano sempre improntate al principio economico é semplicemente metafisica. é l’estensione di una rappresentazione dell’agire dei funzionari totalizzante quanto quella hegeliana e non suscettibile di falsificazione, popperianamente non scientifica.
ho riletto l’articolo ed é ancora peggio di quanto ho scritto.
per la sileoni kelsen sarebbe preso da una tensione morale verso un ordinamento platonico…un giusnaturalista, insomma.
non doveva preoccuparsi dell’esame di economia politica ma di quello di filosofia o di teoria generale del diritto…
se questo é il livello culturale e l’onestà intellettuale degli amici di Giannino, non siamo molto lontani dalle mistificazioni ideologiche che la cultura di sinistra ha esercitato su tutto ciò che non era marxismo.
peccato.