Quanto è triste il canone in bolletta
Sono trascorsi quasi cinque anni da quando Paolo Romani, da poco nominato ministro dello Sviluppo Economico, in un’intervista al Corriere della Sera (25 novembre 2015) nel parlare dei vari provvedimenti allo studio annunciò anche la riforma del canone Rai: «A tutti i titolari di un contratto di fornitura di elettricità, siano essi famiglie o pubblici esercizi o professionisti, verrà chiesto di pagare il canone, perché, ragionevolmente, se uno ha l’elettricità ha anche l’apparecchio tv. Chi non ha la televisione dovrà dimostrarlo e solo in quel caso non pagherà».
In verità, i canoni sono di due tipi: quello per uso ordinario, dovuto da chi possiede televisori in ambito familiare, e quello speciale (che può essere anche molto più oneroso dell’ordinario), dovuto da chi detiene uno o più apparecchi atti in locali aperti al pubblico (alberghi, bar, case di riposo, ristoranti, uffici, etc.) o comunque al di fuori dall’ambiente famigliare.
In ogni caso, il testo sembrava pressoché pronto visto che sarebbe dovuto finire nel decreto milleproroghe o comunque essere approvato l’anno con l’obiettivo di azzerare la grande (e crescente) evasione. Anche se oggi come allora la percentuale di portoghesi era stimata in circa il 30%. (Sarebbe interessante capire come precisamente vengano stimante queste cifre).
Naturalmente, nonostante il fine meritorio: pagare meno; pagare tutti, proprio tutti, ma meno, già allora non ci eravamo trattenuti dal biasimare la bislacca idea di Romani per il semplice fatto che la bolletta elettrica, oggi ancor più di allora, resta gravata da oneri (generali di sistema) che superano il 25% del prezzo finale e pesano quasi il doppio delle imposte.
Il canone è un’imposta sulla detenzione dell’apparecchio televisivo e va pagato indipendentemente dall’uso del televisore o dalla scelta delle emittenti televisive. Concepito nel 1938 (Regio decreto 246), quando era impossibile non trasmettere in chiaro, il canone trova fondamento sulla presunzione che chi possiede il televisore beneficia in tutto o in parte del servizio pubblico. Con l’abbinamento alla bolletta elettrica a questa presunzione si aggiungerebbe quella che chiunque si serve dell’energia elettrica possiede almeno un televisore. In verità, i canoni sono di due tipi: quello per uso ordinario, dovuto da chi possiede televisori in ambito familiare, e quello speciale, ben più oneroso dell’ordinario, dovuto da chi detiene uno o più apparecchi atti in locali aperti al pubblico (alberghi, bar, ecc.) o comunque al di fuori dall’ambito famigliare. La riforma riguarda solo il primo caso e purtroppo, arricchita dagli interventi della Commissione Bilancio, è rimasta nel maxiemendamento (557 commi) alla Legge di Stabilità su cui venerdì scorso il Senato ha votato la questione di fiducia apposta dal Governo, con firma di Maria Elena Boschi.
Le cose si mettono dunque male, molto male.
Non perché si sarà (o si dovrebbe essere) meno liberi di non pagare il canone. E neanche tanto per l’immancabile cresta incentivata, dalla troppo ghiotta occasione della “facile” e (più) sicura riscossione. Già più grave è la questione del precedente e del meccanismo automatico che si vorrebbe realizzare: le accise sono aumentate lievitate nel tempo proprio perché di facile e sicuro incameramento. Una volta testato il canone, infatti, perché non pagare anche il servizio idrico, dove i miliardi crediti non pagati non mancano e la Pubblica Amministrazione è più cattiva dei privati o anche il servizio di igiene ambientale (come è stato già proposto dal delegato Anci Energia e Rifiuti).
No, no la cosa più sconfortante e paradossale è che per fare una toppa si strappa una tovaglia (nuova). Lo stesso governo che nel disegno di legge sulla concorrenza, che con fatica procede il suo iter parlamentare, ha previsto il superamento della maggior tutela per il 2018 scommettendo sullo scatenarsi della competizione nella vendita al dettaglio dell’energia elettrica, affibbia i 100 euro all’anno agli operatori, prima ancora che ai consumatori, comprimendo non poco i già risicati margini di manovra nella formulazione delle offerte. La spesa media del consumatore tipo è oggi poco più di 500 euro all’anno; aggiungere un aggravio del 20% è una mazzata incredibile.
Si potrebbe dire che la norma parla di voce separata in bolletta, peccato che – già ora – numerosi sono i consumatori che stanno bersagliando i propri fornitori di energia (casomai scelto sul mercato libero) con telefonate di protesta e diffida all’includere il canone nella bolletta.
Ecco, la cosa più triste è che, in fondo, lo Stato consideri i fornitori di energia elettrica alla stregua di prosseneti dell’esazione. Senza, peraltro, neanche lascargli una mancetta, che comunque sarebbe una magra e, soprattutto, effimera consolazione.
Ps: ovviamente ci sarebbe da scrivere sui non lievi costi operativi e di adeguamento dei sistemi amministrativi e dell´organizzazione o strappare il velo sull’autodichiarazione sostitutiva che nulla c’entra con il possesso di una bene mobile (si potrà continuare tranquillamente a dire che il televisore è stato appena acquistato o avuto in dono). Per questi motivi, senza dilungarci, oltre sul canone in bolletta non possiamo non pensare all’ormai mitico giudizio del rag. Fantozzi sul capolavoro di Sergej Ėjzenštejn.
Ma trasformare l’intera offerta televisiva non finanziata da pubblicità in reti a pagamento, così ciascuno paga solamente per quel che guarda? Troppo difficile, nell’era digitale?
E se la RAI la smettesse di sperperare soldi pubblici elargiti con il gioco dei pacchi non sarebbe un bell’esempio in un periodo in cui ciascuno deve stringere la cinghia? Insieme alla auspicata diminuzione del canone sarebbe un segnale incoraggiante per gli abbonati che si vedono trasferire il canone in bolletta.
In effetti la tristezza del canone in bolletta consiste nella ammissione di impotenza nel riscuotere il canone. Quella rimane in ogni caso.