Quando, a Milano, la Camera del Lavoro dava lezioni di liberismo
La presentazione pubblica, martedì scorso, del coraggioso volume di Riccardo Cappello (“Il cappio. Perché gli ordini professionali soffocano l’economia”, edito di recente dalle edizioni Rubbettino) ha offerto spunti di notevoli interesse. Oltre a Donatella Parrini, a Nicola Iannello e all’autore, ha partecipato all’iniziativa – tenutasi in un’aula del Senato (qui vi è la registrazione) – anche Pietro Ichino, che come gli altri intervenuti ha mostrato di apprezzare il volume, si è espresso apertamente contro il corporativismo che domina l’Italia e contro la legge di riforma in discussione (che quelle logiche si propone di rafforzare), e infine ha pure ricordato un gustoso episodio, da lui vissuto in prima persona.
Avvocato e al tempo stesso iscritto alla Cgil, per anni Ichino ha operato presso la Camera del Lavoro, a Milano, a difesa di quanti avevano bisogno di una tutela legale. I professionisti che la Cgil metteva a disposizione dei propri associati, però, non ricevano un onorario in linea con i minimi fissati dall’ordine degli avvocati, ma venivano retribuiti secondo un meccanismo che in qualche modo anticipava il contigent fee: una piccola quota percentuale di quanto l’operaio otteneva, in caso di successo, finiva all’avvocato. Ed era certamente meno di quanto un legale avrebbe ottenuto in un rapporto professionale ordinario.
Si capisce perché le cose funzionassero così. Gli avvocati prestavano tale servizio anche sulla base di una motivazione ideale, e lo facevano indirizzandosi spesso a persone con un reddito modesto, che non avrebbero avuto tutela se avessero dovuto retribuire il legale secondo i parametri prefissati.
Quando però la cosa si seppe, l’avvocato Ichino venne convocato dall’ordine, a quel tempo guidato da Giuseppe Prisco, che gli fece presente come il suo comportamento e quello degli altri avvocati della Camera del Lavoro fosse illegale. Ichino però non indietreggiò, chiedendo anzi a Prisco e all’ordine di adire le vie legali nei loro riguardi, dato che poteva essere una buona occasione per mettere in discussione i minimi stessi e aprire un contenzioso in grado di smuovere la situazione. All’italiana, alla fine l’ordine finse di non vedere e tutto restò come prima.
L’episodio è interessante, anche perché fa piacere constatare come – in date circostanze – la Camera del Lavoro abbia giocato “su posizioni liberiste”. Quando la regolazione impedisce a un sindacato di operare secondo le proprie logiche e seguendo la propria ispirazione, è normale che esso si ribelli dinanzi a quella forma di dirigismo e la metta in discussione. Ma è triste dover prendere atto che, qualche decennio dopo, il tema della difesa corporativa dei compensi professionali minimi resta d’attualità, a causa di un ceto politico che continua a essere prigioniero della parte più miope e arretrata del mondo dei professionisti.